Nascita indesiderata e calma apparente
Tanto tuonò che piovve. Pervasa dallo spirito natalizio la Corte di Cassazione nella composizione più autorevole il 22 dicembre ha risolto (seppur apparentemente) l’annosa questione sulla nascita indesiderata. La pronuncia che ci si appresta a commentare è destinata a far parlare di se perché si presenta come una voce fuori dal coro dalla tradizione ermeneutico-assiologica percorsa nell’ultimo periodo dalle Sezioni Unite. La vicenda posta all’attenzione del Supremo Collegio muove dalla domanda di risarcimento dei danni avanzata da due genitori conseguiti alla nascita della figlia, affetta da sindrome di Down. Questi, assumevano che la gestante era stata avviata al parto, senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito valori non rassicuranti. Nel giudizio si costituirono tutti i convenuti, nonché la Assitalia s.p.a., chiamata in causa dal medico curante. La sentenza del Tribunale di Lucca, che rigettò la domanda, è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze. La Corte fiorentina ha osservato che, “anche a voler considerare provata la volontà della gestante di orientarsi verso l’aborto, non emergono neppure indizi per ritenere che sussisteva per la medesima il diritto di ricorrere alla interruzione della gravidanza, in presenza dei presupposti di legge, e cioè del grave pericolo per la salute fisica o psichica”; ha pertanto ritenuto che, “non potendosi affermare il diritto della gestante ad interrompere comunque la gravidanza in presenza di anomalie o malformazioni del feto, la domanda proposta in proprio non può trovare accoglimento, rimanendo quindi assorbita la questione se effettivamente sussisteva il dedotto inadempimento all’obbligo di esatta informazione, contestato ai convenuti”. Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dai genitori in nome e per conto della figlia, la Corte ha rilevato che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al medesimo un diritto a non nascere o a non nascere se non sano” e che non è quindi “configurabile il diritto al risarcimento dei danni prospettato dagli attori, in qualità di genitori della minore, quale pregiudizio conseguente alla nascita, atteso che la tutela dell’individuo (che con la nascita acquista la personalità giuridica) nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse”.
Punto di partenza della relativa disamina è l’interpretazione della Legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza. In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza (articolo 6: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).
Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell’embrione, che persona deve ancora diventare (Corte Costituzionale 18 febbraio 1975 n. 20). In questa cornice normativa, la prima censura oggetto di esame delle Sezioni Unite ripropone l’annoso problema del riparto dell’onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata. L’impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all’articolo 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato senza limitarsi a seguire le direttive della paziente. Occorre però che l’interruzione sia legalmente consentita ovvero che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in difetto delle quali verrebbe integrata una pratica penalmente vietata. Oltre a ciò, dev’essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni di legge. Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un “fatto complesso” connotato da molteplici sfaccettature che si riversano in un’indagine conoscitiva, tutt’altro che scontata, sulle reali intenzioni della gestante. In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie, onde sarà necessario il ricorso a presunzioni. Ci si riferisce alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’articolo 2729 del codice civile, che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit - che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera dei notorio (articolo 115, secondo comma, del codice di procedura civile) - ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche - emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc.. In tema si registrano due orientamenti contrastanti che, pur muovendo entrambi dalla premessa secondo cui, spetta alla donna l’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza divergono allorquando si tratta di individuare il tipo e, più specificamente, il contenuto della prova richiesta alla madre. Un primo e più risalente orientamento ritiene “corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto” (Cass. n. 6735/2002, ribadita da Cass. n. 14488/2004 e più recentemente da Cass. n. 13/2010 e da Cass. n.15386/2011): si è affermato, in particolare, che “è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso”. Tale orientamento è stato sottoposto a critica da alcune pronunce, a partire da Cass. n. 16754/2012, che ha evidenziato come in mancanza di una preventiva “espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica” la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un “indizio isolato del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza)”, dal quale “il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico”, non potendo pertanto riconoscersi una “automatica significazione richiesta di diagnosi = interruzione di gravidanza in caso di diagnosi di malformazioni”. Le SS.UU. sposano la tesi da ultimo menzionata rifuggendo da qualsiasi richiesta di probatio diabolica in capo alla gestante. È da escludere, infatti, che tale indagine debba approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto essendo sufficiente un’indagine multilivello sulle emergenze probatorie. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno ín re ípsa occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna ex art.6 lett. b) 1. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio. Tale approdo lascia tuttavia un senso di insoddisfazione se solo si valuta il tema del wrongful birth lawsuit nell’ambito della più generica condizione di medical malpractise. Se infatti l’omessa o la carente attività informativa è, secondo orientamento pacifico e tralatizio, fonte di responsabilità in capo al sanitario (anche al di fuori della gestazione se solo si pensa alla estenuante protezione del diritto di autodeterminazione), in questo settore sembra lumeggiarsi un regime atipico, specialistico e particolarmente pericoloso. La soluzione offerta dal Supremo Collegio sembra aver definitivamente sgretolato il mito della responsabilità da contatto in ambito medico. Nessun dubbio può sorgere in ordine al regime probatorio aggravato che sortisce dalla pronuncia in commento in capo alla gestante. Questa infatti, pur se esonerata da una prova empirica di tipo diagnostico – patologico, comunque non è facoltizzata alla mera allegazione del fatto costitutivo del danno dovendo quanto meno tratteggiarne confini e contenuto. Il percorso ormai inaugurato dalla Legge Balduzzi (Decreto Legge n. 158/2012, convertito in Legge 189/2012), sembra ormai inarrestabile essendo in atto una trasmigrazione indotta della natura della responsabilità medica verso i lidi della extracontrattualità. Scelta politica questa frutto di un baratto tra le istanze della classe medica sempre più rivolte alla medicina difensiva ed il diritto alla salute immolato sull’altare dell’economia e del risparmio.
Ancora più marcato è il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che col suo inadempimento abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza, rispetto alla quale si registrano decisioni di segno opposto al consolidato orientamento negativo, che hanno reso necessario la rimessione al Collegio. Com’è noto, l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile anche un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano” (che sarebbe un “diritto adespota” in quanto “non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più”), con la conseguenza che, “verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto” (Cass. n. 14488/2004; conformi Cass. n. 16123/2006 e Cass. 10741/2009). Di contro, è stato affermato che, “una volta esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato”, dovrebbe ammettersi in caso di omessa diagnosi di malformazioni congenite che “il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” (Cass. n. 9700/2011). Ed ancora che, “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e rappresentato dell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire” (Cass. n. 16754/2012).
È questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due filosofie di pensiero segnati spesso da accese polemiche in connotate ideologicamente in favore o contro la presunzione jurís et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata.Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all’articolo 1 del codice civile (“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”). Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione sarebbe “prima facie” in contrasto con il principio generale sopra richiamato. Eppure affermano le SS.UU. che tale prospettazione, apparentemente preclusiva è tutt’altro che assoluta. È vero, in linea generale, che l’attribuzione di soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri. Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica per confermare l’astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita.La giurisprudenza ha già da tempo negato che l’esclusione del diritto al risarcimento possa fondarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita. Alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività, ma considerandolo quale oggetto di particolare tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n.27; Cass sez. 3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).Tale principio informa espressamente diverse norme dell’ordinamento. Così, l’articolo 1, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito (“AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla in fertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”). Analogo concetto è riflesso nell’articolo 1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l’esigenza di proteggere la salute del concepito (articolo 1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi…: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento’). Infine, nell’ambito della stessa normativa codicistica, l’articolo 254 prevede il riconoscimento dei figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione dei minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute (cfr. articolo 41 del codice penale).
Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in ipotesi, l’autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata (Cass. 11 maggio 2009 n 10741).Se dunque l’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita,incorre tuttavia in una contraddizione insuperabile dal momento che nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita. L’ordinamento positivo infatti non riconosce il diritto alla non vita, cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). Eclettiche le tesi sostenute dai fautori di un riconoscimento positivo del diritto a non nascere tra coloro i quali sostengono l’esistenza di una facoltà indiretta discendente dalla gestante e coloro che rivelano un’inspiegabile antinomia tra le posizioni del padre o dei germani e quelle del figlio malformato. Valore dirimente secondo il Supremo Collegio ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato. La soluzione negativa propugnata dalle SS.UU. trova conforto nella tradizione straniera, con un bizzarro tentativo di accostamento di tradizioni giuridiche diverse. Le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983). Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato ( BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority).
Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile le difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale. Del resto il paradosso sarebbe secondo il Collegio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’articolo 6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza, dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato.
La pronuncia delle Sezioni Unite su un aspetto così delicato ed ideologicamente orientato rivela la sua inadeguatezza e contraddittorietà. La soluzione negazionista infatti a cui è pervenuto il Collegio non rinviene fondamento nella carenza di legittimazione attiva quanto nella “inconsistenza del diritto azionato”. Sembra però superflua ogni considerazione sulla tradizione europea e soprattutto sul sistema di welfare. Un dovere dello Stato sociale non può precludere aprioristicamente un diritto al risarcimento di un danno tangibile ed esistente. Il pregiudizio dell’antinomia in re ipsa del diritto a non nascere è circostanza superabile ed iperbolicamente valorizzata dalla giurisprudenza. L’errore di valutazione consiste nel ritenere il pregiudizio patito dal nascituro come circostanza inevitabile e causalmente multifattoriale. Invece la pretesa del nato malformato si sostanzia nella genuinità di una esistenza relazionale in qualità di essere sociale. Non persuade l’idea che alcun danno conseguenza sia rintracciabile nel patrimonio dell’handicappato che anzi percepisce la sua minorazione proprio nel rapporto con gli altri. Il diritto al risarcimento allora lungi dall’avere funzione punitiva rientra nei ranghi della compensazione sostanziandosi nella quantificazione economica di un pregiudizio esistenziale di vita. L’alternativa del non nascere al nascere in perfetta salute si giustifica in ragione della primazia della vita di relazione ed in comunità per come professato dall’articolo 2 della Costituzione. Il diritto allo svolgimento della personalità menomato dall’attività sanitaria errata non può restare privo di tutele in un contesto assiologicamente orientato. Non può condividersi del resto l’opinione di chi ritiene che un siffatto ragionamento configuri un’inevitabile mercificazione del diritto alla vita ed all’esistenza umana, rappresentando invero l’affermazione della primazia dello status personae sul dogma economico. In un panorama giurisprudenziale tendenzialmente aperto a soluzioni case by case l’horror vacui lasciato dalla sentenza rappresenta il combustibile per alimentare il focolaio giurisprudenziale tutt’altro che sopito.
Tanto tuonò che piovve. Pervasa dallo spirito natalizio la Corte di Cassazione nella composizione più autorevole il 22 dicembre ha risolto (seppur apparentemente) l’annosa questione sulla nascita indesiderata. La pronuncia che ci si appresta a commentare è destinata a far parlare di se perché si presenta come una voce fuori dal coro dalla tradizione ermeneutico-assiologica percorsa nell’ultimo periodo dalle Sezioni Unite. La vicenda posta all’attenzione del Supremo Collegio muove dalla domanda di risarcimento dei danni avanzata da due genitori conseguiti alla nascita della figlia, affetta da sindrome di Down. Questi, assumevano che la gestante era stata avviata al parto, senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito valori non rassicuranti. Nel giudizio si costituirono tutti i convenuti, nonché la Assitalia s.p.a., chiamata in causa dal medico curante. La sentenza del Tribunale di Lucca, che rigettò la domanda, è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze. La Corte fiorentina ha osservato che, “anche a voler considerare provata la volontà della gestante di orientarsi verso l’aborto, non emergono neppure indizi per ritenere che sussisteva per la medesima il diritto di ricorrere alla interruzione della gravidanza, in presenza dei presupposti di legge, e cioè del grave pericolo per la salute fisica o psichica”; ha pertanto ritenuto che, “non potendosi affermare il diritto della gestante ad interrompere comunque la gravidanza in presenza di anomalie o malformazioni del feto, la domanda proposta in proprio non può trovare accoglimento, rimanendo quindi assorbita la questione se effettivamente sussisteva il dedotto inadempimento all’obbligo di esatta informazione, contestato ai convenuti”. Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dai genitori in nome e per conto della figlia, la Corte ha rilevato che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al medesimo un diritto a non nascere o a non nascere se non sano” e che non è quindi “configurabile il diritto al risarcimento dei danni prospettato dagli attori, in qualità di genitori della minore, quale pregiudizio conseguente alla nascita, atteso che la tutela dell’individuo (che con la nascita acquista la personalità giuridica) nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse”.
Punto di partenza della relativa disamina è l’interpretazione della Legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza. In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza (articolo 6: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).
Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell’embrione, che persona deve ancora diventare (Corte Costituzionale 18 febbraio 1975 n. 20). In questa cornice normativa, la prima censura oggetto di esame delle Sezioni Unite ripropone l’annoso problema del riparto dell’onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata. L’impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all’articolo 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato senza limitarsi a seguire le direttive della paziente. Occorre però che l’interruzione sia legalmente consentita ovvero che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in difetto delle quali verrebbe integrata una pratica penalmente vietata. Oltre a ciò, dev’essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni di legge. Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un “fatto complesso” connotato da molteplici sfaccettature che si riversano in un’indagine conoscitiva, tutt’altro che scontata, sulle reali intenzioni della gestante. In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie, onde sarà necessario il ricorso a presunzioni. Ci si riferisce alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’articolo 2729 del codice civile, che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit - che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera dei notorio (articolo 115, secondo comma, del codice di procedura civile) - ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche - emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc.. In tema si registrano due orientamenti contrastanti che, pur muovendo entrambi dalla premessa secondo cui, spetta alla donna l’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza divergono allorquando si tratta di individuare il tipo e, più specificamente, il contenuto della prova richiesta alla madre. Un primo e più risalente orientamento ritiene “corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto” (Cass. n. 6735/2002, ribadita da Cass. n. 14488/2004 e più recentemente da Cass. n. 13/2010 e da Cass. n.15386/2011): si è affermato, in particolare, che “è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso”. Tale orientamento è stato sottoposto a critica da alcune pronunce, a partire da Cass. n. 16754/2012, che ha evidenziato come in mancanza di una preventiva “espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica” la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un “indizio isolato del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza)”, dal quale “il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico”, non potendo pertanto riconoscersi una “automatica significazione richiesta di diagnosi = interruzione di gravidanza in caso di diagnosi di malformazioni”. Le SS.UU. sposano la tesi da ultimo menzionata rifuggendo da qualsiasi richiesta di probatio diabolica in capo alla gestante. È da escludere, infatti, che tale indagine debba approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto essendo sufficiente un’indagine multilivello sulle emergenze probatorie. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno ín re ípsa occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna ex art.6 lett. b) 1. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio. Tale approdo lascia tuttavia un senso di insoddisfazione se solo si valuta il tema del wrongful birth lawsuit nell’ambito della più generica condizione di medical malpractise. Se infatti l’omessa o la carente attività informativa è, secondo orientamento pacifico e tralatizio, fonte di responsabilità in capo al sanitario (anche al di fuori della gestazione se solo si pensa alla estenuante protezione del diritto di autodeterminazione), in questo settore sembra lumeggiarsi un regime atipico, specialistico e particolarmente pericoloso. La soluzione offerta dal Supremo Collegio sembra aver definitivamente sgretolato il mito della responsabilità da contatto in ambito medico. Nessun dubbio può sorgere in ordine al regime probatorio aggravato che sortisce dalla pronuncia in commento in capo alla gestante. Questa infatti, pur se esonerata da una prova empirica di tipo diagnostico – patologico, comunque non è facoltizzata alla mera allegazione del fatto costitutivo del danno dovendo quanto meno tratteggiarne confini e contenuto. Il percorso ormai inaugurato dalla Legge Balduzzi (Decreto Legge n. 158/2012, convertito in Legge 189/2012), sembra ormai inarrestabile essendo in atto una trasmigrazione indotta della natura della responsabilità medica verso i lidi della extracontrattualità. Scelta politica questa frutto di un baratto tra le istanze della classe medica sempre più rivolte alla medicina difensiva ed il diritto alla salute immolato sull’altare dell’economia e del risparmio.
Ancora più marcato è il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che col suo inadempimento abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza, rispetto alla quale si registrano decisioni di segno opposto al consolidato orientamento negativo, che hanno reso necessario la rimessione al Collegio. Com’è noto, l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile anche un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano” (che sarebbe un “diritto adespota” in quanto “non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più”), con la conseguenza che, “verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto” (Cass. n. 14488/2004; conformi Cass. n. 16123/2006 e Cass. 10741/2009). Di contro, è stato affermato che, “una volta esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato”, dovrebbe ammettersi in caso di omessa diagnosi di malformazioni congenite che “il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” (Cass. n. 9700/2011). Ed ancora che, “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e rappresentato dell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire” (Cass. n. 16754/2012).
È questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due filosofie di pensiero segnati spesso da accese polemiche in connotate ideologicamente in favore o contro la presunzione jurís et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata.Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all’articolo 1 del codice civile (“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”). Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione sarebbe “prima facie” in contrasto con il principio generale sopra richiamato. Eppure affermano le SS.UU. che tale prospettazione, apparentemente preclusiva è tutt’altro che assoluta. È vero, in linea generale, che l’attribuzione di soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri. Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica per confermare l’astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita.La giurisprudenza ha già da tempo negato che l’esclusione del diritto al risarcimento possa fondarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita. Alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività, ma considerandolo quale oggetto di particolare tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n.27; Cass sez. 3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).Tale principio informa espressamente diverse norme dell’ordinamento. Così, l’articolo 1, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito (“AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla in fertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”). Analogo concetto è riflesso nell’articolo 1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l’esigenza di proteggere la salute del concepito (articolo 1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi…: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento’). Infine, nell’ambito della stessa normativa codicistica, l’articolo 254 prevede il riconoscimento dei figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione dei minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute (cfr. articolo 41 del codice penale).
Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in ipotesi, l’autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata (Cass. 11 maggio 2009 n 10741).Se dunque l’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita,incorre tuttavia in una contraddizione insuperabile dal momento che nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita. L’ordinamento positivo infatti non riconosce il diritto alla non vita, cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). Eclettiche le tesi sostenute dai fautori di un riconoscimento positivo del diritto a non nascere tra coloro i quali sostengono l’esistenza di una facoltà indiretta discendente dalla gestante e coloro che rivelano un’inspiegabile antinomia tra le posizioni del padre o dei germani e quelle del figlio malformato. Valore dirimente secondo il Supremo Collegio ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato. La soluzione negativa propugnata dalle SS.UU. trova conforto nella tradizione straniera, con un bizzarro tentativo di accostamento di tradizioni giuridiche diverse. Le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983). Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato ( BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority).
Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile le difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale. Del resto il paradosso sarebbe secondo il Collegio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’articolo 6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza, dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato.
La pronuncia delle Sezioni Unite su un aspetto così delicato ed ideologicamente orientato rivela la sua inadeguatezza e contraddittorietà. La soluzione negazionista infatti a cui è pervenuto il Collegio non rinviene fondamento nella carenza di legittimazione attiva quanto nella “inconsistenza del diritto azionato”. Sembra però superflua ogni considerazione sulla tradizione europea e soprattutto sul sistema di welfare. Un dovere dello Stato sociale non può precludere aprioristicamente un diritto al risarcimento di un danno tangibile ed esistente. Il pregiudizio dell’antinomia in re ipsa del diritto a non nascere è circostanza superabile ed iperbolicamente valorizzata dalla giurisprudenza. L’errore di valutazione consiste nel ritenere il pregiudizio patito dal nascituro come circostanza inevitabile e causalmente multifattoriale. Invece la pretesa del nato malformato si sostanzia nella genuinità di una esistenza relazionale in qualità di essere sociale. Non persuade l’idea che alcun danno conseguenza sia rintracciabile nel patrimonio dell’handicappato che anzi percepisce la sua minorazione proprio nel rapporto con gli altri. Il diritto al risarcimento allora lungi dall’avere funzione punitiva rientra nei ranghi della compensazione sostanziandosi nella quantificazione economica di un pregiudizio esistenziale di vita. L’alternativa del non nascere al nascere in perfetta salute si giustifica in ragione della primazia della vita di relazione ed in comunità per come professato dall’articolo 2 della Costituzione. Il diritto allo svolgimento della personalità menomato dall’attività sanitaria errata non può restare privo di tutele in un contesto assiologicamente orientato. Non può condividersi del resto l’opinione di chi ritiene che un siffatto ragionamento configuri un’inevitabile mercificazione del diritto alla vita ed all’esistenza umana, rappresentando invero l’affermazione della primazia dello status personae sul dogma economico. In un panorama giurisprudenziale tendenzialmente aperto a soluzioni case by case l’horror vacui lasciato dalla sentenza rappresenta il combustibile per alimentare il focolaio giurisprudenziale tutt’altro che sopito.