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Parità uomo-donna per la recedibilità al compimento della massima età pensionabile

Sommario:

1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale

2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario

3. Conferme dalla Cassazione.

1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale

Nonostante chiare ed univoche statuizioni di diritti paritari finalizzati all’affermazione costituzionale della stessa età massima lavorativa fra i due sessi (intesa quale garanzia della stabilità reale per l’identica durata della massima età lavorativa, attualmente fissata a 65 anni, in coincidenza con quella dell’uomo) persistono tentativi di negare, di fatto e in diritto, tale garanzia, avvalendosi strumentalmente di infelici formulazioni di un inadeguato legislatore che si è atteggiato a soggetto «disaccorto» nel momento di stabilire, con la mano sinistra, disposizioni in tema di tutela per la fase di risoluzione del rapporto senza tener conto delle implicazioni che introduceva, con la mano destra, con disposizioni afferenti l’elevazione dell’età pensionabile.

Ma tali disarmonie sono talmente intuitive e talmente sanabili sulla base della ratio equiparativa (in ordine all’età massima lavorativa che identifica la durata delle garanzie per il lavoratore di non essere sottoposto al recesso discrezionale dell’azienda ed al tempo stesso esonera da qualsiasi preventiva comunicazione - cd. opzione - colei che intenda proseguire il rapporto fino ai 65 anni) affermata da ben tre sentenze della Corte costituzionale (n. 137/1986, n. 498/1988, n. 256/2002) che coloro che ad esse non fanno riferimento alcuno, inducono nell’osservatore esterno il legittimo sospetto di voler deliberatamente compiere un atto di forza antigiuridico, avvalendosi strumentalmente di sussistenti disarmonie formali dell’ordinamento lavoristico.

Tentiamo di fornire una spiegazione chiarificativa, che necessita di una (tediosa) ricostruzione storica, da noi peraltro limitata allo stretto necessario.

Tramite l’art. 11 della l. n. 604/1966 (legge sui licenziamenti individuali) si stabilì che la disciplina vincolistica del licenziamento discrezionale (cd. ad nutum, ex art. 2118 c.c. con preavviso) non si applicava (oltreché ai dirigenti e ai lavoratori in prova, indirettamente esclusi dall’applicazione, per effetto del precedente art. 10) «nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia» (all’epoca 55 anni per la donna e 60 per l’uomo), con la conseguenza – dopo la l. n. 300/’70, e al ricorrere dei requisiti eminentemente dimensionali per la sua applicazione – di far beneficiare il datore di lavoro dell’esonero della reintegrazione, stante la non sindacabilità del recesso sotto il profilo del “giustificato motivo o giusta causa” di licenziamento, giustappunto in ragione dell’inapplicabilità della legge 604/1966.

La diversa età per il pensionamento di vecchiaia tra i sessi (55 anni per la donna, 60 anni per l’uomo) portava con se la conseguenza automatica – ai fini della sindacabilità giudiziale del licenziamento ingiustificato e dopo il 1970 dell’applicabilità del regime di stabilità reale garantita dall’art. 18 Stat. lav. – che l’uomo fruiva per 5 anni in più della donna della protezione contro il recesso discrezionale aziendale.

Con la legge di parità uomo-donna in materia di lavoro del 1977 (n. 903/77), tramite l’art. 4, si tentava in qualche modo di rimediare alla disparità stabilendo che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia». Pur accollando loro un onere di comunicazione a pena di decadenza, si garantiva alle donne, per questa strada, pressappoco la stessa tutela contro il licenziamento discrezionale stabilendo che, in caso di opzione, «si applicano alle lavoratrici le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n.604 , e successive modifiche ed integrazioni, in deroga all’articolo 11 della legge stessa».

Intanto nel 1986, l’art. 11 della l. n. 604/66 – che consentiva il licenziamento ad nutum della donna anticipato rispetto all’uomo (a 55 contro i 60) veniva dichiarato incostituzionale, in parte qua, da Corte cost. n. 137/1986 con la seguente motivazione:«... poiché l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e le profonde riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro hanno determinato - col rendere il lavoro stesso, in via generale, meno usurante oltre che più sicuro - una graduale evoluzione, la quale, per quanto riguarda la donna, ha inciso profondamente non solo sulle condizioni di lavoro che la riguardano in modo particolare ma anche sull’attitudine lavorativa (comprensiva, tra l’altro, della capacità al lavoro e della resistenza fisica), è da ritenere che siano venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo per quanto concerne l’età del conseguimento della pensione di vecchiaia; e dunque del tutto priva di legittimità si rivela la disciplina del licenziamento fondata su tale evento. Sono pertanto costituzionalmente illegittimi - in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione (assorbito il profilo concernente l’articolo 38, comma secondo) - gli articoli 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (sui licenziamenti individuali) ecc. ... nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo». Ciò in considerazione del contrasto – tra l’altro - con l’art. 37 Cost. interpretato nel senso che al legislatore incombe oltre al dovere «di assicurare alla donna condizioni di lavoro tali che la pongano in grado di adempiere, unitamente all’attività lavorativa, anche la sua essenziale funzione familiare, quello di garantire alla lavoratrice, in applicazione del più generale principio di uguaglianza ed in armonia con gli articoli 4, 35 e 38 della Costituzione, il diritto alla parità giuridica con il lavoratore in situazioni obiettive eguali, diritto che ha un contenuto ampio e complesso, comprensivo di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro nelle sue varie fasi (accesso, attuazione, cessazione)».

Stabiliti questi principi, la Corte costituzionale, due anni dopo , con sentenza n. 498/88, affrontava l’indebito onere di comunicazione – a pena di decadenza – per la fruizione del diritto alle garanzie di stabilità in ordine alla cessazione del rapporto fino alla stessa età dell’uomo, fissate nel precitato art. 4 della l. n. 903/77 di parità uomo-donna, e lo dichiarava parimenti incostituzionale. Così motivando: «L’art. 4 della legge n. 903 del 1977, ora censurato, attribuisce alla donna lavoratrice, nonostante che sia in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a prestare la sua opera negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l’uomo lavoratore da disposizioni legislative regolamentari, contrattuali. Ma per la sola donna richiede un’opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione. E’ evidente che la lavoratrice, rispetto al lavoratore, ha avuto un trattamento diverso che non ha alcuna ragionevole giustificazione proprio per i principi affermati più volte da questa Corte sulla parità uomo-donna in materia di lavoro e, in particolare, per quelli posti a fondamento della sentenza n. 137 del 1986. Con la suddetta sentenza, dichiarandosi la illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966, che prevedeva la possibilità di licenziamento ad nutum della donna al cinquantacinquesimo anno di età e non al sessantesimo, come per l’uomo, si è sancito il diritto della prima alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino alla stessa età prevista per l’uomo e le si è, correlativamente, assicurata la stabilita nel posto di lavoro fino a tale età. Ora, nella fattispecie, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto, sussiste la violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro, e va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede l’opzione. Si ribadisce così che l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. La protrazione della durata del rapporto di lavoro, cioé dell’età lavorativa, consente anche alla donna lavoratrice di conseguire i relativi vantaggi, come, ad esempio, gli aumenti retributivi e i conseguenti aumenti di pensione».

Il combinato disposto delle due sentenze costituzionali aveva introdotto nell’ordinamento la regola chiara e precisa, secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo e, dunque, secondo la disciplina previdenziale dell’epoca, fino al sessantesimo anno di età (in coincidenza, cioè, con l’età pensionabile maschile).

Non vi sarebbe stato bisogno di aggiungere altro[1].

2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario

Intanto sul versante della legislazione previdenziale, ai fini di ridurre l’incidenza della spesa previdenziale, il legislatore disincentivava il ritiro in quiescenza dei lavoratori e delle lavoratrici al compimento dei requisiti pensionistici dell’epoca, consentendo – prima con l’art. 6 della l. n. 54/1982, poi con l’art. 6 l. n. 407/90 e art.1, co. 2, d.lgs. n. 503/92 - la prosecuzione del rapporto, anche qualora fosse stata raggiunta la massima anzianità contributiva dei 40 anni, a fini di incremento della medesima, fino al limite anagrafico dei 65 anni, sempreché non avessero ottenuto o richiesto pensione di vecchiaia, introducendo (nuovamente; in analogia con quella già caducata dalla Corte costituzionale) una cd. opzione da comunicare – con 6 mesi di anticipo rispetto alla data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia - al datore di lavoro e all’ente previdenziale. Statuendo altresì che a coloro che avessero effettuato opzione si applicavano le disposizione di cui alla l. n. 108/1990 (il cui art. 4, 2 comma, garantiva la cd. tutela reale ex art. 18 contro i licenziamenti ingiustificati) e disponendo che, comunque, la cessazione del rapporto degli optanti sarebbe avvenuta automaticamente e senza preavviso al compimento dell’età per il pensionamento di vecchiaia (gradualmente crescente di un anno ogni 18 mesi, per collocarsi a 65 anni nel 2000 per l’uomo e a 60 per la donna).

Sul versante prettamente lavoristico della tutela per la fase di risoluzione del rapporto, intanto, il legislatore abrogava l’art. 11 della legge n. 604/66 (già costituzionalmente inficiato da Corte cost. n.137/86 nella parte che consentiva il licenziamento della donna in età lavorativa inferiore a quella pensionistica di vecchiaia per l’uomo, fissata all’epoca nei 60 anni). E, in maniera del tutto disaccorta – atteso che già si ventilava l’elevazione dell’età pensionabile ad opera di una riforma pensionistica - in un ottica di ossequio ai principi della Corte costituzionale (staticamente cristallizzati e non proiettati dinamicamente per l’eventualità dell’innalzamento dell’età per il pensionamento di vecchiaia) nonché di (superflua) riconferma del principio paritario uomo-donna in ordine alle tutele per la risoluzione del rapporto, il legislatore stabiliva, nell’art. 4 della l. 11.5.1990 n. 108 (di riscrittura sostanziale della disciplina dei licenziamenti individuali) che le tutele contro il licenziamento ingiustificato e per la reintegrazione ex art. 18 Stat. lav., cessavano di applicarsi nei «confronti dei prestatori di lavoro, ultrassessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici...», salvo che non avessero optato per l’incremento della loro posizione contributiva, ai sensi delle leggi previdenziali al riguardo.

Questa disposizione formulata con evidente «miopia» [2] dette luogo a non pochi problemi di contenzioso, perché la parte datoriale – dimentica delle statuizioni di principio della Corte Costituzionale espresse nelle sentenze n. 137/1986 e 498/1988 – vi lesse l’autorizzazione alla risoluzione del rapporto delle lavoratrici che, in coincidenza con il compimento dell’età anagrafica dei 60 anni, avevano maturato anche il requisito (dei 60 anni) per il pensionamento di vecchiaia (attualizzatosi nel 2000), e non avevano avanzato e comunicato al datore di lavoro (nel termine di decadenza dei 6 mesi precedenti al compimento dei 60 anni), opzione per la prosecuzione del rapporto, ai fini previdenziali.

E vennero disposti licenziamenti.

La questione di costituzionalità, già risolta dalla due citate sentenze della Corte costituzionale, tornò pertanto di attualità, così da giustificare il nuovo intervento della Corte, avvenuto per il tramite della sentenza interpretativa di rigetto n. 256/2002.

La questione della divaricazione di trattamento in ordine alle tutele afferenti la risoluzione del rapporto era riemersa platealmente eminentemente dopo il 2000 per effetto dell’elevazione dell’età pensionabile maschile fino al 65° anno di età (art. 1, d.lgs. n. 503 del 1992) - dunque oltre il limite anagrafico alla stabilità del rapporto dei lavoratori pensionabili fissato dall’art. 4, co. 2, l. n. 108 del 1990 («ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici») - poichè per effetto della formula della l. n. 108/1990 era sembrato che fosse stata reintrodotta nell’ordinamento quella medesima disparità tra i sessi in ordine all’età lavorativa che la stessa Corte costituzionale, con le due precedenti sentenze, aveva già dichiarato costituzionalmente illegittima per contrasto con gli artt. 3 e 37 Cost.

Per far comprendere la disparità formalmente - ma dal lato sostanziale (tenendo a mente i principi costituzionali ribaditi dalla Consulta) solo «apparentemente» - reintrodotta, si evidenzia come prendendo in considerazione i limiti anagrafici richiesti per il pensionamento di vecchiaia successivamente al 1 gennaio 2000 (ma analogo discorso è valido per i periodi tra il 1994 e il 31.12.1999), mentre i lavoratori non possono essere licenziati ad nutum se non dopo il compimento del 65 anno di età - giacché solo a quella età attualizzano ed integrano entrambi i requisiti di cui all’art. 4, comma 2, legge n. 108/90 («ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici») - le lavoratrici perfezionano i suddetti requisiti già al 60° anno di età.

Investita della questione la Corte costituzionale la rigettò in via interpretativa, riconfermando i principi fissati in ordine alla parità delle tutele per la fase rescissoria del rapporto stabilite dalle due precedenti sentenze n. 137/86 e 498/88, considerando l’elevazione dell’età pensionabile per l’uomo ai 65 anni come «frontiera mobile» per il trascinamento automatico a tale soglia anagrafica del principio paritario a favore della donna, superando in via interpretativa la questione di costituzionalità, con la conseguenza pratica di fornire all’art. 4, 2 comma, della l. n. 108/1990, la seguente interpretazione evolutivamente sostitutiva ed adeguatrice di «ultrassessantacinquenni» al posto di «ultrasessantenni». Con la seguente argomentazione: «La disciplina del lavoro... non prevede alcuna discriminatoria correlazione, per le lavoratrici, tra età pensionabile ed età lavorativa: infatti, da un lato, le disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al c.d. pensionamento posticipato non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, e, dall’altro, le disposizioni che hanno innalzato i limiti della età pensionabile hanno, semplicemente, spostato in avanti i limiti stessi per tutti i lavoratori, mantenendo la differenza già esistente tra uomini e donne, a beneficio di queste ultime. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della l. 11 maggio 1990, n. 108, in combinato disposto con il suddetto articolo e le disposizioni sull’elevazione opzionale dell’età pensionabile, in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost., sull’assunto che...le lavoratrici in possesso dei requisiti per conseguire la pensione di vecchiaia, erano ammesse a continuare la prestazione fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini solo previo onere di opzione, non avendo le suddette disposizioni intaccato il principio di parità tra i sessi in ordine all’età lavorativa, ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale».

Si sarebbe infatti potuto eccepire che la soluzione paritaria di stabilità reale contro il licenziamento ad nutum nell’arco anagrafico fra i 60 e i 65 anni poteva essere recuperata (pur soggiacendo all’onere della previa comunicazione) dalla lavoratrice – che è caratterizzata dal beneficio «giustificato» dell’antecedente (rispetto all’uomo) età pensionistica di vecchiaia dei 60 anni – con l’opzione previdenziale che, peraltro, ripete lo schema ed assolve alla stessa funzione del costituzionalmente espunto art. 4, l. n. 903/1977, ad opera di Corte cost. n. 498/88. Tanto più che, sempre per distrazione, svogliatezza o incapacità armonizzatrice del legislatore ordinario, lo stesso principio – con la sola variante dell’abbattimento da 6 a 3 mesi dell’onere di comunicazione al datore di lavoro e della carente menzione dell’ automaticità della risoluzione del rapporto, senza preavviso, presente sin dal 1982 nella legislazione previdenziale ad hoc – è stato riproposto nel comma 1 dell’art. 30 (Divieti di discriminazione nell’accesso alle prestazioni previdenziali) del recente d. lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità uomo-donna).

Ma va subito evidenziato che non sembra esatta neppure questa considerazione, giacché mentre per l’uomo il raggiungimento dell’età anagrafica dei 65 anni, occasionando la sottrazione alla stabilità reale, fa sì che la risoluzione del rapporto ad nutum sia assoggettata al preavviso[3] (e, consensualmente, all’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso medesimo, se non lavorato), la normativa previdenziale in tema di opzione di cui all’art. art. 6, co. 7, l. n. 407/90 (dal 1/1/2000 concernente la sola donna, atteso che per l’uomo la prosecuzione ai 65 anni da quell’anno gli é assicurata ex lege) prevede che la cessazione del rapporto avviene «senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti». Quindi – se tale esonero dal preavviso per automaticità risolutoria ex lege lo si ritiene vigente e non modificato dalla (equivoca) mancata riproduzione dello stesso principio nell’ art. 30 del posteriore d. lgs. n. 198/2006 – l’esonero, riservato di fatto alle sole donne, implica per esse una rimessa economica di un certo rilievo, considerato che i periodi di preavviso, correlati all’anzianità aziendale, per chi abbia raggiunto l’età pensionabile sono nei ccnl fissati in misura tutt’altro che trascurabile.

Ma come si è visto dalla lettura della motivazione di Corte cost. n. 256/2002, essa ha nuovamente confermato il non assoggettamento della donna all’onere dell’opzione previdenziale, per potere fruire della stabilità reale per la pari età lavorativa dell’uomo.

A chi si era posto[4] l’interrogativo se l’art. 4, secondo comma, l. n. 108/90 - a seguito della riforma previdenziale elevatrice delle età di pensionamento – vada interpretato nel senso che la lavoratrice, per mantenere la stabilità del rapporto fino al 65° anno di età, debba necessariamente esercitare, almeno sei mesi prima (ridotti, a quanto pare, a tre dall’art. 30 d. lgs. n. 198/2006) della data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, l’opzione di cui alla l. n. 54/1982 e successiva n. 407/90, oppure se in applicazione dei principi di parità tra i sessi espressi dalla Corte costituzionale, anche alla lavoratrice che non abbia optato per la prosecuzione del rapporto sia garantita la stabilità del posto fino ai 65 anni, va quindi risposto con le considerazioni sottoriferite:

«L’età pensionabile per la donna, fissata al sessantesimo anno di età, continua a costituire un “giustificato beneficio” per le donne, ma non comporta alcuna contropartita sul piano della stabilità del rapporto. Vale ancora il principio che l’età lavorativa femminile debba continuare a coincidere (non con l’età pensionabile femminile, ma) con l’età pensionabile maschile (coincidente a sua volta con l’età lavorativa maschile, per il quale solo vale il principio di correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa). La donna pertanto, pur pensionabile al sessantesimo anno di età, può essere licenziata ad nutum solo se “ultrasessantacinquenne in possesso dei requisiti pensionistici”, così dovendo leggersi ormai, secondo la Corte costituzionale, l’art. 4, co. 2, l. n. 108 del 1990 “aggiornato” alla riforma pensionistica, in conformità al principio della parità tra i sessi senza alcun onere di assoggettamento ad opzione previdenziale[5]».

3. Conferme dalla Cassazione

Le conclusioni raggiunte ricevono il conforto dell’orientamento sufficientemente consolidato della Cassazione.

La più recente decisione della S. corte, sul tema, risulta Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045[6] (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato». Tale decisione ripercorre tutti i precedenti della Corte costituzionale sul tema (n. 137/86, n. 498/88, n. 256/2002) ed aderisce all’analogo significativo precedente di Cass. 24.4.2003 n. 6535[7]. Gli stessi principi di diritto – sia pure asseriti nell’esame di una fattispecie di una lavoratrice che non era legittimata a sottrarsi al licenziamento ad nutum, per essere fruitrice di pensione di vecchiaia che la privava ex art. 6 l. n. 407/90 della stabilità reale – sono stati riaffermati come premessa indefettibile da Cass. 8.7.2004 n. 12640 che ha così statuito: «Premesso che i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, co. 1, Cost., non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche per quanto riguarda le condizioni per raggiungerlo, mentre non contrasta con alcun precetto costituzionale la previsione, per le donne, di un limite inferiore di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia (età pensionabile), il combinato disposto degli artt. 6, co. 1, della l. 29 dicembre 1990, n. 407, e 1, commi 2 e 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 — dal quale si desume la norma secondo cui sia i lavoratori che le lavoratrici, ferme restando la identica età lavorativa (originariamente prevista in sessantadue anni e poi elevata a sessantacinque anni) e la diversa età pensionabile, sono licenziabili ad nutum ove abbiano conseguito (o abbiano richiesto) la liquidazione della pensione di vecchiaia, a carico dell’assicurazione generale obbligatoria oppure di gestioni sostitutive, esonerative o esclusive della medesima, per la quale risulta coerentemente prescritto il requisito della cessazione del rapporto di lavoro — non contrasta con i su indicati precetti costituzionali, giacché risultano esclusi dal beneficio della prosecuzione del rapporto di lavoro, e conseguentemente dal mantenimento della garanzia di stabilità del rapporto di lavoro, sia i lavoratori che le lavoratrici che già godano di pensione di vecchiaia senza alcuna distinzione in ordine alla diversa età lavorativa».

Dai principi di cui sopra si discosta (l’isolata) Cass. 6.2.2006 n. 2472 (est. Vidiri) le cui due massime sono le seguenti: «1. In tema di licenziamento della lavoratrice dipendente che, raggiunta l’età pensionabile, non abbia provveduto, nei sei mesi precedenti il raggiungimento dell’età pensionabile, ad esercitare l’opzione per la prosecuzione del lavoro di cui all’art. 6, l. n. 54 del 1982, il mancato esercizio del diritto di opzione comporta l’effetto oggettivo dello spostamento del licenziamento dall’area tutelata dalle leggi limitative del licenziamento all’area della libera recedibilità; tale lettura del dettato normativo non è contraria alla costituzione, considerato che le innovazioni introdotte dall’art. 4, secondo comma, l. n. 108 del 1990 e dalle disposizioni successive, non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 Cost. (v. Corte Cost., n. 256 del 2002 e n. 498 del 1988). Una diversa opzione interpretativa si tradurrebbe, invece, in un’irrazionale violazione del principio di parità di trattamento, ponendo la donna in una situazione di non giustificato vantaggio nei confronti dell’uomo (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto costituire scelta ragionevole ed equilibrata tutelare in modo forte i lavoratori che trovano nel lavoro l’unica fonte del loro sostentamento ed escludere, invece, da tale tutela quei lavoratori che, dopo una vita lavorativa protetta da norme limitative del recesso, hanno acquisito il diritto al trattamento pensionistico istituzionalmente sostitutivo del reddito da lavoro).

2. Inoltre l’aver il datore di lavoro trattenuto in servizio la lavoratrice per oltre due anni non può configurare un comportamento concludente da cui possa evincersi, in maniera inequivoca, la volontà datoriale di accettare una intempestiva opzione o di rinunziare a far valere il diritto di recedere dal rapporto senza quei vincoli fissati in materia di licenziamento dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970; il suddetto comportamento è idoneo ad attestare con certezza unicamente la volontà datoriale di continuare un rapporto lavorativo che, in ragione di un quadro normativo ipso iure mutato proprio per effetto del mancato tempestivo esercizio dell’opzione, garantisce alla dipendente una stabilità nel posto di lavoro ed una efficace tutela solo a fronte di condotte discriminatorie poste in essere ai danni della dipendente medesima (art. 4, secondo comma, ultima parte, l. n. 108 del 1990), per essersi automaticamente operato un oggettivo spostamento del rapporto di lavoro dall’area della stabilità a quella del libero recesso, con conseguente inapplicabilità di tutti i principi fissati dal legislatore in relazione al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, quale, ad esempio, quello della tempestività dell’addebito posto a base del licenziamento stesso[8]».

Questo isolato dissenso, ha fornito a taluno l’occasione per auspicare un intervento risolutivamente chiarificatore delle Sezioni unite della S. corte, che - semmai ci sarà – riteniamo non possa che riaffermare i condivisibilissimi princìpi immessi nell’ordinamento positivo dalla Corte costituzionale, in ordine alla parità tra i sessi ed al divieto di diversificazioni di trattamento, in ragione di un presunto sbilanciamento del principio paritario rinvenuto dalla decisione dissonante nella fruizione da parte della donna di un «beneficio»(l’inferiore età pensionabile ai 60 anni) sempre riconosciuto eticamente giustificato dal consolidato orientamento giurisprudenziale.



[1] Così commenta condivisibilmente A. Pileggi, Limiti dell’età pensionabile e principio di parità tra i sessi, nota a Corte cost. n. 256/2002, in Mass. giur. lav. 1-2/2003, 45 e ss.

[2] Dice Pileggi, op. ult.cit., 47: «il legislatore, come detto, dimostrò miopia e sprovvedutezza e dispose l’inapplicabilità del regime di stabilità nei confronti degli “ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici”, fissando un limite, coincidente con l’età pensionabile maschile, destinato ben presto ad essere superato, e reso del tutto inutile nella propria originaria ispirazione perequatrice, proprio dall’elevazione dell’età pensionabile maschile».

[3] Sull’obbligo del preavviso nel rapporto di lavoro , non escluso per l’ipotesi del raggiungimento dell’età pensionabile, l’orientamento è consolidato sin dagli anni ’90. Tra le molte vedi: Cass. sez. lav. 25.7.1994 n. 6901, in Not. giur. lav. 1994, 772 (ove trovasi menzione di altre conformi); cui adde, Cass. 27.5.1995, n. 5977, in Lav. prev. oggi, 1996, 1281, secondo le quali: «Nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica non opera l’automaticità del collocamento a riposo in relazione al raggiungimento del limite di età previsto dalla legge, come avviene invece nell’ambito del pubblico impiego, ma occorre sempre, per la risoluzione del rapporta il preavviso, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2118 e 2119 c. c. È pertanto nulla per contrasto con la suddetta normativa civilistica di carattere inderogabile, la clausola contrattuale che esoneri il datore di lavoro dal preavviso nell’ipotesi di recesso per raggiunti limiti di età». Conf. Cass. sez. lav. 20 marzo 1998, n. 2986, in Not. giur. lav. 1998, 331; più di recente Cass. 6.2.2004, n. 2339, in Lav. prev. oggi 2004, 531; conf. 30.7.1991, n. 8448 , in Mass. giur. lav. 1991, 554; Cass. 20.2.1990, n. 1238, ivi, Mass. Cass. 1990, 46, n. 159; Cass. 30.5. 1991, in Not. giur. lav. 1989, 582, il cui orientamento è il seguente: «Al di fuori dell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva contenga una clausola di stabilità relativa (preclusiva di licenziamento discrezionale fino ad una certa età, normalmente quella pensionabile nel pubblico impiego) ed al tempo stesso prevedente la risoluzione automatica (senza preavviso) del rapporto di lavoro al raggiungimento di detta età prestabilita del lavoratore, il conseguimento da parte di quest’ultimo dell’età pensionabile, se abilita successivamente il datore di lavoro a procedere al licenziamento ad nutum, non esonera lo stesso dal concedere il preavviso di licenziamento e, in difetto della relativa intimazione, dal pagamento della indennità sostitutiva».

[4] Vedi la nota redazionale a Cass. 8.2.2006, n. 2472, in Not. giurisp. lav. 2006, 369.

[5] Così esplicitamente Pileggi, op. ult. cit., 49.

[6] In Not. giurisp. lav. 2006, 493.

[7] In Foro it., 2003, I, 2577.

[8] Con la massima n. 2, Cass. n. 2472/2006, ha poi inteso dissociarsi dalla precedente decisione dell’8 4.1998 n. 3613 (est. Foglia, in Riv. it. dir. lav. 1999, II,141) che aveva attribuito efficacia sanante della tardività della opzione, alla tollerata prosecuzione (per oltre due anni) del rapporto, in via di fatto, oltre l’età pensionabile, da parte aziendale. Questa decisione aveva, all’opposto della più recente, raggiunto la più ragionevole conclusione secondo cui: «Al mancato rispetto del termine previsto dall’art. 6 d.l. n. 791 del 1981, convertito nella l. n. 54 del 1982, per l’esercizio, da parte dei lavoratori che non abbiano ancora raggiunto l’anzianità contributiva massima, dell’opzione per la continuazione del rapporto di lavoro dopo il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, consegue una decadenza relativa ad un assetto di interessi che coinvolge prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, diritti disponibili inerenti al rapporto di lavoro tra le parti, con la conseguenza che la stessa decadenza prevista dall’art. 6 l. 26 febbraio 1982 n. 54, può essere impedita, ai sensi dell’art. 2966 c.c., dal riconoscimento del diritto, risultante anche da un comportamento univoco del datore di lavoro (nella specie la suprema corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, che non aveva valutato il possibile rilievo del fatto che, dopo l’esercizio fuori termine dell’opzione ed il compimento dell’età pensionabile, era intervenuta la prosecuzione del rapporto per un periodo per circa due anni, e che non aveva esaminato un documento di dedotto contenuto confessorio circa il collegamento tra l’esercizio dell’opzione e il mantenimento in servizio del dipendente)».

Sommario:

1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale

2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario

3. Conferme dalla Cassazione.

1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale

Nonostante chiare ed univoche statuizioni di diritti paritari finalizzati all’affermazione costituzionale della stessa età massima lavorativa fra i due sessi (intesa quale garanzia della stabilità reale per l’identica durata della massima età lavorativa, attualmente fissata a 65 anni, in coincidenza con quella dell’uomo) persistono tentativi di negare, di fatto e in diritto, tale garanzia, avvalendosi strumentalmente di infelici formulazioni di un inadeguato legislatore che si è atteggiato a soggetto «disaccorto» nel momento di stabilire, con la mano sinistra, disposizioni in tema di tutela per la fase di risoluzione del rapporto senza tener conto delle implicazioni che introduceva, con la mano destra, con disposizioni afferenti l’elevazione dell’età pensionabile.

Ma tali disarmonie sono talmente intuitive e talmente sanabili sulla base della ratio equiparativa (in ordine all’età massima lavorativa che identifica la durata delle garanzie per il lavoratore di non essere sottoposto al recesso discrezionale dell’azienda ed al tempo stesso esonera da qualsiasi preventiva comunicazione - cd. opzione - colei che intenda proseguire il rapporto fino ai 65 anni) affermata da ben tre sentenze della Corte costituzionale (n. 137/1986, n. 498/1988, n. 256/2002) che coloro che ad esse non fanno riferimento alcuno, inducono nell’osservatore esterno il legittimo sospetto di voler deliberatamente compiere un atto di forza antigiuridico, avvalendosi strumentalmente di sussistenti disarmonie formali dell’ordinamento lavoristico.

Tentiamo di fornire una spiegazione chiarificativa, che necessita di una (tediosa) ricostruzione storica, da noi peraltro limitata allo stretto necessario.

Tramite l’art. 11 della l. n. 604/1966 (legge sui licenziamenti individuali) si stabilì che la disciplina vincolistica del licenziamento discrezionale (cd. ad nutum, ex art. 2118 c.c. con preavviso) non si applicava (oltreché ai dirigenti e ai lavoratori in prova, indirettamente esclusi dall’applicazione, per effetto del precedente art. 10) «nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia» (all’epoca 55 anni per la donna e 60 per l’uomo), con la conseguenza – dopo la l. n. 300/’70, e al ricorrere dei requisiti eminentemente dimensionali per la sua applicazione – di far beneficiare il datore di lavoro dell’esonero della reintegrazione, stante la non sindacabilità del recesso sotto il profilo del “giustificato motivo o giusta causa” di licenziamento, giustappunto in ragione dell’inapplicabilità della legge 604/1966.

La diversa età per il pensionamento di vecchiaia tra i sessi (55 anni per la donna, 60 anni per l’uomo) portava con se la conseguenza automatica – ai fini della sindacabilità giudiziale del licenziamento ingiustificato e dopo il 1970 dell’applicabilità del regime di stabilità reale garantita dall’art. 18 Stat. lav. – che l’uomo fruiva per 5 anni in più della donna della protezione contro il recesso discrezionale aziendale.

Con la legge di parità uomo-donna in materia di lavoro del 1977 (n. 903/77), tramite l’art. 4, si tentava in qualche modo di rimediare alla disparità stabilendo che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia». Pur accollando loro un onere di comunicazione a pena di decadenza, si garantiva alle donne, per questa strada, pressappoco la stessa tutela contro il licenziamento discrezionale stabilendo che, in caso di opzione, «si applicano alle lavoratrici le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n.604 , e successive modifiche ed integrazioni, in deroga all’articolo 11 della legge stessa».

Intanto nel 1986, l’art. 11 della l. n. 604/66 – che consentiva il licenziamento ad nutum della donna anticipato rispetto all’uomo (a 55 contro i 60) veniva dichiarato incostituzionale, in parte qua, da Corte cost. n. 137/1986 con la seguente motivazione:«... poiché l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e le profonde riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro hanno determinato - col rendere il lavoro stesso, in via generale, meno usurante oltre che più sicuro - una graduale evoluzione, la quale, per quanto riguarda la donna, ha inciso profondamente non solo sulle condizioni di lavoro che la riguardano in modo particolare ma anche sull’attitudine lavorativa (comprensiva, tra l’altro, della capacità al lavoro e della resistenza fisica), è da ritenere che siano venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo per quanto concerne l’età del conseguimento della pensione di vecchiaia; e dunque del tutto priva di legittimità si rivela la disciplina del licenziamento fondata su tale evento. Sono pertanto costituzionalmente illegittimi - in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione (assorbito il profilo concernente l’articolo 38, comma secondo) - gli articoli 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (sui licenziamenti individuali) ecc. ... nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo». Ciò in considerazione del contrasto – tra l’altro - con l’art. 37 Cost. interpretato nel senso che al legislatore incombe oltre al dovere «di assicurare alla donna condizioni di lavoro tali che la pongano in grado di adempiere, unitamente all’attività lavorativa, anche la sua essenziale funzione familiare, quello di garantire alla lavoratrice, in applicazione del più generale principio di uguaglianza ed in armonia con gli articoli 4, 35 e 38 della Costituzione, il diritto alla parità giuridica con il lavoratore in situazioni obiettive eguali, diritto che ha un contenuto ampio e complesso, comprensivo di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro nelle sue varie fasi (accesso, attuazione, cessazione)».

Stabiliti questi principi, la Corte costituzionale, due anni dopo , con sentenza n. 498/88, affrontava l’indebito onere di comunicazione – a pena di decadenza – per la fruizione del diritto alle garanzie di stabilità in ordine alla cessazione del rapporto fino alla stessa età dell’uomo, fissate nel precitato art. 4 della l. n. 903/77 di parità uomo-donna, e lo dichiarava parimenti incostituzionale. Così motivando: «L’art. 4 della legge n. 903 del 1977, ora censurato, attribuisce alla donna lavoratrice, nonostante che sia in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a prestare la sua opera negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l’uomo lavoratore da disposizioni legislative regolamentari, contrattuali. Ma per la sola donna richiede un’opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione. E’ evidente che la lavoratrice, rispetto al lavoratore, ha avuto un trattamento diverso che non ha alcuna ragionevole giustificazione proprio per i principi affermati più volte da questa Corte sulla parità uomo-donna in materia di lavoro e, in particolare, per quelli posti a fondamento della sentenza n. 137 del 1986. Con la suddetta sentenza, dichiarandosi la illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966, che prevedeva la possibilità di licenziamento ad nutum della donna al cinquantacinquesimo anno di età e non al sessantesimo, come per l’uomo, si è sancito il diritto della prima alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino alla stessa età prevista per l’uomo e le si è, correlativamente, assicurata la stabilita nel posto di lavoro fino a tale età. Ora, nella fattispecie, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto, sussiste la violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro, e va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede l’opzione. Si ribadisce così che l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. La protrazione della durata del rapporto di lavoro, cioé dell’età lavorativa, consente anche alla donna lavoratrice di conseguire i relativi vantaggi, come, ad esempio, gli aumenti retributivi e i conseguenti aumenti di pensione».

Il combinato disposto delle due sentenze costituzionali aveva introdotto nell’ordinamento la regola chiara e precisa, secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo e, dunque, secondo la disciplina previdenziale dell’epoca, fino al sessantesimo anno di età (in coincidenza, cioè, con l’età pensionabile maschile).

Non vi sarebbe stato bisogno di aggiungere altro[1].

2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario

Intanto sul versante della legislazione previdenziale, ai fini di ridurre l’incidenza della spesa previdenziale, il legislatore disincentivava il ritiro in quiescenza dei lavoratori e delle lavoratrici al compimento dei requisiti pensionistici dell’epoca, consentendo – prima con l’art. 6 della l. n. 54/1982, poi con l’art. 6 l. n. 407/90 e art.1, co. 2, d.lgs. n. 503/92 - la prosecuzione del rapporto, anche qualora fosse stata raggiunta la massima anzianità contributiva dei 40 anni, a fini di incremento della medesima, fino al limite anagrafico dei 65 anni, sempreché non avessero ottenuto o richiesto pensione di vecchiaia, introducendo (nuovamente; in analogia con quella già caducata dalla Corte costituzionale) una cd. opzione da comunicare – con 6 mesi di anticipo rispetto alla data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia - al datore di lavoro e all’ente previdenziale. Statuendo altresì che a coloro che avessero effettuato opzione si applicavano le disposizione di cui alla l. n. 108/1990 (il cui art. 4, 2 comma, garantiva la cd. tutela reale ex art. 18 contro i licenziamenti ingiustificati) e disponendo che, comunque, la cessazione del rapporto degli optanti sarebbe avvenuta automaticamente e senza preavviso al compimento dell’età per il pensionamento di vecchiaia (gradualmente crescente di un anno ogni 18 mesi, per collocarsi a 65 anni nel 2000 per l’uomo e a 60 per la donna).

Sul versante prettamente lavoristico della tutela per la fase di risoluzione del rapporto, intanto, il legislatore abrogava l’art. 11 della legge n. 604/66 (già costituzionalmente inficiato da Corte cost. n.137/86 nella parte che consentiva il licenziamento della donna in età lavorativa inferiore a quella pensionistica di vecchiaia per l’uomo, fissata all’epoca nei 60 anni). E, in maniera del tutto disaccorta – atteso che già si ventilava l’elevazione dell’età pensionabile ad opera di una riforma pensionistica - in un ottica di ossequio ai principi della Corte costituzionale (staticamente cristallizzati e non proiettati dinamicamente per l’eventualità dell’innalzamento dell’età per il pensionamento di vecchiaia) nonché di (superflua) riconferma del principio paritario uomo-donna in ordine alle tutele per la risoluzione del rapporto, il legislatore stabiliva, nell’art. 4 della l. 11.5.1990 n. 108 (di riscrittura sostanziale della disciplina dei licenziamenti individuali) che le tutele contro il licenziamento ingiustificato e per la reintegrazione ex art. 18 Stat. lav., cessavano di applicarsi nei «confronti dei prestatori di lavoro, ultrassessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici...», salvo che non avessero optato per l’incremento della loro posizione contributiva, ai sensi delle leggi previdenziali al riguardo.

Questa disposizione formulata con evidente «miopia» [2] dette luogo a non pochi problemi di contenzioso, perché la parte datoriale – dimentica delle statuizioni di principio della Corte Costituzionale espresse nelle sentenze n. 137/1986 e 498/1988 – vi lesse l’autorizzazione alla risoluzione del rapporto delle lavoratrici che, in coincidenza con il compimento dell’età anagrafica dei 60 anni, avevano maturato anche il requisito (dei 60 anni) per il pensionamento di vecchiaia (attualizzatosi nel 2000), e non avevano avanzato e comunicato al datore di lavoro (nel termine di decadenza dei 6 mesi precedenti al compimento dei 60 anni), opzione per la prosecuzione del rapporto, ai fini previdenziali.

E vennero disposti licenziamenti.

La questione di costituzionalità, già risolta dalla due citate sentenze della Corte costituzionale, tornò pertanto di attualità, così da giustificare il nuovo intervento della Corte, avvenuto per il tramite della sentenza interpretativa di rigetto n. 256/2002.

La questione della divaricazione di trattamento in ordine alle tutele afferenti la risoluzione del rapporto era riemersa platealmente eminentemente dopo il 2000 per effetto dell’elevazione dell’età pensionabile maschile fino al 65° anno di età (art. 1, d.lgs. n. 503 del 1992) - dunque oltre il limite anagrafico alla stabilità del rapporto dei lavoratori pensionabili fissato dall’art. 4, co. 2, l. n. 108 del 1990 («ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici») - poichè per effetto della formula della l. n. 108/1990 era sembrato che fosse stata reintrodotta nell’ordinamento quella medesima disparità tra i sessi in ordine all’età lavorativa che la stessa Corte costituzionale, con le due precedenti sentenze, aveva già dichiarato costituzionalmente illegittima per contrasto con gli artt. 3 e 37 Cost.

Per far comprendere la disparità formalmente - ma dal lato sostanziale (tenendo a mente i principi costituzionali ribaditi dalla Consulta) solo «apparentemente» - reintrodotta, si evidenzia come prendendo in considerazione i limiti anagrafici richiesti per il pensionamento di vecchiaia successivamente al 1 gennaio 2000 (ma analogo discorso è valido per i periodi tra il 1994 e il 31.12.1999), mentre i lavoratori non possono essere licenziati ad nutum se non dopo il compimento del 65 anno di età - giacché solo a quella età attualizzano ed integrano entrambi i requisiti di cui all’art. 4, comma 2, legge n. 108/90 («ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici») - le lavoratrici perfezionano i suddetti requisiti già al 60° anno di età.

Investita della questione la Corte costituzionale la rigettò in via interpretativa, riconfermando i principi fissati in ordine alla parità delle tutele per la fase rescissoria del rapporto stabilite dalle due precedenti sentenze n. 137/86 e 498/88, considerando l’elevazione dell’età pensionabile per l’uomo ai 65 anni come «frontiera mobile» per il trascinamento automatico a tale soglia anagrafica del principio paritario a favore della donna, superando in via interpretativa la questione di costituzionalità, con la conseguenza pratica di fornire all’art. 4, 2 comma, della l. n. 108/1990, la seguente interpretazione evolutivamente sostitutiva ed adeguatrice di «ultrassessantacinquenni» al posto di «ultrasessantenni». Con la seguente argomentazione: «La disciplina del lavoro... non prevede alcuna discriminatoria correlazione, per le lavoratrici, tra età pensionabile ed età lavorativa: infatti, da un lato, le disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al c.d. pensionamento posticipato non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, e, dall’altro, le disposizioni che hanno innalzato i limiti della età pensionabile hanno, semplicemente, spostato in avanti i limiti stessi per tutti i lavoratori, mantenendo la differenza già esistente tra uomini e donne, a beneficio di queste ultime. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della l. 11 maggio 1990, n. 108, in combinato disposto con il suddetto articolo e le disposizioni sull’elevazione opzionale dell’età pensionabile, in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost., sull’assunto che...le lavoratrici in possesso dei requisiti per conseguire la pensione di vecchiaia, erano ammesse a continuare la prestazione fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini solo previo onere di opzione, non avendo le suddette disposizioni intaccato il principio di parità tra i sessi in ordine all’età lavorativa, ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale».

Si sarebbe infatti potuto eccepire che la soluzione paritaria di stabilità reale contro il licenziamento ad nutum nell’arco anagrafico fra i 60 e i 65 anni poteva essere recuperata (pur soggiacendo all’onere della previa comunicazione) dalla lavoratrice – che è caratterizzata dal beneficio «giustificato» dell’antecedente (rispetto all’uomo) età pensionistica di vecchiaia dei 60 anni – con l’opzione previdenziale che, peraltro, ripete lo schema ed assolve alla stessa funzione del costituzionalmente espunto art. 4, l. n. 903/1977, ad opera di Corte cost. n. 498/88. Tanto più che, sempre per distrazione, svogliatezza o incapacità armonizzatrice del legislatore ordinario, lo stesso principio – con la sola variante dell’abbattimento da 6 a 3 mesi dell’onere di comunicazione al datore di lavoro e della carente menzione dell’ automaticità della risoluzione del rapporto, senza preavviso, presente sin dal 1982 nella legislazione previdenziale ad hoc – è stato riproposto nel comma 1 dell’art. 30 (Divieti di discriminazione nell’accesso alle prestazioni previdenziali) del recente d. lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità uomo-donna).

Ma va subito evidenziato che non sembra esatta neppure questa considerazione, giacché mentre per l’uomo il raggiungimento dell’età anagrafica dei 65 anni, occasionando la sottrazione alla stabilità reale, fa sì che la risoluzione del rapporto ad nutum sia assoggettata al preavviso[3] (e, consensualmente, all’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso medesimo, se non lavorato), la normativa previdenziale in tema di opzione di cui all’art. art. 6, co. 7, l. n. 407/90 (dal 1/1/2000 concernente la sola donna, atteso che per l’uomo la prosecuzione ai 65 anni da quell’anno gli é assicurata ex lege) prevede che la cessazione del rapporto avviene «senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti». Quindi – se tale esonero dal preavviso per automaticità risolutoria ex lege lo si ritiene vigente e non modificato dalla (equivoca) mancata riproduzione dello stesso principio nell’ art. 30 del posteriore d. lgs. n. 198/2006 – l’esonero, riservato di fatto alle sole donne, implica per esse una rimessa economica di un certo rilievo, considerato che i periodi di preavviso, correlati all’anzianità aziendale, per chi abbia raggiunto l’età pensionabile sono nei ccnl fissati in misura tutt’altro che trascurabile.

Ma come si è visto dalla lettura della motivazione di Corte cost. n. 256/2002, essa ha nuovamente confermato il non assoggettamento della donna all’onere dell’opzione previdenziale, per potere fruire della stabilità reale per la pari età lavorativa dell’uomo.

A chi si era posto[4] l’interrogativo se l’art. 4, secondo comma, l. n. 108/90 - a seguito della riforma previdenziale elevatrice delle età di pensionamento – vada interpretato nel senso che la lavoratrice, per mantenere la stabilità del rapporto fino al 65° anno di età, debba necessariamente esercitare, almeno sei mesi prima (ridotti, a quanto pare, a tre dall’art. 30 d. lgs. n. 198/2006) della data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, l’opzione di cui alla l. n. 54/1982 e successiva n. 407/90, oppure se in applicazione dei principi di parità tra i sessi espressi dalla Corte costituzionale, anche alla lavoratrice che non abbia optato per la prosecuzione del rapporto sia garantita la stabilità del posto fino ai 65 anni, va quindi risposto con le considerazioni sottoriferite:

«L’età pensionabile per la donna, fissata al sessantesimo anno di età, continua a costituire un “giustificato beneficio” per le donne, ma non comporta alcuna contropartita sul piano della stabilità del rapporto. Vale ancora il principio che l’età lavorativa femminile debba continuare a coincidere (non con l’età pensionabile femminile, ma) con l’età pensionabile maschile (coincidente a sua volta con l’età lavorativa maschile, per il quale solo vale il principio di correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa). La donna pertanto, pur pensionabile al sessantesimo anno di età, può essere licenziata ad nutum solo se “ultrasessantacinquenne in possesso dei requisiti pensionistici”, così dovendo leggersi ormai, secondo la Corte costituzionale, l’art. 4, co. 2, l. n. 108 del 1990 “aggiornato” alla riforma pensionistica, in conformità al principio della parità tra i sessi senza alcun onere di assoggettamento ad opzione previdenziale[5]».

3. Conferme dalla Cassazione

Le conclusioni raggiunte ricevono il conforto dell’orientamento sufficientemente consolidato della Cassazione.

La più recente decisione della S. corte, sul tema, risulta Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045[6] (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato». Tale decisione ripercorre tutti i precedenti della Corte costituzionale sul tema (n. 137/86, n. 498/88, n. 256/2002) ed aderisce all’analogo significativo precedente di Cass. 24.4.2003 n. 6535[7]. Gli stessi principi di diritto – sia pure asseriti nell’esame di una fattispecie di una lavoratrice che non era legittimata a sottrarsi al licenziamento ad nutum, per essere fruitrice di pensione di vecchiaia che la privava ex art. 6 l. n. 407/90 della stabilità reale – sono stati riaffermati come premessa indefettibile da Cass. 8.7.2004 n. 12640 che ha così statuito: «Premesso che i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, co. 1, Cost., non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche per quanto riguarda le condizioni per raggiungerlo, mentre non contrasta con alcun precetto costituzionale la previsione, per le donne, di un limite inferiore di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia (età pensionabile), il combinato disposto degli artt. 6, co. 1, della l. 29 dicembre 1990, n. 407, e 1, commi 2 e 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 — dal quale si desume la norma secondo cui sia i lavoratori che le lavoratrici, ferme restando la identica età lavorativa (originariamente prevista in sessantadue anni e poi elevata a sessantacinque anni) e la diversa età pensionabile, sono licenziabili ad nutum ove abbiano conseguito (o abbiano richiesto) la liquidazione della pensione di vecchiaia, a carico dell’assicurazione generale obbligatoria oppure di gestioni sostitutive, esonerative o esclusive della medesima, per la quale risulta coerentemente prescritto il requisito della cessazione del rapporto di lavoro — non contrasta con i su indicati precetti costituzionali, giacché risultano esclusi dal beneficio della prosecuzione del rapporto di lavoro, e conseguentemente dal mantenimento della garanzia di stabilità del rapporto di lavoro, sia i lavoratori che le lavoratrici che già godano di pensione di vecchiaia senza alcuna distinzione in ordine alla diversa età lavorativa».

Dai principi di cui sopra si discosta (l’isolata) Cass. 6.2.2006 n. 2472 (est. Vidiri) le cui due massime sono le seguenti: «1. In tema di licenziamento della lavoratrice dipendente che, raggiunta l’età pensionabile, non abbia provveduto, nei sei mesi precedenti il raggiungimento dell’età pensionabile, ad esercitare l’opzione per la prosecuzione del lavoro di cui all’art. 6, l. n. 54 del 1982, il mancato esercizio del diritto di opzione comporta l’effetto oggettivo dello spostamento del licenziamento dall’area tutelata dalle leggi limitative del licenziamento all’area della libera recedibilità; tale lettura del dettato normativo non è contraria alla costituzione, considerato che le innovazioni introdotte dall’art. 4, secondo comma, l. n. 108 del 1990 e dalle disposizioni successive, non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 Cost. (v. Corte Cost., n. 256 del 2002 e n. 498 del 1988). Una diversa opzione interpretativa si tradurrebbe, invece, in un’irrazionale violazione del principio di parità di trattamento, ponendo la donna in una situazione di non giustificato vantaggio nei confronti dell’uomo (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto costituire scelta ragionevole ed equilibrata tutelare in modo forte i lavoratori che trovano nel lavoro l’unica fonte del loro sostentamento ed escludere, invece, da tale tutela quei lavoratori che, dopo una vita lavorativa protetta da norme limitative del recesso, hanno acquisito il diritto al trattamento pensionistico istituzionalmente sostitutivo del reddito da lavoro).

2. Inoltre l’aver il datore di lavoro trattenuto in servizio la lavoratrice per oltre due anni non può configurare un comportamento concludente da cui possa evincersi, in maniera inequivoca, la volontà datoriale di accettare una intempestiva opzione o di rinunziare a far valere il diritto di recedere dal rapporto senza quei vincoli fissati in materia di licenziamento dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970; il suddetto comportamento è idoneo ad attestare con certezza unicamente la volontà datoriale di continuare un rapporto lavorativo che, in ragione di un quadro normativo ipso iure mutato proprio per effetto del mancato tempestivo esercizio dell’opzione, garantisce alla dipendente una stabilità nel posto di lavoro ed una efficace tutela solo a fronte di condotte discriminatorie poste in essere ai danni della dipendente medesima (art. 4, secondo comma, ultima parte, l. n. 108 del 1990), per essersi automaticamente operato un oggettivo spostamento del rapporto di lavoro dall’area della stabilità a quella del libero recesso, con conseguente inapplicabilità di tutti i principi fissati dal legislatore in relazione al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, quale, ad esempio, quello della tempestività dell’addebito posto a base del licenziamento stesso[8]».

Questo isolato dissenso, ha fornito a taluno l’occasione per auspicare un intervento risolutivamente chiarificatore delle Sezioni unite della S. corte, che - semmai ci sarà – riteniamo non possa che riaffermare i condivisibilissimi princìpi immessi nell’ordinamento positivo dalla Corte costituzionale, in ordine alla parità tra i sessi ed al divieto di diversificazioni di trattamento, in ragione di un presunto sbilanciamento del principio paritario rinvenuto dalla decisione dissonante nella fruizione da parte della donna di un «beneficio»(l’inferiore età pensionabile ai 60 anni) sempre riconosciuto eticamente giustificato dal consolidato orientamento giurisprudenziale.



[1] Così commenta condivisibilmente A. Pileggi, Limiti dell’età pensionabile e principio di parità tra i sessi, nota a Corte cost. n. 256/2002, in Mass. giur. lav. 1-2/2003, 45 e ss.

[2] Dice Pileggi, op. ult.cit., 47: «il legislatore, come detto, dimostrò miopia e sprovvedutezza e dispose l’inapplicabilità del regime di stabilità nei confronti degli “ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici”, fissando un limite, coincidente con l’età pensionabile maschile, destinato ben presto ad essere superato, e reso del tutto inutile nella propria originaria ispirazione perequatrice, proprio dall’elevazione dell’età pensionabile maschile».

[3] Sull’obbligo del preavviso nel rapporto di lavoro , non escluso per l’ipotesi del raggiungimento dell’età pensionabile, l’orientamento è consolidato sin dagli anni ’90. Tra le molte vedi: Cass. sez. lav. 25.7.1994 n. 6901, in Not. giur. lav. 1994, 772 (ove trovasi menzione di altre conformi); cui adde, Cass. 27.5.1995, n. 5977, in Lav. prev. oggi, 1996, 1281, secondo le quali: «Nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica non opera l’automaticità del collocamento a riposo in relazione al raggiungimento del limite di età previsto dalla legge, come avviene invece nell’ambito del pubblico impiego, ma occorre sempre, per la risoluzione del rapporta il preavviso, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2118 e 2119 c. c. È pertanto nulla per contrasto con la suddetta normativa civilistica di carattere inderogabile, la clausola contrattuale che esoneri il datore di lavoro dal preavviso nell’ipotesi di recesso per raggiunti limiti di età». Conf. Cass. sez. lav. 20 marzo 1998, n. 2986, in Not. giur. lav. 1998, 331; più di recente Cass. 6.2.2004, n. 2339, in Lav. prev. oggi 2004, 531; conf. 30.7.1991, n. 8448 , in Mass. giur. lav. 1991, 554; Cass. 20.2.1990, n. 1238, ivi, Mass. Cass. 1990, 46, n. 159; Cass. 30.5. 1991, in Not. giur. lav. 1989, 582, il cui orientamento è il seguente: «Al di fuori dell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva contenga una clausola di stabilità relativa (preclusiva di licenziamento discrezionale fino ad una certa età, normalmente quella pensionabile nel pubblico impiego) ed al tempo stesso prevedente la risoluzione automatica (senza preavviso) del rapporto di lavoro al raggiungimento di detta età prestabilita del lavoratore, il conseguimento da parte di quest’ultimo dell’età pensionabile, se abilita successivamente il datore di lavoro a procedere al licenziamento ad nutum, non esonera lo stesso dal concedere il preavviso di licenziamento e, in difetto della relativa intimazione, dal pagamento della indennità sostitutiva».

[4] Vedi la nota redazionale a Cass. 8.2.2006, n. 2472, in Not. giurisp. lav. 2006, 369.

[5] Così esplicitamente Pileggi, op. ult. cit., 49.

[6] In Not. giurisp. lav. 2006, 493.

[7] In Foro it., 2003, I, 2577.

[8] Con la massima n. 2, Cass. n. 2472/2006, ha poi inteso dissociarsi dalla precedente decisione dell’8 4.1998 n. 3613 (est. Foglia, in Riv. it. dir. lav. 1999, II,141) che aveva attribuito efficacia sanante della tardività della opzione, alla tollerata prosecuzione (per oltre due anni) del rapporto, in via di fatto, oltre l’età pensionabile, da parte aziendale. Questa decisione aveva, all’opposto della più recente, raggiunto la più ragionevole conclusione secondo cui: «Al mancato rispetto del termine previsto dall’art. 6 d.l. n. 791 del 1981, convertito nella l. n. 54 del 1982, per l’esercizio, da parte dei lavoratori che non abbiano ancora raggiunto l’anzianità contributiva massima, dell’opzione per la continuazione del rapporto di lavoro dopo il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, consegue una decadenza relativa ad un assetto di interessi che coinvolge prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, diritti disponibili inerenti al rapporto di lavoro tra le parti, con la conseguenza che la stessa decadenza prevista dall’art. 6 l. 26 febbraio 1982 n. 54, può essere impedita, ai sensi dell’art. 2966 c.c., dal riconoscimento del diritto, risultante anche da un comportamento univoco del datore di lavoro (nella specie la suprema corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, che non aveva valutato il possibile rilievo del fatto che, dopo l’esercizio fuori termine dell’opzione ed il compimento dell’età pensionabile, era intervenuta la prosecuzione del rapporto per un periodo per circa due anni, e che non aveva esaminato un documento di dedotto contenuto confessorio circa il collegamento tra l’esercizio dell’opzione e il mantenimento in servizio del dipendente)».