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Novità in tema di anatocismo bancario: ritorno al passato sulla decorrenza della prescrizione

Con la sentenza 28 febbraio 2011 n. 1271 la il Tribunale di Lucca è tornato ad occuparsi di una delle questioni giurisprudenziali più dibattute in tema di divieto di anatocismo nei contratti bancari ovvero l’individuazione del dies a quo relativo alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c.

Oggetto della controversia in epigrafe è, infatti, la ripetizione di quanto indebitamente versato in qualità di interessi anatocistici da parte del ricorrente nei riguardi della Cassa di risparmio di Lucca.

Imprescindibile appare, pertanto, al fine di meglio comprendere le statuizioni cui è giunto il Tribunale, ripercorrere l’articolato, ma certamente interessante, iter giurisprudenziale che ha portato all’attuale ricostruzione della figura dell’anatocismo bancario e la fissazione del termine iniziale di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di indebito ( da ultimo Corte Cost. 78/2012).

Con il termine anatocismo l’art. 1283 c.c. si riferisce ad un particolare fenomeno in virtù del quale si realizza la produzione di interessi sugli interessi già maturati sul capitale iniziale. Da un primo esame del addentellato normativo si evince che il nostro ordinamento ammette la pratica anatocistica solo in tre ipotesi tassative ovvero 1) in presenza di un’apposita convenzione delle parti, in relazione alla quale si suole parlare di anatocismo convenzionale, purché questa sia posteriore alla scadenza degli interessi e si riferisca ad interessi dovuti per almeno sei mesi; 2) ove ci sia una domanda giudiziale, tale è il caso dell’anatocismo giudiziale, ed al ricorrere delle medesime condizioni dell’anatocismo convenzionale e cioè la domanda posteriore alla scadenza degli interessi e relativa ad interessi dovuti per almeno sei mesi; ed, infine, 3) l’anatocismo usuale riferito alla sussistenza di un uso normativo contrario che sappia derogare alla disciplina generale.

Il fenomeno dell’anatocismo ha suscitato particolare attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza più recente in relazione alla prassi diffusa degli istituti di credito di procedere, in applicazione delle norme bancarie uniformi del 1951, alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dei clienti a fronte di una capitalizzazione che è annuale per i saldi attivi dei clienti stessi. Nella specie, ci si è chiesti se lo stesso si possa considerare un uso contrario che, in virtù della previsione di cui all’art. 1283 c.c. sia capace di configurare un uso normativo idoneo a derogare al divieto di anatocismo.

In particolare, quanto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi (per il periodo antecedente al 30/10/2001), deve osservarsi che la clausola contrattuale prevedente la chiusura trimestrale del conto (in caso di conto passivo) ed annuale del conto (in caso di conto attivo) e l'addebito in conto degli interessi (con conseguente loro imputazione a capitale mediante una forma di "pagamento contabile") determina un "effetto assimilabile a quello anatocistico".

La Corte di Cassazione, per circa cinquant'anni, ha ritenuto che tale effetto non fosse in contrasto con il divieto previsto dall'art. 1283 c.c. in quanto dovuto ad un uso normativo formatosi in materia bancaria. Com'è noto, tale pluriennale orientamento è stato nell'ultimo quindicennio al centro di un révirément della corte di legittimità (cfr. Cass. civ., 16/3/1999, n.2374: Cass. civ. 30/3/1999. n.3096. Cass. civ. I 11/11/1999. n. 12507), fatto proprio dalle Sezioni Unite, nella nota pronuncia n.21095 del 4/11/2004, cui si è uniformata la successiva giurisprudenza delle sezioni semplici. Tale orientamento sostiene che le clausole anatocistiche disciplinate dalla normativa in vigore prima del dlgs. n,342 del 1999 sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'art. 1283, cod. civ., poiché basate non già su un "uso normativo", come sostenuto nelle pronunce precedenti, ma su un "uso negoziale".

Secondo tale orientamento, manca "per affermare l'esistenza di un uso normativo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, a una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis)".

Tale percorso argomentativo è stato portato ulteriormente a termine dalla corte di Cassazione con la sentenza delle sezioni unite n.24.418 del 2010, resa in tema di capitalizzazione annuale degli interessi e di prescrizione dell'azione d'indebito. Sulla scorta della decisione delle Sezioni Unite, l’affermazione più significativa è che le clausole contrattuali che prevedevano la capitalizzazione degli interessi erano contrarie a legge e, come tali, nulle. Il principio può ormai considerarsi consolidato, essendo stato ripetuto in più occasioni dalla Corte di cassazione.

Escluso che si possa produrre la nullità dell’intero contratto per effetto della previsione anatocistica, la clausola nulla (quella sulla capitalizzazione degli interessi) si considera come non apposta, con la conseguenza che è improduttiva di effetti. Le prestazioni che sono già state effettuate sulla base della pattuizione nulla vanno restituite. Di conseguenza le azioni in giudizio in materia di anatocismo terminano tipicamente con la condanna della banca alla restituzione degli interessi indebitamente percepiti.

Più precisamente si verifica un indebito oggettivo: secondo la previsione di legge, chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato (art. 2033 c.c.). L’ azione di ripetizione di indebito si prescrive in anni dieci dalla chiusura del rapporto; sul punto la S.C. di fatto ha solo confermato, rafforzandone le motivazioni, il precedente proprio orientamento.

La pregressa giurisprudenza della Corte aveva difatti già affermato che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute indebitamente dalla banca a titolo di interessi su di una apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi; sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro (Cass. 14 maggio 2005, n.10127 e, prima, Cass. 9 aprile 1984, n. 2262).

Ecco il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24418 del 2010: "Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati".

La Suprema Corte del 2010 ha precisato che l’annotazione in conto di ogni singola posta di interessi comporta solo un mero incremento del saldo a debito del correntista (oppure una riduzione del saldo a credito) ma non costituisce sic et simpliciter un “pagamento avente natura solutoria”. Allorquando il saldo di c/c dovesse presentare una situazione di “oltre fido”, ovvero di scoperto (cioè: saldo negativo in assenza di fido), i successivi versamenti che il correntista andasse ad effettuare per il rientro nei limiti del fido (c.d. “ripristino della provvista”) ovvero, in caso di assenza di fido, per rientrare dallo scoperto, integrerebbero la fattispecie di pagamenti aventi natura solutoria.

Ovviamente non l’intero ammontare di tale rimessa avrebbe natura solutoria, bensì solo quella parte del versamento utile al rientro dell’extra fido . La sentenza in epigrafe sembra optare, discostandosi dagli orientamenti più recenti poc’anzi richiamati, per una soluzione differente contestando la tesi dell'unitarietà del rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, "sicchè è soltanto con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro" .

In particolare, la contraria tesi in questione appariva destituita di fondamento sotto una pluralità di profili: (a) non esplorava la possibilità di configurare il contratto di conto corrente di corrispondenza come un contratto normativo (o quadro) all'interno del quale i singoli atti esecutivi conservano una propria autonomia strutturale; (b) non teneva conto della disciplina dell'art. 1832 c.c. da leggersi, secondo pacifica giurisprudenza della corte di Cassazione, in relazione all'art. 1827 c.c.; (c) non teneva conto della giurisprudenza della corte di legittimità in tema di mandato, rendiconto e prescrizione delle azioni nascenti dal mandato; (d) ometteva di considerare la correlazione sussistente tra prescrizione decennale e obbligo di conservazione decennale della documentazione inerente le singole operazioni (art. 119) TUB); (e) non teneva conto, infine, che il credilo del correntista è immediatamente esigibile ex art. 1852 c.c., e non spiegava ragionevolmente perché nella materia per cui è causa si dovesse derogare alla disciplina degli artt. 1422 e 1827 c.c., in relazione agli artt. 2934 e 2935 c.c.

L'argomento del frazionamento del rapporto bancario è dirimente per ripudiare la tesi dell'unitarietà del rapporto quale argomento fondante la tesi della decorrenza della prescrizione della condictio indebiti dalla chiusura definitiva del rapporto bancario. Inoltre, da una sua logica e coerente applicazione appare evidente la manifesta non pertinenza delle conclusioni del supremo consesso in punto di criterio d'individuazione dei pagamenti oggetto della condictio indebiti, criterio basato - in caso di apertura di credito regolata in conto corrente - sulla distinzione tra conto passivo e conto scoperto, tra rimesse ripristinatone e rimesse solutorie.

Sono davvero singolari, sul piano pratico, le conseguenze del ragionamento della Corte, seguendo il quale potrebbe non aversi mai pagamento nel corso di un rapporto bancario, che pure è oneroso, delle spese, delle commissioni, degli interessi maturati dalla banca per le prestazioni effettuate a favore del correntista. La distinzione da farsi non è tra conto passivo e conto scoperto, che è irrilevante ma tra tipologia di debito verso la banca.

La distinzione tra conto scoperto e conto passivo, tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, attiene al rapporto di provvista, all'utilizzo della somma messa a disposizione del cliente per eseguire le operazioni (in genere, pagamenti) a favore dei terzi e al conseguente debito di restituzione che non è immediatamente esigibile, ma lo sarà al momento della chiusura definitiva del rapporto.

La distinzione non è tuttavia replicabile per il diverso credito maturato periodicamente dalla banca per i servizi prestati a favore del correntista e per il rimborso delle spese. In ogni caso, la richiamata clausola di regolamentazione (e imputazione) in conto delle spese, commissioni, interessi maturati dalia banca nei confronti del correntista è idonea a determinare proprio quella eccezione indicata dalla Corte nella sentenza richiamata: il credito della banca per le spese, le commissioni, gli interessi (in generate, per i costi di gestione del rapporto e dell'affidamento) è un credito immediatamente esigibile alla chiusura trimestrale del conto.

L'annotazione in conto dei crediti in parola ai la chiusura periodica equivarrebbe, in questa prospettiva, a uso della provvista in funzione dei rapporti di valuta, con la conseguenza che la prescrizione decollerebbe in corso di rapporto, dalla chiusura periodica (in genere, trimestrale) del conto assistito da apertura di credito.

Come costituisce, infatti, pagamento l'esecuzione di un bonifico impartito dal cliente a favore di un terzo ed eseguito dalla banca mediante utilizzo della somma messa a disposizione del cliente {tipico esempio d'utilizzo del rapporto di provvista in funzione del rapporto di valuta), allo stesso modo, in questa prospettiva, costituirebbe pagamento l'utilizzo della stessa somma (ancora una volta esempio d'utilizzo del rapporto di provvista in funzione del rapporto di valuta) per il pagamento dei corrispettivi maturati dalla banca nel periodo di riferimento.

In termini pratici le conseguenze dell'adesione all'una o all'altra opzione interpretativa sono di scarsa o nessuna rilevanza. Nel primo caso, la prescrizione decennale della condictio indebiti decorrerà dalla data del versamento estintivo; nel secondo caso, la prescrizione decorrerà dalla chiusura trimestrale del rapporto.

Tuttavia, atteso che i conti correnti assistiti da apertura di credito sono connotati, di norma, da uri ritmico afflusso di operazioni attive e passive, sicché in genere alla chiusura trimestrale del conto, seguono nei giorni successivi versamenti idonei a determinare l'estinzione, in tutto o parte, dei crediti in parola, la questione, pur rilevante teoricamente, in pratica si ridimensiona.

Con la sentenza 28 febbraio 2011 n. 1271 la il Tribunale di Lucca è tornato ad occuparsi di una delle questioni giurisprudenziali più dibattute in tema di divieto di anatocismo nei contratti bancari ovvero l’individuazione del dies a quo relativo alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c.

Oggetto della controversia in epigrafe è, infatti, la ripetizione di quanto indebitamente versato in qualità di interessi anatocistici da parte del ricorrente nei riguardi della Cassa di risparmio di Lucca.

Imprescindibile appare, pertanto, al fine di meglio comprendere le statuizioni cui è giunto il Tribunale, ripercorrere l’articolato, ma certamente interessante, iter giurisprudenziale che ha portato all’attuale ricostruzione della figura dell’anatocismo bancario e la fissazione del termine iniziale di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di indebito ( da ultimo Corte Cost. 78/2012).

Con il termine anatocismo l’art. 1283 c.c. si riferisce ad un particolare fenomeno in virtù del quale si realizza la produzione di interessi sugli interessi già maturati sul capitale iniziale. Da un primo esame del addentellato normativo si evince che il nostro ordinamento ammette la pratica anatocistica solo in tre ipotesi tassative ovvero 1) in presenza di un’apposita convenzione delle parti, in relazione alla quale si suole parlare di anatocismo convenzionale, purché questa sia posteriore alla scadenza degli interessi e si riferisca ad interessi dovuti per almeno sei mesi; 2) ove ci sia una domanda giudiziale, tale è il caso dell’anatocismo giudiziale, ed al ricorrere delle medesime condizioni dell’anatocismo convenzionale e cioè la domanda posteriore alla scadenza degli interessi e relativa ad interessi dovuti per almeno sei mesi; ed, infine, 3) l’anatocismo usuale riferito alla sussistenza di un uso normativo contrario che sappia derogare alla disciplina generale.

Il fenomeno dell’anatocismo ha suscitato particolare attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza più recente in relazione alla prassi diffusa degli istituti di credito di procedere, in applicazione delle norme bancarie uniformi del 1951, alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dei clienti a fronte di una capitalizzazione che è annuale per i saldi attivi dei clienti stessi. Nella specie, ci si è chiesti se lo stesso si possa considerare un uso contrario che, in virtù della previsione di cui all’art. 1283 c.c. sia capace di configurare un uso normativo idoneo a derogare al divieto di anatocismo.

In particolare, quanto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi (per il periodo antecedente al 30/10/2001), deve osservarsi che la clausola contrattuale prevedente la chiusura trimestrale del conto (in caso di conto passivo) ed annuale del conto (in caso di conto attivo) e l'addebito in conto degli interessi (con conseguente loro imputazione a capitale mediante una forma di "pagamento contabile") determina un "effetto assimilabile a quello anatocistico".

La Corte di Cassazione, per circa cinquant'anni, ha ritenuto che tale effetto non fosse in contrasto con il divieto previsto dall'art. 1283 c.c. in quanto dovuto ad un uso normativo formatosi in materia bancaria. Com'è noto, tale pluriennale orientamento è stato nell'ultimo quindicennio al centro di un révirément della corte di legittimità (cfr. Cass. civ., 16/3/1999, n.2374: Cass. civ. 30/3/1999. n.3096. Cass. civ. I 11/11/1999. n. 12507), fatto proprio dalle Sezioni Unite, nella nota pronuncia n.21095 del 4/11/2004, cui si è uniformata la successiva giurisprudenza delle sezioni semplici. Tale orientamento sostiene che le clausole anatocistiche disciplinate dalla normativa in vigore prima del dlgs. n,342 del 1999 sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'art. 1283, cod. civ., poiché basate non già su un "uso normativo", come sostenuto nelle pronunce precedenti, ma su un "uso negoziale".

Secondo tale orientamento, manca "per affermare l'esistenza di un uso normativo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, a una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis)".

Tale percorso argomentativo è stato portato ulteriormente a termine dalla corte di Cassazione con la sentenza delle sezioni unite n.24.418 del 2010, resa in tema di capitalizzazione annuale degli interessi e di prescrizione dell'azione d'indebito. Sulla scorta della decisione delle Sezioni Unite, l’affermazione più significativa è che le clausole contrattuali che prevedevano la capitalizzazione degli interessi erano contrarie a legge e, come tali, nulle. Il principio può ormai considerarsi consolidato, essendo stato ripetuto in più occasioni dalla Corte di cassazione.

Escluso che si possa produrre la nullità dell’intero contratto per effetto della previsione anatocistica, la clausola nulla (quella sulla capitalizzazione degli interessi) si considera come non apposta, con la conseguenza che è improduttiva di effetti. Le prestazioni che sono già state effettuate sulla base della pattuizione nulla vanno restituite. Di conseguenza le azioni in giudizio in materia di anatocismo terminano tipicamente con la condanna della banca alla restituzione degli interessi indebitamente percepiti.

Più precisamente si verifica un indebito oggettivo: secondo la previsione di legge, chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato (art. 2033 c.c.). L’ azione di ripetizione di indebito si prescrive in anni dieci dalla chiusura del rapporto; sul punto la S.C. di fatto ha solo confermato, rafforzandone le motivazioni, il precedente proprio orientamento.

La pregressa giurisprudenza della Corte aveva difatti già affermato che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute indebitamente dalla banca a titolo di interessi su di una apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi; sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro (Cass. 14 maggio 2005, n.10127 e, prima, Cass. 9 aprile 1984, n. 2262).

Ecco il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24418 del 2010: "Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati".

La Suprema Corte del 2010 ha precisato che l’annotazione in conto di ogni singola posta di interessi comporta solo un mero incremento del saldo a debito del correntista (oppure una riduzione del saldo a credito) ma non costituisce sic et simpliciter un “pagamento avente natura solutoria”. Allorquando il saldo di c/c dovesse presentare una situazione di “oltre fido”, ovvero di scoperto (cioè: saldo negativo in assenza di fido), i successivi versamenti che il correntista andasse ad effettuare per il rientro nei limiti del fido (c.d. “ripristino della provvista”) ovvero, in caso di assenza di fido, per rientrare dallo scoperto, integrerebbero la fattispecie di pagamenti aventi natura solutoria.

Ovviamente non l’intero ammontare di tale rimessa avrebbe natura solutoria, bensì solo quella parte del versamento utile al rientro dell’extra fido . La sentenza in epigrafe sembra optare, discostandosi dagli orientamenti più recenti poc’anzi richiamati, per una soluzione differente contestando la tesi dell'unitarietà del rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, "sicchè è soltanto con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro" .

In particolare, la contraria tesi in questione appariva destituita di fondamento sotto una pluralità di profili: (a) non esplorava la possibilità di configurare il contratto di conto corrente di corrispondenza come un contratto normativo (o quadro) all'interno del quale i singoli atti esecutivi conservano una propria autonomia strutturale; (b) non teneva conto della disciplina dell'art. 1832 c.c. da leggersi, secondo pacifica giurisprudenza della corte di Cassazione, in relazione all'art. 1827 c.c.; (c) non teneva conto della giurisprudenza della corte di legittimità in tema di mandato, rendiconto e prescrizione delle azioni nascenti dal mandato; (d) ometteva di considerare la correlazione sussistente tra prescrizione decennale e obbligo di conservazione decennale della documentazione inerente le singole operazioni (art. 119) TUB); (e) non teneva conto, infine, che il credilo del correntista è immediatamente esigibile ex art. 1852 c.c., e non spiegava ragionevolmente perché nella materia per cui è causa si dovesse derogare alla disciplina degli artt. 1422 e 1827 c.c., in relazione agli artt. 2934 e 2935 c.c.

L'argomento del frazionamento del rapporto bancario è dirimente per ripudiare la tesi dell'unitarietà del rapporto quale argomento fondante la tesi della decorrenza della prescrizione della condictio indebiti dalla chiusura definitiva del rapporto bancario. Inoltre, da una sua logica e coerente applicazione appare evidente la manifesta non pertinenza delle conclusioni del supremo consesso in punto di criterio d'individuazione dei pagamenti oggetto della condictio indebiti, criterio basato - in caso di apertura di credito regolata in conto corrente - sulla distinzione tra conto passivo e conto scoperto, tra rimesse ripristinatone e rimesse solutorie.

Sono davvero singolari, sul piano pratico, le conseguenze del ragionamento della Corte, seguendo il quale potrebbe non aversi mai pagamento nel corso di un rapporto bancario, che pure è oneroso, delle spese, delle commissioni, degli interessi maturati dalla banca per le prestazioni effettuate a favore del correntista. La distinzione da farsi non è tra conto passivo e conto scoperto, che è irrilevante ma tra tipologia di debito verso la banca.

La distinzione tra conto scoperto e conto passivo, tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, attiene al rapporto di provvista, all'utilizzo della somma messa a disposizione del cliente per eseguire le operazioni (in genere, pagamenti) a favore dei terzi e al conseguente debito di restituzione che non è immediatamente esigibile, ma lo sarà al momento della chiusura definitiva del rapporto.

La distinzione non è tuttavia replicabile per il diverso credito maturato periodicamente dalla banca per i servizi prestati a favore del correntista e per il rimborso delle spese. In ogni caso, la richiamata clausola di regolamentazione (e imputazione) in conto delle spese, commissioni, interessi maturati dalia banca nei confronti del correntista è idonea a determinare proprio quella eccezione indicata dalla Corte nella sentenza richiamata: il credito della banca per le spese, le commissioni, gli interessi (in generate, per i costi di gestione del rapporto e dell'affidamento) è un credito immediatamente esigibile alla chiusura trimestrale del conto.

L'annotazione in conto dei crediti in parola ai la chiusura periodica equivarrebbe, in questa prospettiva, a uso della provvista in funzione dei rapporti di valuta, con la conseguenza che la prescrizione decollerebbe in corso di rapporto, dalla chiusura periodica (in genere, trimestrale) del conto assistito da apertura di credito.

Come costituisce, infatti, pagamento l'esecuzione di un bonifico impartito dal cliente a favore di un terzo ed eseguito dalla banca mediante utilizzo della somma messa a disposizione del cliente {tipico esempio d'utilizzo del rapporto di provvista in funzione del rapporto di valuta), allo stesso modo, in questa prospettiva, costituirebbe pagamento l'utilizzo della stessa somma (ancora una volta esempio d'utilizzo del rapporto di provvista in funzione del rapporto di valuta) per il pagamento dei corrispettivi maturati dalla banca nel periodo di riferimento.

In termini pratici le conseguenze dell'adesione all'una o all'altra opzione interpretativa sono di scarsa o nessuna rilevanza. Nel primo caso, la prescrizione decennale della condictio indebiti decorrerà dalla data del versamento estintivo; nel secondo caso, la prescrizione decorrerà dalla chiusura trimestrale del rapporto.

Tuttavia, atteso che i conti correnti assistiti da apertura di credito sono connotati, di norma, da uri ritmico afflusso di operazioni attive e passive, sicché in genere alla chiusura trimestrale del conto, seguono nei giorni successivi versamenti idonei a determinare l'estinzione, in tutto o parte, dei crediti in parola, la questione, pur rilevante teoricamente, in pratica si ridimensiona.