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L’utilizzo dei fondi interprofessionali per la formazione continua da parte delle aziende: dalle linee guida del 2010 ai futuri sviluppi

Governo, Regioni e parti sociali hanno cercato di far fronte alla crisi puntando sulla formazione dei lavoratori in CIG, mobilità o disoccupazione. Non solo quindi utilizzo di ammortizzatori sociali, ma anche politiche attive del lavoro attraverso la formazione continua, previa individuazione dei fabbisogni necessari, come già anticipato dalle indicazioni della Commissione europea e dalla agenzia per lo sviluppo e la formazione, cd Cedefop, che hanno messo in campo circa 2,5 miliari di euro destinati appunto alla formazione.

A livello europeo in Francia sono coinvolti il Ministero dell’Istruzione e i centri per l’impiego pubblici, vi è cooperazione con le parti sociali e le imprese, ma i sussidi sono esclusivamente pubblici e volti alla creazione del cd repertorio delle competenze. Analogamente in Spagna, sono coinvolti Stato e associazioni datoriali, accanto ai sindacati, ma i bandi di assegnazione delle risorse restano pubblici, esiste una Fondazione tripartita per la formazione sul lavoro gestita da governo e parti sociali. Nel Regno Unito vi è una agenzia per lo sviluppo delle competenze di settore, le risorse sono pubbliche, ma i consigli di settore che formano gli accordi dovrebbero diventare autonomi grazie al finanziamento delle imprese. In Germania sono coinvolti più soggetti: parti sociali, centri di ricerca, imprese, centri di formazione professionale, le risorse sono gestite dal Ministero Federale per l’istruzione e la ricerca mentre i privati cooperano nel fornire i dati.

Queste linee nascono dal fatto che a livello europeo e internazionale si sta sviluppando un nuovo modo di far formazione, si cerca cioè sull’esempio tedesco di promuovere una formazione cd chirurgica, ad hoc, attenta alle esigenze del mercato al fine non tanto di garantire l’occupabilità a vita, ma di orientare le scelte formative in campi vuoti, dove cioè la domanda di lavoro delle imprese è più alta, mentre l’offerta dei lavoratori scarsa o addirittura assente.

Le linee guida del 2010 sono il risultato del rapporto De Rita, pubblicato l’anno precedente, rapporto commissionato dal Ministero del Lavoro che ha evidenziato le problematiche in campo formativo caratterizzato da disuguaglianze territoriali e dall’impiego inefficiente del FSE, nonché dallo scollamento rispetto al mercato del lavoro attuale, come già emerso peraltro dal Libro Bianco del 2009. Accanto al rapporto De Rita che sottolineava la necessità di un maggior coinvolgimento delle parti sociali nella formazione, va anche ricordato il “Piano per l’occupabilità dei giovani nell’ottica dell’integrazione fra apprendimento e lavoro” del 2009 che analizza la possibilità di potenziare l’occupazione giovanile attraverso lo sviluppo di competenze e la scelta di adeguati percorsi educativi e formativi.

Dunque non più distribuzione a pioggia dei FSE, ma distribuzione calibrata, in funzione dei risultati, previa fotografia del fabbisogno formativo e occupazionale del territorio, monitorato da enti bilaterali, agenzie di somministrazione e consulenti del lavoro. Solo coinvolgendo direttamente gli attori del dialogo sociali in sinergia tra loro e coloro che quotidianamente si affacciano sul mercato del lavoro (enti bilaterali, agenzie interinali, consulenti del lavoro, parti sociali) si possono moltiplicare le possibilità formative e di incontro fra domanda e offerta.

Cinque sono i punti salienti delle linee guida sulla formazione, come già anticipato nell’Accordo del 12.02.2009 e poi ribadito nel nuovo Accordo del 17.02.2010, accordo in funzione del quale i quali i soggetti coinvolti cercano di investire le risorse, lo schema è semplice e delinea un nuovo modo di concepire la formazione, in sintesi: rilevazione dei fabbisogni territoriali, promozione degli strumenti dell’apprendistato, tirocini, IFTS, contratti di inserimento, certificazione delle competenze, con particolare attenzione alle fasce deboli del mercato del lavoro.

1. Rilevazione dei fabbisogni, a tal proposito è istituita una cabina di regia nazionale presso il Ministero del Lavoro che effettuerà rilevazioni su base regionale delegando in un’ottica di sussidiarietà i consulenti del lavoro, gli enti bilaterali e le agenzie di somministrazione. La cabina di regia quindi effettuerà rapporto ai soggetti firmatari degli accordi sugli ammortizzatori sociali, nonché ai fondi e a tutti i soggetti coinvolti. Lo scopo è quello di raccogliere i profili necessari al mercato del lavoro, in modo tale da orientare i giovani e riorientare i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, posto che esistono bacini di occupazione non immediatamente accessibili che forniscono allo stato attuale buone possibilità di inserimento.

2. Apprendimento per competenze attraverso la certificazione sul libretto formativo ex art. 2 del dlgs 276/2003 e mediante la promozione dell’istruzione tecnica, anche attraverso il rilancio dello strumento dell’apprendistato (nelle tre vesti di professionalizzante, diritto-dovere e alta formazione). Nell’ambito della certificazione delle competenze, ricordiamo che l’Europa ha approvato sia i principi comuni europei sulla validazione nel 2004, sia le linee guida per la validazione dell’apprendimento nel 2009 con coinvolgimento degli stakeholder per costruire sistemi di validazione. Precedenti sistemi di certificazione e validazione delle competenze in Europa sono rappresentati da paesi come la Francia che con la sua commissione nazionale prepara i repertori nazionali delle qualificazioni, mentre nel Regno Unito il sistema dei crediti formativi è integrato con il sistema educativo e in Finlandia ciascuna struttura educativa ha una forte autonomia su base locale con un valutatore esterno all’impresa, infine in Olanda, ad esempio, esiste il centro per il riconoscimento delle competenze acquisite ed il processo di certificazione può avvenire a più livelli.

3. Diversificazione delle azioni formative sia per diplomati che non diplomati attraverso i tirocini di inserimento lavorativo specie per inoccupati e studenti e attraverso i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore, IFTS.

4. Formazione per adulti over 50 attraverso accordi di formazione per il rientro dei cassaintegrati, si tratta di corsi personalizzati rivolti a soggetti in mobilità nel 2010 finanziati dai fondi interprofessionali, fermo restando il vincolo dell’iscrizione al fondo da parte dell’azienda cui il lavoratore apparteneva. Accanto a corsi di reinserimento, si prevede la creazione di punti di informazione sull’esempio francese e programmi di formazione nei luoghi produttivi, nonché impiego dei lavoratori inattivi quali tutor e rilancio del contratto di reinserimento per gli over 50.

5. Previsione di un meccanismo di certificazione delle competenze su libretto formativo, in tal modo si rafforza la trasparenza delle competenze e si facilita l’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

I fondi interprofessionali quindi verranno utilizzati come previsto dalle linee guida per la creazione di corsi di formazione, reinserimento, apprendistato, corsi che saranno gestiti da enti bilaterali e agenzie di somministrazione.

Ma quanti sono i fondi presenti sul mercato? Le risorse sono ingenti, la legislazione ha provveduto al loro riconoscimento già dal 2001 con una serie di norme, infatti la finanziaria 2001 prevedeva la costituzione di fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione sulla base di accordi sottoscritti tra le parti sociali per i principali settori economici. I fondi sono alimentati con un contributo dello 0.30% versato dai datori privati per finanziare la formazione aziendale, settoriale e territoriale. Nel 2003 l’Inps è intervenuta a più riprese illustrando le caratteristiche dei fondi, le modalità di adesione, mentre il Ministero del Lavoro è intervenuto sui criteri di ripartizione, suddividendo i versamenti accantonati fra i vari fondi sulla base del numero dei dipendenti; viene altresì istituito un osservatorio per la formazione continua che si avvale della consulenza dell’Isfol, si determina parimenti il sistema dei controlli e del monitoraggio. Nel 2004 l’Inps prevede ulteriori precisazioni e chiarimenti in merito all’operatività di detti fondi, mentre il Ministero del Lavoro ripartisce le risorse. Nel 2005 il Ministero proroga l’utilizzo delle risorse fino a 36 mesi dalla data di erogazione, viene istituito il fondo degli enti religiosi. Nel 2006 il Ministero autorizza i fondi paritetici nel settore dell’artigianato e commercio, viene rafforzata l’azione dell’Osservatorio nazionale della formazione continua. Quindi nel 2007 nasce un nuovo fondo per l’artigianato e commercio nella piccola e media azienda e il fondo dell’agricoltura. Nel 2008 nasce il fondo banche e assicurazioni, mentre nel 2009 i fondi interprofessionali vengono utilizzati per la prima volta in deroga, ovvero eccezionalmente come sostegno al reddito per apprendisti o lavoratori a progetto. Nello stesso anno si prevede altresì la mobilità fra fondi, ovvero la possibilità di trasferire ad un nuovo fondo parte delle risorse erogate al fondo precedente, la scelta di adesione o mutamento del fondo compare nel documento Uniemens.

La partita più grande si giocherà quando le parti sociali entro il primo semestre del 2011 si troveranno in un tavolo nazionale dedicato all’offerta formativa e in un’ottica di sinergia pubblico-privato, dovranno rivedere i sistemi di accreditamento, dando spazio a nuovi operatori, presumibilmente enti bilaterali, consulenti del lavoro e agenzie di somministrazione, definendo i criteri di ripartizione delle risorse.

Ci si chiede se un fondo interprofessionale in quanto ente dotato di personalità giuridica oppure altro ente/istituzione formativa, possano acquisire il ruolo di “cervello” nelle strategie e nelle politiche per la formazione.

Va chiarito che i fondi sono tenuti dall’Inps che ne è il tesoriere, ma i criteri di ripartizione dei fondi sono effettuati dal Ministero del Lavoro, ciò che può variare è la distribuzione degli stessi, non più con criteri a pioggia, come è stato fatto con gli FSE, ma con un’azione mirata, ovvero con i risultati dell’attività. Il punto 1 dell’Accordo che attribuisce al Ministero del lavoro la cabina di regia nella gestione del fondo e agli operatori esterni l’analisi dei fabbisogni, va in questa direzione. Si auspica in una fase iniziale una distribuzione delle risorse non tanto in base al numero dei dipendenti iscritti a quel fondo, ma al contrario una ripartizione che tenga conto anche dei risultati occupazionali conseguiti a seguito dell’erogazione dei fondi. Il Ministero potrebbe decidere di elargire le risorse secondo lo schema dei fabbisogni territoriali, ma solo in prima istanza, e verificare successivamente a posteriori quanti soggetti a seguito di quel corso o quell’iniziativa formativa siano stati ricollocati effettivamente sul mercato del lavoro. Più sono i soggetti ricollocati sul mercato, più risorse dovrebbero essere distribuite a quel territorio, altrimenti si rischia davvero l’autoreferenzialità e di finanziare le solite cattedrali nel deserto.

Per quanto attiene agli strumenti e alle modalità per poter attivare la raccolta dei fabbisogni professionali e formativi, si auspica una raccolta dei fabbisogni formativi su base territoriale in funzione del tessuto economico di quel determinato territorio, computando le domande degli imprenditori inevase e le offerte dei lavoratori che, se discordanti rispetto alle richieste del territorio, dovrebbero essere reindirizzate. La mappatura dei territori può avvenire confrontando le banche dati dei centri per l’impiego, agenzie di somministrazione e centri di formazione professionale, in modo tale da creare una rete sinergica fra i singoli operatori locali.

Nel caso in cui un Fondo venga gestito dagli enti bilaterali, la caratteristica migliore dovrà essere la trasparenza, per cui data l’analisi del fabbisogno territoriale, la risposta formativa dovrà essere tempestiva, documentata e pubblicizzata, in maniera tale da dissipare ogni possibile critica. Si auspica anche l’organizzazione di un sistema di controllo ministeriale che intervenga ex ante ed ex post o eventualmente in itinere sul controllo della spesa.

In tema invece di certificazione delle competenze e libretto formativo, la validazione delle competenze che può emergere dalla qualifica professionale, dal titolo di studio o dagli anni spesi in azienda, può aver senso solo se collegata di fatto ad un inquadramento contrattuale coerente, altrimenti rimane uno strumento superfluo. Se cioè si certifica senza che poi questa certificazione obbligatoriamente debba essere recepita dal datore in contratto, non ha senso parlare di certificazione, indipendentemente da chi poi la realizza.

I fondi interprofessionali possono diventare uno strumento per facilitare l’incontro fra domanda ed offerta, solo quando rispondono ai seguenti requisiti: studio serio e reale sulle effettive necessità del territorio, in modo da creare o riconvertire professionalità che servano alle imprese; distribuzione dei fondi non integralmente in funzione del numero dei dipendenti, ma in base alle esigenze delle imprese, tenendo conto in secondo istanza del tasso di occupabilità effettiva realizzato; trasparenza nella gestione dei fondi da parte degli operatori esterni che verranno accreditati; infine controllo sulla gestione in itinere sulle spese effettuate e solo marginalmente ex post, delegato agli organi ministeriali.

In quest’ottica, il discorso della formazione per l’azienda può essere affrontato in diversi modi, l’azienda potrebbe provvedere alla formazione all’interno dei propri locali e durante l’orario di lavoro ma in cambio dovrebbe poter detassare e ottenere sgravi che vadano a diminuire il costo del lavoro. Nel caso in cui invece l’azienda non provvede alla formazione che è delegata invece al singolo lavoratore, questi dovrebbe avere la possibilità di detrarre fiscalmente le spese effettuate per frequentare i corsi. Corsi di formazione che il dipendente dovrebbe sostenere in parte nel suo tempo libero, in parte utilizzando un certo numero di giornate pagate dall’azienda. La formazione quindi deve diventare obbligo, ma deve essere sostenuta, per le imprese ottenendo sgravi, per il singolo lavoratore recuperando in parte le spese. Molti enti pubblici più progrediti hanno iniziato ad attuare la politica delle giornate di formazione, si pensi ad alcune Regioni o all’INPS e INAIL che concedono ai loro dipendenti alcune giornate all’anno di formazione completamente retribuite. Fino a qualche tempo fa gli insegnanti che procedevano a loro spese ad effettuare corsi di formazione potevano perfino procedere a detrazione delle spese in sede di dichiarazione dei redditi. Poi ci sono le potenzialità e-learning utilizzate, ad esempio, nel sistema sanitario che prevedono anche test di valutazione alla fine dei corsi on line, quest’ultima strategia consente al dipendente di far formazione nel proprio tempo libero a costo zero.

Se dunque migliorare le competenze presuppone un vantaggio competitivo, ci si chiede infine perché le aziende dovrebbero finanziare la formazione anche a dipendenti che potrebbero non continuare il loro iter lavorativo nella stessa azienda. In realtà un’azienda che investe in formazione potrebbe apporre eventuali clausole al contratto, per fidelizzare il lavoratore, ma fondamentalmente un’azienda seria che investe su un lavoratore e fa vera formazione, difficilmente vedrà un proprio dipendente andarsene.

Governo, Regioni e parti sociali hanno cercato di far fronte alla crisi puntando sulla formazione dei lavoratori in CIG, mobilità o disoccupazione. Non solo quindi utilizzo di ammortizzatori sociali, ma anche politiche attive del lavoro attraverso la formazione continua, previa individuazione dei fabbisogni necessari, come già anticipato dalle indicazioni della Commissione europea e dalla agenzia per lo sviluppo e la formazione, cd Cedefop, che hanno messo in campo circa 2,5 miliari di euro destinati appunto alla formazione.

A livello europeo in Francia sono coinvolti il Ministero dell’Istruzione e i centri per l’impiego pubblici, vi è cooperazione con le parti sociali e le imprese, ma i sussidi sono esclusivamente pubblici e volti alla creazione del cd repertorio delle competenze. Analogamente in Spagna, sono coinvolti Stato e associazioni datoriali, accanto ai sindacati, ma i bandi di assegnazione delle risorse restano pubblici, esiste una Fondazione tripartita per la formazione sul lavoro gestita da governo e parti sociali. Nel Regno Unito vi è una agenzia per lo sviluppo delle competenze di settore, le risorse sono pubbliche, ma i consigli di settore che formano gli accordi dovrebbero diventare autonomi grazie al finanziamento delle imprese. In Germania sono coinvolti più soggetti: parti sociali, centri di ricerca, imprese, centri di formazione professionale, le risorse sono gestite dal Ministero Federale per l’istruzione e la ricerca mentre i privati cooperano nel fornire i dati.

Queste linee nascono dal fatto che a livello europeo e internazionale si sta sviluppando un nuovo modo di far formazione, si cerca cioè sull’esempio tedesco di promuovere una formazione cd chirurgica, ad hoc, attenta alle esigenze del mercato al fine non tanto di garantire l’occupabilità a vita, ma di orientare le scelte formative in campi vuoti, dove cioè la domanda di lavoro delle imprese è più alta, mentre l’offerta dei lavoratori scarsa o addirittura assente.

Le linee guida del 2010 sono il risultato del rapporto De Rita, pubblicato l’anno precedente, rapporto commissionato dal Ministero del Lavoro che ha evidenziato le problematiche in campo formativo caratterizzato da disuguaglianze territoriali e dall’impiego inefficiente del FSE, nonché dallo scollamento rispetto al mercato del lavoro attuale, come già emerso peraltro dal Libro Bianco del 2009. Accanto al rapporto De Rita che sottolineava la necessità di un maggior coinvolgimento delle parti sociali nella formazione, va anche ricordato il “Piano per l’occupabilità dei giovani nell’ottica dell’integrazione fra apprendimento e lavoro” del 2009 che analizza la possibilità di potenziare l’occupazione giovanile attraverso lo sviluppo di competenze e la scelta di adeguati percorsi educativi e formativi.

Dunque non più distribuzione a pioggia dei FSE, ma distribuzione calibrata, in funzione dei risultati, previa fotografia del fabbisogno formativo e occupazionale del territorio, monitorato da enti bilaterali, agenzie di somministrazione e consulenti del lavoro. Solo coinvolgendo direttamente gli attori del dialogo sociali in sinergia tra loro e coloro che quotidianamente si affacciano sul mercato del lavoro (enti bilaterali, agenzie interinali, consulenti del lavoro, parti sociali) si possono moltiplicare le possibilità formative e di incontro fra domanda e offerta.

Cinque sono i punti salienti delle linee guida sulla formazione, come già anticipato nell’Accordo del 12.02.2009 e poi ribadito nel nuovo Accordo del 17.02.2010, accordo in funzione del quale i quali i soggetti coinvolti cercano di investire le risorse, lo schema è semplice e delinea un nuovo modo di concepire la formazione, in sintesi: rilevazione dei fabbisogni territoriali, promozione degli strumenti dell’apprendistato, tirocini, IFTS, contratti di inserimento, certificazione delle competenze, con particolare attenzione alle fasce deboli del mercato del lavoro.

1. Rilevazione dei fabbisogni, a tal proposito è istituita una cabina di regia nazionale presso il Ministero del Lavoro che effettuerà rilevazioni su base regionale delegando in un’ottica di sussidiarietà i consulenti del lavoro, gli enti bilaterali e le agenzie di somministrazione. La cabina di regia quindi effettuerà rapporto ai soggetti firmatari degli accordi sugli ammortizzatori sociali, nonché ai fondi e a tutti i soggetti coinvolti. Lo scopo è quello di raccogliere i profili necessari al mercato del lavoro, in modo tale da orientare i giovani e riorientare i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, posto che esistono bacini di occupazione non immediatamente accessibili che forniscono allo stato attuale buone possibilità di inserimento.

2. Apprendimento per competenze attraverso la certificazione sul libretto formativo ex art. 2 del dlgs 276/2003 e mediante la promozione dell’istruzione tecnica, anche attraverso il rilancio dello strumento dell’apprendistato (nelle tre vesti di professionalizzante, diritto-dovere e alta formazione). Nell’ambito della certificazione delle competenze, ricordiamo che l’Europa ha approvato sia i principi comuni europei sulla validazione nel 2004, sia le linee guida per la validazione dell’apprendimento nel 2009 con coinvolgimento degli stakeholder per costruire sistemi di validazione. Precedenti sistemi di certificazione e validazione delle competenze in Europa sono rappresentati da paesi come la Francia che con la sua commissione nazionale prepara i repertori nazionali delle qualificazioni, mentre nel Regno Unito il sistema dei crediti formativi è integrato con il sistema educativo e in Finlandia ciascuna struttura educativa ha una forte autonomia su base locale con un valutatore esterno all’impresa, infine in Olanda, ad esempio, esiste il centro per il riconoscimento delle competenze acquisite ed il processo di certificazione può avvenire a più livelli.

3. Diversificazione delle azioni formative sia per diplomati che non diplomati attraverso i tirocini di inserimento lavorativo specie per inoccupati e studenti e attraverso i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore, IFTS.

4. Formazione per adulti over 50 attraverso accordi di formazione per il rientro dei cassaintegrati, si tratta di corsi personalizzati rivolti a soggetti in mobilità nel 2010 finanziati dai fondi interprofessionali, fermo restando il vincolo dell’iscrizione al fondo da parte dell’azienda cui il lavoratore apparteneva. Accanto a corsi di reinserimento, si prevede la creazione di punti di informazione sull’esempio francese e programmi di formazione nei luoghi produttivi, nonché impiego dei lavoratori inattivi quali tutor e rilancio del contratto di reinserimento per gli over 50.

5. Previsione di un meccanismo di certificazione delle competenze su libretto formativo, in tal modo si rafforza la trasparenza delle competenze e si facilita l’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

I fondi interprofessionali quindi verranno utilizzati come previsto dalle linee guida per la creazione di corsi di formazione, reinserimento, apprendistato, corsi che saranno gestiti da enti bilaterali e agenzie di somministrazione.

Ma quanti sono i fondi presenti sul mercato? Le risorse sono ingenti, la legislazione ha provveduto al loro riconoscimento già dal 2001 con una serie di norme, infatti la finanziaria 2001 prevedeva la costituzione di fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione sulla base di accordi sottoscritti tra le parti sociali per i principali settori economici. I fondi sono alimentati con un contributo dello 0.30% versato dai datori privati per finanziare la formazione aziendale, settoriale e territoriale. Nel 2003 l’Inps è intervenuta a più riprese illustrando le caratteristiche dei fondi, le modalità di adesione, mentre il Ministero del Lavoro è intervenuto sui criteri di ripartizione, suddividendo i versamenti accantonati fra i vari fondi sulla base del numero dei dipendenti; viene altresì istituito un osservatorio per la formazione continua che si avvale della consulenza dell’Isfol, si determina parimenti il sistema dei controlli e del monitoraggio. Nel 2004 l’Inps prevede ulteriori precisazioni e chiarimenti in merito all’operatività di detti fondi, mentre il Ministero del Lavoro ripartisce le risorse. Nel 2005 il Ministero proroga l’utilizzo delle risorse fino a 36 mesi dalla data di erogazione, viene istituito il fondo degli enti religiosi. Nel 2006 il Ministero autorizza i fondi paritetici nel settore dell’artigianato e commercio, viene rafforzata l’azione dell’Osservatorio nazionale della formazione continua. Quindi nel 2007 nasce un nuovo fondo per l’artigianato e commercio nella piccola e media azienda e il fondo dell’agricoltura. Nel 2008 nasce il fondo banche e assicurazioni, mentre nel 2009 i fondi interprofessionali vengono utilizzati per la prima volta in deroga, ovvero eccezionalmente come sostegno al reddito per apprendisti o lavoratori a progetto. Nello stesso anno si prevede altresì la mobilità fra fondi, ovvero la possibilità di trasferire ad un nuovo fondo parte delle risorse erogate al fondo precedente, la scelta di adesione o mutamento del fondo compare nel documento Uniemens.

La partita più grande si giocherà quando le parti sociali entro il primo semestre del 2011 si troveranno in un tavolo nazionale dedicato all’offerta formativa e in un’ottica di sinergia pubblico-privato, dovranno rivedere i sistemi di accreditamento, dando spazio a nuovi operatori, presumibilmente enti bilaterali, consulenti del lavoro e agenzie di somministrazione, definendo i criteri di ripartizione delle risorse.

Ci si chiede se un fondo interprofessionale in quanto ente dotato di personalità giuridica oppure altro ente/istituzione formativa, possano acquisire il ruolo di “cervello” nelle strategie e nelle politiche per la formazione.

Va chiarito che i fondi sono tenuti dall’Inps che ne è il tesoriere, ma i criteri di ripartizione dei fondi sono effettuati dal Ministero del Lavoro, ciò che può variare è la distribuzione degli stessi, non più con criteri a pioggia, come è stato fatto con gli FSE, ma con un’azione mirata, ovvero con i risultati dell’attività. Il punto 1 dell’Accordo che attribuisce al Ministero del lavoro la cabina di regia nella gestione del fondo e agli operatori esterni l’analisi dei fabbisogni, va in questa direzione. Si auspica in una fase iniziale una distribuzione delle risorse non tanto in base al numero dei dipendenti iscritti a quel fondo, ma al contrario una ripartizione che tenga conto anche dei risultati occupazionali conseguiti a seguito dell’erogazione dei fondi. Il Ministero potrebbe decidere di elargire le risorse secondo lo schema dei fabbisogni territoriali, ma solo in prima istanza, e verificare successivamente a posteriori quanti soggetti a seguito di quel corso o quell’iniziativa formativa siano stati ricollocati effettivamente sul mercato del lavoro. Più sono i soggetti ricollocati sul mercato, più risorse dovrebbero essere distribuite a quel territorio, altrimenti si rischia davvero l’autoreferenzialità e di finanziare le solite cattedrali nel deserto.

Per quanto attiene agli strumenti e alle modalità per poter attivare la raccolta dei fabbisogni professionali e formativi, si auspica una raccolta dei fabbisogni formativi su base territoriale in funzione del tessuto economico di quel determinato territorio, computando le domande degli imprenditori inevase e le offerte dei lavoratori che, se discordanti rispetto alle richieste del territorio, dovrebbero essere reindirizzate. La mappatura dei territori può avvenire confrontando le banche dati dei centri per l’impiego, agenzie di somministrazione e centri di formazione professionale, in modo tale da creare una rete sinergica fra i singoli operatori locali.

Nel caso in cui un Fondo venga gestito dagli enti bilaterali, la caratteristica migliore dovrà essere la trasparenza, per cui data l’analisi del fabbisogno territoriale, la risposta formativa dovrà essere tempestiva, documentata e pubblicizzata, in maniera tale da dissipare ogni possibile critica. Si auspica anche l’organizzazione di un sistema di controllo ministeriale che intervenga ex ante ed ex post o eventualmente in itinere sul controllo della spesa.

In tema invece di certificazione delle competenze e libretto formativo, la validazione delle competenze che può emergere dalla qualifica professionale, dal titolo di studio o dagli anni spesi in azienda, può aver senso solo se collegata di fatto ad un inquadramento contrattuale coerente, altrimenti rimane uno strumento superfluo. Se cioè si certifica senza che poi questa certificazione obbligatoriamente debba essere recepita dal datore in contratto, non ha senso parlare di certificazione, indipendentemente da chi poi la realizza.

I fondi interprofessionali possono diventare uno strumento per facilitare l’incontro fra domanda ed offerta, solo quando rispondono ai seguenti requisiti: studio serio e reale sulle effettive necessità del territorio, in modo da creare o riconvertire professionalità che servano alle imprese; distribuzione dei fondi non integralmente in funzione del numero dei dipendenti, ma in base alle esigenze delle imprese, tenendo conto in secondo istanza del tasso di occupabilità effettiva realizzato; trasparenza nella gestione dei fondi da parte degli operatori esterni che verranno accreditati; infine controllo sulla gestione in itinere sulle spese effettuate e solo marginalmente ex post, delegato agli organi ministeriali.

In quest’ottica, il discorso della formazione per l’azienda può essere affrontato in diversi modi, l’azienda potrebbe provvedere alla formazione all’interno dei propri locali e durante l’orario di lavoro ma in cambio dovrebbe poter detassare e ottenere sgravi che vadano a diminuire il costo del lavoro. Nel caso in cui invece l’azienda non provvede alla formazione che è delegata invece al singolo lavoratore, questi dovrebbe avere la possibilità di detrarre fiscalmente le spese effettuate per frequentare i corsi. Corsi di formazione che il dipendente dovrebbe sostenere in parte nel suo tempo libero, in parte utilizzando un certo numero di giornate pagate dall’azienda. La formazione quindi deve diventare obbligo, ma deve essere sostenuta, per le imprese ottenendo sgravi, per il singolo lavoratore recuperando in parte le spese. Molti enti pubblici più progrediti hanno iniziato ad attuare la politica delle giornate di formazione, si pensi ad alcune Regioni o all’INPS e INAIL che concedono ai loro dipendenti alcune giornate all’anno di formazione completamente retribuite. Fino a qualche tempo fa gli insegnanti che procedevano a loro spese ad effettuare corsi di formazione potevano perfino procedere a detrazione delle spese in sede di dichiarazione dei redditi. Poi ci sono le potenzialità e-learning utilizzate, ad esempio, nel sistema sanitario che prevedono anche test di valutazione alla fine dei corsi on line, quest’ultima strategia consente al dipendente di far formazione nel proprio tempo libero a costo zero.

Se dunque migliorare le competenze presuppone un vantaggio competitivo, ci si chiede infine perché le aziende dovrebbero finanziare la formazione anche a dipendenti che potrebbero non continuare il loro iter lavorativo nella stessa azienda. In realtà un’azienda che investe in formazione potrebbe apporre eventuali clausole al contratto, per fidelizzare il lavoratore, ma fondamentalmente un’azienda seria che investe su un lavoratore e fa vera formazione, difficilmente vedrà un proprio dipendente andarsene.