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Promesse mancate, sfide e prospettive del sistema della responsabilità “da reato” degli enti

Matera
Ph. Maria Cristina Sica / Matera

È circostanza nota a tutti gli studiosi e operatori del settore che l’odierno stato di attuazione del d.lgs. 231/2001, a quasi vent’anni dall’entrata in vigore della disciplina sulla responsabilità amministrativa dipendente da reato degli enti, non possa dirsi del tutto rispondente alle aspettative che lo stesso legislatore dell’epoca aveva riposto nella rivoluzionaria affermazione del principio per cui societas delinquere potest.

Numerose, variegate e complesse sono le cause che hanno condotto al parziale insuccesso del sottosistema normativo “231”, determinando una evidente disomogeneità applicativa della disciplina tanto a livello territoriale, quanto a livello di comune analisi e interpretazione giurisprudenziale dei peculiari istituti giuridici che costituiscono le fondamenta del rimprovero da illecito “organizzativo” nei confronti dell’ente.

Sistema 231 ha l’ambizioso obiettivo di contribuire a rispondere agli interrogativi che ancora oggi si pongono nell’esegesi, nell’applicazione pratica e nelle prospettive future del d.lgs. 231/2001, nell’ottica di fornire – attraverso il contributo attivo di esponenti del mondo universitario, della magistratura, delle professioni e della consulenza aziendale, dunque con approccio interdisciplinare e con diverse prospettive di analisi – nuova “linfa vitale” a un sistema regolatorio che troppo spesso appare “ripiegato” su soluzioni interpretative e modalità procedimentali apaticamente mutuate dalla disciplina riguardante la responsabilità delle persone fisiche, che di fatto ne bloccano l’evoluzione e il miglioramento.

Diversi sono i profili di debolezza e i fattori di inefficienza – già da tempo segnalati dalla letteratura e puntualmente riscontrabili nella prassi operativa – che affliggono il sistema.

Un primo dato che notoriamente contraddistingue il d.lgs. 231/2001 è la sua applicazione “a macchia di leopardo”, tale per cui la disciplina sulla responsabilità degli enti è sostanzialmente misconosciuta in ampie aree del territorio nazionale e nei rispettivi uffici giudiziari, con tutto ciò che ne consegue in termini di irragionevole discriminazione tra realtà aziendali e sotto il profilo della concreta “presa” che il monito organizzativo dello stesso decreto esercita nei confronti delle imprese stabilite nel contesto di riferimento.

Alla disomogeneità su base territoriale del d.lgs. 231/2001 si accompagna la sostanziale carenza, nelle pieghe del decreto, di un sistema di strumenti premiali che realmente incentivino l’ente a far emergere la commissione del reato, in prima battuta, e a procedere, in seguito, con una riorganizzazione virtuosa ed effettiva, o comunque non limitata all’ambito interessato dalla specifica vicenda patologica, in vista del conseguimento dell’estinzione dell’illecito amministrativo.

In tal senso, a fronte delle condotte riparatorie “classiche” di cui l’ente può usufruire in funzione della mitigazione delle sanzioni pecuniarie e dell’esclusione delle sanzioni interdittive, appare ormai improcrastinabile una svolta riformatrice che consenta di incorporare nel procedimento di accertamento della responsabilità dell’ente istituti di natura riparatoria e/o deflattiva, quali la sospensione del procedimento con messa alla prova e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto a favore dell’ente, oltre che nuovi istituti premiali in presenza di condotte collaborative.

A tal proposito, se per le cause di non punibilità e per le cause di estinzione del reato si pone la necessità di un intervento di modifica della disciplina dell’articolo 8 d.lgs. 231/2001, più pronta ed efficace potrebbe essere, invero, la reazione giurisprudenziale in tema di probation dell’ente – che fisiologicamente sembrerebbe attagliarsi alle finalità ripristinatorie-riorganizzative del d.lgs. 231/2001 – anche considerato che i precedenti di merito che hanno espressamente affrontato la questione sono giunti a soluzioni diametralmente opposte.

Non sorprende che, in mancanza di uno strumentario di definizione alternativa delle vicende processuali dell’ente davvero capace di garantire l’obiettivo della riorganizzazione aziendale (e dunque del reinserimento dell’ente nel circuito della legalità), l’ente stesso nella gran parte dei casi opti per un commodus discessus, ove consentito, verso la strada del patteggiamento, soluzione che, in frontale contrasto con lo spirito “231”, talora conduce ad appostare come meri costi aziendali le conseguenze derivanti dall’inosservanza dei presidi preventivi del reato.

È parimenti invocata dagli operatori una rivitalizzazione, almeno per via giurisprudenziale, della causa esimente dell’articolo 6 d.lgs. 231/2001, al fine di garantire all’ente una concreta chance di salvezza in caso di adozione ed efficace attuazione del modello organizzativo, chance dalla cui credibilità dipende in modo diretto l’entità di risorse che i soggetti imprenditoriali, gestori di rischio, possono essere indotti a investire nei sistemi preventivi, soprattutto nell’ambito delle piccole e medie imprese.

L’approccio che il formante pretorio, salve isolate eccezioni, ha sinora seguito nel giudicare i modelli organizzativi, troppo spesso orientato verso la ricerca (sovente senza approccio scientifico) della “chimera” del modello perfetto e tendenzialmente secondo un giudizio post factum, ha prodotto un effetto di diffusa sfiducia delle imprese circa la reale portata salvifica, in sede processuale, connessa all’adozione e all’attuazione di un penetrante sistema di misure preventive (sistema che necessariamente, per contro, aumenta i costi e la complessità dei processi aziendali), inducendole talora a rimandare la gestione del rischio-reato alla fase patologica del procedimento penale.

Ciò non ha peraltro scoraggiato del tutto gli operatori economici ad investire nella prevenzione, tanto che i sistemi di compliance si stanno comunque diffondendo in una logica preventiva “pura”, ossia sganciata dall’utilizzo difensivo del modello, quali strumenti con cui tutelare e rendere maggiormente competitiva l’impresa; ciò anche grazie al processo virtuoso innescato dai grandi committenti privati che richiedono ai fornitori il possesso di determinati requisiti organizzativi e “etici”, oltre che economico-finanziari. Ci troviamo tuttavia, in questi difficili tempi di emergenza sanitaria, in un contesto di crisi che potrebbe portare le imprese italiane a destinare sempre meno risorse ai sistemi volontari di gestione, organizzazione e controllo.

Il ristrettissimo novero delle pronunce che hanno attribuito la “patente di idoneità” ai modelli organizzativi rappresenta la cartina di tornasole del sostanziale fallimento processuale della esimente legata all’adozione ed efficace attuazione del modello 231 e dovrebbe costituire il fulcro di una rinnovata riflessione circa l’opportunità di tipizzare ulteriormente i contenuti dello stesso, proponendo, ove esistano riferimenti condivisi a livello sovranazionale e con modalità da definire, un richiamo alle best practice di settore ai fini della costruzione e manutenzione del modello, associandovi ad esempio la previsione di una presunzione relativa di idoneità, sulla falsariga di quanto già previsto in materia di sicurezza sul lavoro (articolo 30 d.lgs. 81/2008) e ipotizzato nel settore degli alimenti e dell’ambiente.

Volgendo lo sguardo al procedimento di accertamento della responsabilità degli enti, l’esigenza di una maggiore specificazione dei contenuti del modello si riflette altresì sul versante processuale, imponendo – pur a fronte degli scarsi risultati fino a oggi ottenuti nelle aule di giustizia – una “lotta senza quartiere” alla formulazione e sopravvivenza di capi di imputazione palesemente generici, appiattiti sulla mera enunciazione del reato presupposto, privi di qualsivoglia riferimento ai profili di carenza organizzativa rispetto ai quali l’ente è chiamato a fornire prova contraria, profili che dovrebbero invece costituire il cuore dell’addebito dell’illecito amministrativo dipendente da reato.

Ancor prima, nelle dinamiche dell’accertamento della responsabilità dell’ente, permane l’esigenza difensiva circa l’esplicitazione in imputazione dei profili di interesse o vantaggio che connettono il fatto della persona fisica con la contestazione a carico della societas, naturalmente sul presupposto che i due criteri di imputazione oggettiva dell’illecito amministrativo – soprattutto in relazione ai reati presupposto colposi – non siano ridotti a simulacri vuoti di una sostanziale responsabilità oggettiva “da posizione” dell’ente per un fatto realizzato nell’ambito e/o nell’esercizio delle funzioni aziendali, ma in assenza di un contesto imprenditoriale improntato al conseguimento di indebiti profitti o comunque vantaggi illeciti.

Il modello organizzativo si pone come autentico fil rouge delle vicende dell’ente anche in fase di apprezzamento del compendio probatorio acquisito in sede dibattimentale, contesto in cui non può essere ignorata la necessità, ad oggi sottaciuta, di una maggiore specializzazione in capo agli organi giudicanti, spesso sforniti di qualsivoglia competenza in materia di organizzazione aziendale, la quale potrebbe essere colmata – ciò che raramente avviene – almeno con il ricorso al supporto tecnico di una perizia nel contraddittorio tra le parti.

Tale rilievo consente tra l’altro di introdurre un ulteriore profilo di “cedevolezza” dell’impianto applicativo del d.lgs. 231/2001, se è vero che è prassi consueta degli uffici requirenti “marginalizzare” la posizione dell’ente nelle indagini preliminari e privilegiare le attività investigative focalizzate sul fatto individuale, con esclusione dei profili di carenza organizzativa che poi fonderanno l’addebito dell’ente, di fatto impedendo a quest’ultimo di apportare un contributo difensivo efficace in tale fase; salvo poi recuperare la figura dell’ente soltanto “a giochi fatti”, in sede di avviso di conclusione delle indagini, a fronte di un quadro probatorio ormai consolidato e difficilmente controvertibile prima dell’esercizio dell’azione penale.

Per ultimo, ma non certo per importanza, un tema di assoluta centralità nella diagnosi circa lo stato di “salute” del d.lgs. 231/2001, pur se incidentalmente trattato dalla letteratura specialistica, risiede nelle conseguenze reputazionali in cui incorre l’ente riconosciuto colpevole dell’illecito da dis-organizzazione, con particolare riferimento ai pregiudizi che lo stesso può subire a fronte della irrevocabilità di una condanna in sede penale, vista e considerata la dimenticanza del legislatore, in sede di riforma della disciplina del casellario giudiziale, circa gli obblighi dichiarativi in capo all’ente, che oggi paiono asimmetrici rispetto a quelli in capo alla persona fisica. Obblighi dichiarativi che – si noti – sono suscettibili di ripercuotersi sull’operatività e sulla continuità aziendale alla luce delle specifiche discipline extrapenali (tra tutte, quella in materia di appalti pubblici) e delle prassi, ormai invalse nel settore commerciale, di marginalizzare se non addirittura di escludere dal mercato le imprese con “precedenti 231”.

Questi e molti altri sono i temi che Sistema 231 intende proporre ai propri lettori, nella convinzione che l’auspicato “salto di qualità” della disciplina del d.lgs. 231/2001 non possa che passare attraverso un approccio più evoluto alla materia, capace di coniugare una salda e rigorosa impostazione dogmatica con la consapevolezza di dover garantire le contingenti e concrete esigenze delle odierne realtà aziendali.