L’uso (e abuso) degli inglesismi nella lingua italiana e nel linguaggio giuridico ed istituzionale

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L’uso (e abuso) degli inglesismi nella lingua italiana e nel linguaggio giuridico ed istituzionale

 

Breve introduzione: inquadramento del fenomeno

Nel corso degli ultimi anni si assiste all’utilizzo sempre più diffuso e frequente di termini ed espressioni inglesi, tanto nella vita privata quanto in ambito lavorativo. Basti pensare ad espressioni come weekend, full-time, social network, influencer, email, smartphone, ormai entrate nel linguaggio comune quotidiano. Anche a livello pubblico, politico, legislativo ed amministrativo, il ricorso alla terminologia inglese si è notevolmente accentuato, attraverso l’utilizzo da più parti di termini inglesi, sia nella comunicazione istituzionale che nei testi legislativi ed amministrativi: smart working, lockdown, welfare, spending review, stalking, mobbing, sono soltanto alcuni degli esempi, forse tra i più noti.

Parallelamente, si è altresì diffusa la prassi di coniare nuovi termini di matrice inglese ma italianizzati, quali googlare, linkare, postare etc.

Ci si chiede se e quale impatto può avere un uso così diffuso degli inglesismi sull’evoluzione non solo della lingua italiana, ma anche del linguaggio giuridico ed istituzionale, sia scritto che parlato.

 

Inglesismi in senso lato: anglicismi, slang, neologismi

Innanzitutto è opportuno operare una sommaria distinzione tra anglicismi (o anglismi), slang, e neologismi.

Con anglicismo si indica una parola, termine o locuzione propria della lingua inglese, importata  nella lingua italiana e recepita nella sua forma originale (esempio: week-end, smartphone) ovvero adattata alla lingua di destinazione sotto l’aspetto fonetico o ortografico (es. rosbif per roast-beef).

La maggior parte degli anglicismi proviene da specifici ambiti e settori tecnico-scientifici ed economici, (quali l’informatica, la biotecnologia, lo sport, il management e la finanza) sviluppatesi all’estero o in paesi anglofoni come Regno Unito e Stati Uniti.

Con slang o gergo, ci si riferisce a termini informali e colloquiali appositamente coniati ed usati convenzionalmente in determinati contesti (privati, lavorativi, ricreativi etc), da un ristretto gruppo, cerchia o categorie di persone in luogo dei termini propri della lingua di appartenenza. Come già accennato in precedenza, nel fenomeno qui analizzato le espressioni gergali assumono forme italianizzate partendo da termini e locuzioni di origine inglese (ghosting, chill, post, feedback).

Infine, con neologismo si intendono quei termini, parole e locuzioni nuove, create usando espressioni in uso nella propria lingua di appartenenza, ovvero originarie di una lingua straniera (ad esempio selfie, bitcoin, streaming). I neologismi rispondono all’esigenza di esprimere concetti nuovi, definire nuovi oggetti, sistemi o fenomeni culturali (in questo caso si parla di neologismi lessicali), ovvero di attribuire nuovi significati a parole già in uso (in questo caso di parla di neologismi semantici).

 

Sulla rilevanza degli inglesismi

Tutti gli inglesismi in senso lato sopra descritti possono essere utilizzati sia nel linguaggio parlato che in quello scritto, ma non tutti gli inglesismi, pur quando utilizzati di frequente in determinati contesti, acquisiscono la stessa rilevanza agli occhi della legge e della lingua italiana.

Sul piano legale, va intanto precisato che l’ordinamento giuridico italiano tutela la lingua italiana, riconoscendola come lingua ufficiale dello Stato. Siffatto riconoscimento è offerto in prima battuta dalla Costituzione stessa, seppur in maniera implicita: l’art 6 della Carta Costituzionale, infatti, nel tutelare le minoranze linguistiche presenti sul territorio dello Stato, riconosce indirettamente il primato della lingua italiana quale lingua ufficiale della Repubblica, da usarsi obbligatoriamente salvo le deroghe imposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari. Questa appena citata è, in estrema sintesi, l’interpretazione sposata direttamente dalla Corte Costituzionale e più volte ribadita in diverse sue pronunce (cfr ex multis, Corte Cost Sent n. 28/1982; Corte Cost. Sent. n. 210/2018), a conferma del rango costituzionale del principio di ufficialità della lingua italiana. Del resto, l’italiano è la lingua ufficiale sia del testo della Costituzione stessa, sia dei lavori parlamentari.

Inoltre, in una pronuncia di qualche anno fa, la Corte Costituzionale ha fatto un ulteriore passo in avanti elevando la lingua italiana a vero e proprio “bene culturale”, da salvaguardare, conformemente all’art. 9 della Costituzione, ai fini della trasmissione del patrimonio storico e identitario della Repubblica, (cfr Corte Cost., Sent. n. 42/2017).

Il riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica è poi avvenuto anche  attraverso l’adozione della Legge n. 482/1999 – legge che introduce norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche – ove, ai sensi dell’art. 1, co. 1, è espressamente previsto che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano». Sempre la Corte Costituzione, col chiaro intento di tutelare la lingua italiana, ha poi precisato che il riconoscimento operato nell’art. 1 della legge appena citata non ha una funzione meramente formale, ma «rappresenta un criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso di altre lingue, evitando che queste ultime possano essere considerate alternative alla lingua italiana, ovvero tali da relegarla a un ruolo di marginalità». (cfr Corte Cost., 22.5.2009, n. 159)

L’italiano come lingua ufficiale della Repubblica è, dunque, lo strumento da utilizzare in via preminente nella redazione di atti e documenti, non solo pubblici ma anche privati, e nella comunicazione - istituzionale e non - tra i pubblici poteri ed i privati, allo scopo di dare certezza giuridica ai rapporti sorti tra i soggetti appartenenti all’ordinamento italiano; nonché per evitare altresì che la tutela delle minoranze linguistiche e storico-culturali, si risolva, paradossalmente, in un pregiudizio del buon andamento delle amministrazioni e, in generale, della collettività.

Alla luce di quanto sopra esposto, i termini stranieri nel nostro ordinamento italiano, in concreto, possono acquisire valore giuridicamente rilevante quando introdotti in un atto, documento o comunicazione, nel rispetto di determinate condizioni, criteri di legge e principi costituzionali, tra cui: l’uso della lingua italiana per scrivere atti e documenti è obbligatorio, così come lo è per effettuare comunicazioni istituzionali e non; nei casi di introduzione di termini stranieri, è necessario il riferimento alla lingua italiana quale criterio interpretativo dei suddetti termini, in conformità al canone di preminenza della lingua ufficiale della Repubblica. In presenza di minoranze linguistiche tutelate costituzionalmente, in linea di massima bisogna garantire che il documento o la comunicazione in lingua minoritaria vengano resi anche in lingua italiana.

Siffatto processo di introduzione degli inglesismi nella sfera giuridica italiana, come già accennato, si è sensibilmente accentuato negli ultimi anni, soprattutto con l’introduzione di leggi che disciplinano ambiti a contenuto economico, tecnologico e digitale. Termini come smart working, whistleblowing, privacy, stalking, jobs Act, sono di frequente usati nelle comunicazioni istituzionali e dai media, eppure non compaiono mai nei testi legislativi ufficiali: solo per citare alcuni esempi, all’interno dei testi delle rispettive leggi, non si parla di “smart working” ma di “lavoro agile”; non si parla di “stalking”, ma di gli “atti persecutori”; non si parla di “privacy”, ma di “protezione dei dati personali”.

Ci sono poi norme di legge che al loro interno contengono inglesismi per riferirsi ad istituti giuridici o ad organi istituzionali: si pensi al recente Decreto Legge n. 173/2022, rubricato “Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei Ministeri”, convertito con Legge n. 204/2022, con il quale si è modificata la denominazione del vecchio “Ministero per lo sviluppo Economico in “Ministero delle imprese e del Made in Italy; ovvero la Legge n. 206/2023 rubricata “Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy” - legge che, tra le altre, istituisce la giornata nazionale del Made in Italy con celebrazione il 15 aprile di ogni anno - nel cui testo legislativo sono presenti termini come voucher, imprese target e, appunto, made in italy.

Infine, gli stessi provvedimenti ufficiali di Autorità come il Garante della Privacy o l’AGCOM contengono diversi inglesismi[1]; qui va sottolineato che le Autorità appena citate hanno sempre l’accortezza di associare ad ogni inglesismo inserito nei propri provvedimenti il corrispettivo significato in italiano (ad esempio, i famosi “cookies”, in italiano, sono i “marcatori temporanei”)

Nel processo di introduzione nei testi legislativi degli inglesismi, una cenno merita il Servizio per la qualità degli atti normativi presso il Senato Il Servizio cura la revisione e la predisposizione tecnica degli atti legislativi, dei documenti e delle relazioni delle Commissioni e delle relazioni presentate alle Camere. Presta altresì consulenza puntuale nella redazione dei testi dei disegni di legge presentati in Senato. Nell'ambito del Servizio, inoltre, l'Ufficio per la fattibilità amministrativa e per l'analisi di impatto degli atti in itinere e l'Osservatorio sull'attuazione degli atti normativi realizzano mirati studi e ricerche sui temi della qualità e della valutazione di impatto della regolamentazione, producendo specifici dossier e note brevi[2].

Sul piano lessicale, un inglesismo acquisisce maggior peso non solo quando ben formato, ma soprattutto se e quando il suo uso si diffonde nel linguaggio della collettività per un tempo significativo, fino ad essere accolto nei dizionari italiani Quanto appena descritto vale in generale per la creazione e sviluppo delle parole “nuove”, siano esse italiane o prese in prestito da altre lingue, di nuova formazione ovvero già esistenti ma che col tempo hanno assunto un nuovo significato o il loro utilizzo ha subìto per vari motivi un forte incremento (cd “ritorno”).

Normalmente l’ingresso di un inglesismo quale parola nuova serve ad identificare oggetti o concetti che prima non avevano un equivalente in italiano, o che lo avevano ma il suo utilizzo risultava essere meno pratico; o ancora che l’oggetto o concetto da identificare è di origine o creazione straniera e, di conseguenza, il termine straniero originale meglio identifica propriamente quell’oggetto o concetto.

Spesso la creazione, uso e diffusione di una parola nuova richiede un processo lungo anche diversi decenni. A titolo di esempio, la parola influencer ha visto la sua prima apparizione nel 2007, la sua affermazione nel 2015, e l’ingresso nei dizionari nel 2017. Il termine content creator, invece, ha fatto la sua prima apparizione nel 2002, ma si è affermato soltanto tra il 2020 e il 2021, per poi essere inserito nei dizionari tra il 2022 e il 2024. La parola webinar ha visto la sua prima apparizione nel 2007, l’inserimento nei dizionari tra il 2011 e il 2014, ed un “ritorno” con una sua affermazione nel 2020 (anno del COVID, ndr)

Nel processo di creazione e diffusione di nuove parole, un attore fondamentale è senz’altro l’Accademia della Crusca, noto organo deputato  allo studio, alla divulgazione, alla promozione e alla conoscenza storica della lingua italiana; in particolare, presso l’Accademia si è formato nel 2015 il Gruppo Incipit,  avente lo scopo di  di monitorare i neologismi e forestierismi nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede. Esso rilascia pareri e comunicati sugli inglesismi e forestierismi di nuovo arrivo impiegati nell’uso quotidiano, proponendo, se del caso, soluzioni linguistiche alternative agli operatori. In tal senso, interessante è il parere espresso dal Gruppo Incipit sull’uso poco chiaro del termine “compliance” da parte dell’Agenzia delle Entrate[3]; così come il parere espresso sull’uso di “data breach”, con la proposta di renderlo “violazione dei dati” [4]; o il parere espresso sull’uso di “whistleblower”, da rendere in “allertatore civico”[5]

I due processi – legale e lessicale – di introduzione degli inglesismi sopra descritti sono in stretta correlazione tra loro, pur restando reciprocamente autonomi: un inglesismo può acquisire valore sul piano lessicale ma non giuridico, e viceversa.

 

Conseguenze di un potenziale abuso degli inglesismi

Un abuso degli inglesismi impatta sia sotto il profilo prettamente linguistico che giuridico. Sotto il primo profilo, l’ingresso di un notevole numero di anglicismi può  avere come conseguenza negativa una compromissione dell’identità linguistica della Repubblica a causa dell’eccessiva contaminazione della lingua italiana corrente; va inoltre aggiunto che l’ingresso di certi termini stranieri non sempre appare giustificato da criteri di necessità e maggior efficienza della diffusione del termine straniero stesso, specie nelle ipotesi in cui un termine o una locuzione italiana può spiegare in maniera altrettanto efficace il significato di un determinato concetto. Sul piano prettamente giuridico, poi, l’utilizzo indiscriminato degli inglesismi negli atti legislativi ed amministrativi, nei contratti, e documenti giuridici in generale, nonché nelle comunicazioni istituzionali, può minarne trasparenza ed efficacia giuridica. In particolare, ciò accade quando questi termini sono usati impropriamente per riferirsi a specifici istituti giuridici italiani (ad esempio quando certi inglesismi fanno riferimento ad istituti di derivazione anglosassone, o comunque stranieri, tecnicamente diversi da quelli propri del nostro ordinamento); ovvero quando inseriti all’interno dell’atto o documento senza associarvi il loro corrispettivo italiano; o ancora quando certi inglesismi non sono altro che espressioni gergali diffuse nel linguaggio parlato in ristretti ambiti o contesti sociali. Nondimeno, quando gli anglicismi sono utilizzati nella loro corretta accezione, ma in numero considerevole, o addirittura quando viene utilizzata in via esclusiva la lingua inglese nella redazione di atti, contratti, e nella comunicazione pubblica e privata, nonché all’interno di determinati contesti sociali ed organizzativi, il pregiudizio arrecato può spingersi fino a minare i principi di non discriminazione e preminenza dell’italiano quale lingua ufficiale della Repubblica (si veda a tal proposito la già citata Sentenza n. 42/2017 della Corte Costituzionale, che, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale in merito all’attivazione di interi corsi universitari esclusivamente in lingua inglese da parte del Politecnico di Milano, ha sottolineato come in questi casi sia opportuno che tali corsi in lingua straniera si affianchino ad analoghi corsi universitari già erogati in italiano, allo scopo di garantire una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana)

E’ pur vero che in certi passaggi i testi legislativi e i provvedimenti sono scritti usando un linguaggio giuridico di difficile comprensione ai non addetti ai lavori, spesso anche per l’utilizzo sovrabbondante di formule arcaiche e tecnicismi. Da questo punto di vista, l’uso degli inglesismi, soprattutto nelle comunicazioni verso il cittadino, sembra essere, apparentemente, lo strumento di comunicazione più efficace ed accessibile.

 

In conclusione

Come si è visto, un argine contro l’abuso degli inglesismi è fornito in primo luogo dal rispetto e dalla corretta applicazione tanto delle regole lessicali che dei criteri giuridici per l’introduzione degli inglesismi stessi, rispettivamente, nell’italiano scritto e parlato, e nei testi giuridici; oltre che da un monitoraggio costante ed effettivo da parte degli organi a ciò preposti (primi fra tutti il Gruppo Incipit – Accademia della Crusca da un lato, seguito dal Servizio per la qualità degli atti normativi del Senato) circa la diffusione degli inglesismi nella lingua italiana.

Resta auspicabile anche un espresso riconoscimento a livello costituzionale della lingua italiana come lingua ufficiale della Repubblica. Sembrerebbe fisiologico, infatti, voler tutelare la propria lingua madre sancendone il valore preminente prima di tutto all’interno della Costituzione stessa: altre costituzioni europee – quella spagnola, francese e portoghese – già da tempo hanno adottato al loro interno delle formulazioni a tutela della propria lingua. Invero, di recente (il 27 dicembre 2022) è stata presentata una proposta di legge di riforma costituzionale, avente ad oggetto la modifica degli artt.li 6 e 12 della Costituzione, al fine di ottenere l’espresso riconoscimento a livello costituzionale della lingua italiana come lingua ufficiale della Repubblica (oltre che del canto degli italiani di Goffredo Mameli come inno nazionale della Repubblica, ndr).

Maggiori perplessità, invece, ha suscitato la proposta di legge presentata il 23/12/2022, rubricata “disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana”. Il testo della proposta si compone di 8 articoli che introdurrebbero in capo ad enti pubblici ed organizzazioni private diversi obblighi, tra cui l’uso della la lingua italiana per la fruizione di beni e servizi e per qualsiasi comunicazione pubblica, nelle attività scolastiche e universitarie, nei rapporti di lavoro e nelle strutture organizzative di enti e aziende, pena l’applicazione di sanzioni pecuniarie che possono arrivare anche fino a 100.000 Euro. Ad avviso di chi scrive, forse sarebbe più opportuno intervenire in contesti sociali ed organizzativi quali quello scolastico, universitario e lavorativo al fine di promuovere un processo di sensibilizzazione circa l’importanza, il valore e la bellezza della lingua italiana, per un uso più consapevole e moderato degli inglesismi e dei forestierismi in generale, nel rispetto del principio di preminenza ed ufficialità della lingua italiana.

 

 

[1]Ad esempio, termini come cookies, publisher, web, scrolling, top level domain, streaming, sono contenuti rispettivamente nei provvedimenti del Garante della Privacy e dell’AGCOM

[2]A tal proposito si veda il dossier pubblicato dal Servizio circa l'uso dei termini stranieri nei testi normativi  QUAN - Approfondimento - 1

[5]Si veda il parere completo al link Chiamiamo "allertatore civico" il "whistleblower" - Accademia della Crusca Nel parere si legge testualmente come il Gruppo Incipit <<invita tutti i responsabili dell’informazione a sostituire, nell’uso e nelle comunicazioni con il largo pubblico, il termine inglese opaco e di ostica pronuncia “whistleblower”, letteralmente “soffiatore nel fischietto”, con il più chiaro “allertatore civico”>>.