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Il diritto penale ambientale degli enti

tra repressione, organizzazione e riparazione, il presente e il futuro dell’articolo 25-undecies d.lgs. 231/2001
La città muta - Luci (I)
Ph. Anuar Arebi / La città muta - Luci (I)

*Contributo sottoposto con esito positivo a referaggio secondo le regole della rivista

 

Abstract

L’estensione della normativa sulla responsabilità “da reato” degli enti ai reati ambientali rappresenta un tassello fondamentale nel processo di attuazione e radicamento della disciplina del d.lgs. 231/2001 nell’ordinamento giuridico ed economico italiano.

La responsabilità penale ambientale degli enti – che trova oggi fondamento in un ampio ventaglio di reati posti a presidio dei vari ambiti di regolazione del diritto dell’ambiente, talora interferenti con contesti eterogenei del crimine economico – si inserisce in un sistema sanzionatorio integrato di matrice mista, penale ed extrapenale, che trova sempre più spesso il proprio target privilegiato, secondo forme e modulazioni variabili, nella societas.

Le peculiari caratteristiche dei reati ambientali informano direttamente la fisionomia dell’illecito “organizzativo” dell’ente, riverberandosi, da un lato, sui contenuti del modello di organizzazione e gestione e, dall’altro, sull’attività di vigilanza demandata all’Organismo di vigilanza.

La “231 ambientale” costituisce al contempo terreno “fertile” per la sperimentazione di soluzioni applicative in grado di coniugare l’approccio più strettamente sanzionatorio alla criminalità degli enti con una strategia, non estranea allo spirito del d.lgs. 231/2001, volta a incentivare condotte di riorganizzazione virtuosa e di riparazione, quale mezzo per garantire rinnovata vitalità a uno strumento normativo che, seppur ancora “giovane” quantomeno nell’applicazione, appare talora “sterilizzato alla nascita” da restrittive impostazioni giurisprudenziali.

 

Abstract

The extension of the legislation on criminal corporate liability to the environmental crimes is an essential part of the implementation process of the Legislative Decree No. 231 of 2001 in the Italian legal and economic system.

The environmental criminal liability of corporations – based on a wide range of crimes set up to punish infringement of the environmental protection provisions, often related to different contexts of economic crime – is embedded within an integrated punitive system, mixed criminal and administrative, which increasingly targets corporations.

The specific characteristics of the environmental crimes shape the structure of the “organizational” offence the corporation is charged with, having a direct impact, on one hand, on the contents of the compliance program, and, on the other hand, on the control activity of the Supervisory Body provided by the Legislative Decree No. 231 of 2001.

At the same time the “green” corporate criminal liability provides a fertile ground for the experimentation of new legal solutions, able to combine the punitive approach to the corporate crime with a strategy – in line with the spirit of the Legislative Decree No. 231 of 2001 – aimed to encourage the “virtuous” reorganisation of the corporation and the remediation for damages caused by the corporation, as a means for ensuring new vitality to a legal instrument that, altough still young in its application, seems to be “sterilised” by a case-law restrictive interpretation.

 

 

Sommario

1. Premessa. Il diritto penale dell’ambiente e la responsabilità dell’ente

2. La tutela penale contravvenzionale nel d.lgs. 152/2006: considerazioni di politica legislativa e analisi dei reati presupposto introdotti dal d.lgs. 121/2011

3. I delitti contro l’ambiente nel Titolo VI-bis del Codice penale: la riforma della l. 68/2015

4. Riparazione e premialità nel diritto penale ambientale. Oblazione ambientale, non punibilità per particolare tenuità del fatto e sospensione del procedimento con messa alla prova

5. Modello di organizzazione e gestione e misure di prevenzione dei reati ambientali: stato dell’arte e sviluppi futuri

6. Temi controversi nel procedimento nei confronti dell’ente. L’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001 come “chiave di volta” per una riforma del processo de societate?

7. Le sanzioni extra codicem per l’ente: antimafia, appalti pubblici, rapporti commerciali

 

Summary

1. Introduction. Environmental criminal law and corporate criminal liability

2. The protection of the environment through criminal law in the Legislative Decree No. 152 of 2006: considerations on the legislative policy and analysis of the predicate crimes introduced by the Legislative Decree No 121 of 2011

3. The crimes against environment in the Section VI-bis of the Criminal Code: the reform set out in the Law No. 68 of 2015

4. Remediation and reward in environmental criminal law. The diversion procedure for environmental crimes, the non-liability to punishment for acts of minor gravity and the probation

5. Compliance program and prevention measures for environmental crimes: “state of the art” and future developments

6. Controversial issues in the criminal proceeding against the corporation. The Article 25-undecies of the Legislative Decree No. 231 of 2001 as a keystone for the reform of the de societate criminal proceeding

7. The “extra Code” sanctions against the corporation: the anti-Mafia legislation, public procurement law, commercial relations

 

1. Premessa

L’analisi retrospettiva dei primi vent’anni di vita del d.lgs. 231/2001, con tutte le novità e le incognite interpretative che ne hanno assistito l’evoluzione, non può prescindere dal soffermarsi su una tappa fondamentale della “narrazione” riguardante la disciplina della responsabilità da reato degli enti in Italia, rappresentata dall’introduzione dei reati ambientali tra i predicate crime posti a fondamento del rimprovero organizzativo a carico delle persone giuridiche.

In detto contesto, la “231 ambientale” costituisce una formazione normativa più giovane e assai meno esplorata rispetto al “nucleo duro” della disciplina sulla responsabilità amministrativa dipendente da reato, considerato che essa ha fatto la propria comparsa sul palcoscenico del d.lgs. 231/2001 con ben dieci anni di ritardo[1]: cioè solo quando il d.lgs. 121/2011, nell’attuare la direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente[2], inserì tra gli illeciti il nuovo art. 25-undecies d.lgs. 231/2001, recante un primigenio blocco di fattispecie incriminatrici previste dal d.lgs. 152/2006, quale piattaforma per la successiva espansione del “catalogo” dei reati ambientali.

L’operazione di ampliamento della disciplina del d.lgs. 231/2001 verso i reati ambientali – che già nel 2011 appariva sintomatica di un notevole “cambio di passo” nella strategia legislativa di contrasto alla criminalità d’impresa – ha subìto un’ulteriore accelerazione con l’acclamata novella della l. 68/2015, la quale, nell’introdurre l’atteso Titolo VI-bis del Codice penale sui delitti contro l’ambiente, oggetto di svariate iniziative legislative pregresse[3], contestualmente integrava, rafforzandone l’efficacia, l’originario novero dei reati presupposto ambientali di matrice prevalentemente contravvenzionale con alcune delle nuove e più afflittive fattispecie delittuose.

A valle di tale processo di progressiva messa a punto dell’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001, la responsabilità da reato degli enti in ambito ambientale trova oggi il proprio presupposto in un variegato catalogo di fattispecie incriminatrici – contravvenzionali e delittuose, per gran parte imputabili anche a titolo di colpa e secondo un disvalore gradatamente crescente, parte integrante di un armamentario sanzionatorio “integrato” di matrice mista, penale ed extrapenale – che trova il proprio destinatario nell’ente in caso di omessa o inefficace attuazione dei presidi preventivi compendiati nel modello di organizzazione e gestione.

Il catalogo dei reati previsto dall’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001, peraltro, non appare del tutto omogeneo e coerente con la strategia sanzionatoria recepita dalla normativa di settore – principalmente, ma non solo, il d.lgs. 152/2006 – escludendo diverse fattispecie incriminatrici (le “grandi assenti”), che pure sono connesse a violazioni e situazioni altamente “sensibili” dal punto di vista ambientale, talora di disvalore e offensività maggiore e, in quanto tali, contemplate dalla direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, che sul punto resta a tutt’oggi inattuata.

Si noti, ancora, come gli strumenti di tutela della “legalità ambientale” dell’ente si articolino in un sistema tipicamente multilivello, che si snoda anche collateralmente alla normativa del d.lgs. 231/2001, trovando alcuni fondamentali avamposti nella disciplina sulle bonifiche e sul risarcimento del danno ambientale, nonché – per quanto maggiormente interessa in questa sede – nella disciplina antimafia e nella disciplina dei contratti pubblici.

Si comprende, dunque, la fondamentale importanza che assume in tale contesto l’adozione e l’efficace attuazione del modello di organizzazione e gestione, quale indefettibile trait d’union tra la politica di prevenzione dell’impresa in tema di reati ambientali – idoneo a fungere altresì da presidio anticipato rispetto alle violazioni di natura regolatoria – e l’attività di vigilanza dell’Organismo previsto dall’art. 6 d.lgs. 231/2001 (in seguito, per brevità, OdV) come soggetto catalizzatore dell’effettività del modello.

La funzione di vigilanza demandata all’OdV, peraltro, in tale settore sconta alcuni limiti fisiologici, connessi alla peculiare natura dell’illecito ambientale e alle caratteristiche della filiera dei rifiuti, circostanze suscettibili di riverberarsi “a cascata” sull’utilizzo del modello quale strumento di difesa attiva nella fase patologica dell’accertamento giudiziario.

Il presente contributo analizza, in una prospettiva diacronica, le caratteristiche dell’illecito “organizzativo” dell’ente connesso alla realizzazione delle fattispecie di reato ambientale più gravi e maggiormente ricorrenti nella casistica giudiziaria, con un focus sui reati legati alla gestione dei rifiuti, anche in ragione della loro connessione con altre fattispecie incriminatrici ricomprese nella galassia del diritto penale dell’economia, con cui i primi condividono modalità di commissione, contesti di realizzazione e tecniche di prevenzione.

Lo scritto si proietta al contempo verso il futuro del diritto penale ambientale degli enti, perseguendo due diverse direttrici di analisi: da un lato, si propone di individuare soluzioni interpretative immediatamente praticabili che, valorizzando alcuni istituti di natura rimediale già presenti nell’ordinamento, fungano da correttivo alle distorsioni dell’attuale sistema sanzionatorio degli enti in materia ambientale; dall’altro, in prospettiva de iure condendo, disegna le strategie di riforma che potrebbero garantire maggiore coerenza ed effettività al sistema della criminal green liability dell’ente, in modo da armonizzare la disciplina regolatoria ambientale con quella “generale” posta dal d.lgs. 231/2001.

 

2. La tutela penale contravvenzionale nel d.lgs. 152/2006: considerazioni di politica legislativa e analisi dei reati presupposto introdotti dal d.lgs. 121/2011

La fisionomia della responsabilità da reato degli enti in materia ambientale riflette l’articolazione del sistema di tutela dell’ambiente disegnato dal legislatore italiano per le persone fisiche, notoriamente strutturato all’insegna di una scalarità crescente che, muovendo dagli illeciti amministrativi posti a presidio della disciplina regolatoria di settore, trova un referente penalistico intermedio nelle fattispecie contravvenzionali “formali” di diritto ingiunzionale e, infine, punisce a titolo di delitto le più gravi manifestazioni di evento e di danno della criminalità ambientale.

La ricostruzione esegetica delle principali fattispecie di reato, così come tipizzate dall’interpretazione conformativa delle Corti – quel formante giurisprudenziale che, in materia ambientale, è particolarmente invasivo e determinante anche in ragione delle caratteristiche del quadro regolatorio di riferimento[4] – si impone come analisi propedeutica all’identificazione dei rischi, attività, quest’ultima, preliminare e funzionale rispetto alla valutazione del rischio di commissione dei reati presupposto nell’interesse o a vantaggio dell’ente e alla successiva strutturazione di una rete di cautele preventive idonee a prevenirne la commissione o, quantomeno, a ridurne il rischio.

Tralasciando in questa sede il comparto sanzionatorio affidato agli illeciti amministrativi, il secondo livello di tutela dell’ambiente trova un diretto riflesso nella disciplina dell’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001, la cui matrice originaria inserita dal d.lgs. 121/2011 ricomprendeva per l’appunto, in prima battuta, le ipotesi di natura quasi esclusivamente contravvenzionale – fatta eccezione per il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti allora previsto dall’art. 260 d.lgs. 152/2006[5] – previste dalla disciplina “generale” del d.lgs. 152/2006 e le due contravvenzioni codicistiche degli artt. 727-bis (uccisione, distruzione e detenzione di specie animali o vegetali selvatiche protette) e 733-bis c.p. (distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto), neointrodotte ad opera dello stesso d.lgs. 121/2001[6].

In via collaterale, anche in ragione della loro limitata applicazione pratica, si ponevano le fattispecie previste da altre leggi speciali selezionate dal legislatore delegato per il catalogo dell’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001, quali i reati in tema di tutela delle specie protette disciplinati dalla l. 150/1992[7], i reati in materia di tutela dell’ozono della l. 549/1993[8] e i reati in tema di inquinamento provocato da navi del d.lgs. 202/2007[9].

I reati di maggior interesse – perché di più frequente applicazione in sede giudiziaria e non di rado anche nei confronti degli enti incolpati – sono rappresentati dalle richiamate contravvenzioni del d.lgs. 152/2006, rispetto a cui, peraltro, i commentatori dell’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001 avevano prontamente messo in luce alcuni “grandi assenti”, con particolare riferimento ai reati in materia di autorizzazione integrata ambientale (art. 29-quattuordecies d.lgs. 152/2006) – del tutto espunti dal catalogo –  nonché rispetto ai reati in tema di inquinamento idrico (art. 137 d.lgs. 152/2006), di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti (art. 256, comma 2 d.lgs. 152/2006) e in tema di emissioni atmosferiche (art. 279 d.lgs. 152/2006) – in relazione ai quali erano rilevate alcune colpevoli dimenticanze[10].

Tra le contravvenzioni ambientali del d.lgs. 152/2006 costituenti presupposto della responsabilità dell’ente un ruolo di primo piano, se non altro per rilevanza dei profili che esse involgono nell’odierno contesto economico e produttivo, meritano le contravvenzioni in materia di gestione di rifiuti previste dalla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006[11].

Riprendendo il dibattito recentemente proposto dall’Unione Camere Penali Italiane[12], si osserva come il settore dei rifiuti costituisca un vero e proprio “laboratorio” per sperimentare sul campo le riflessioni e le soluzioni emerse in quella sede, poiché, pur se sulla scala ridotta di un segmento tanto di nicchia, sono rinvenibili tutti gli elementi e gli ambiti di ricerca presi in esame in quell’occasione di confronto.

Anzitutto, la gestione dei rifiuti è un’attività essenziale che produce ricchezza, al centro dell’agenda europea e con ambiti applicativi diversificati, dai più semplici ai più tecnologicamente avanzati, che si presta a fungere da “volano” per il rilancio dell’economia nazionale[13]; nondimeno, essa costituisce un’attività regolata e subordinata a un regime autorizzatorio preventivo, oggetto negli anni di una normazione inadeguata, complicata, oscura e frammentata, da cui scaturisce una giurisprudenza imprevedibile, altalenante, spesso integrativa, in malam partem, della disciplina positiva di riferimento.

Al contempo, la gestione dei rifiuti è un’attività fisiologicamente capillare sul territorio, connotata dalla presenza di numerosi operatori di piccole e medie dimensioni (con tutte le vulnerabilità che ne derivano), ed è strettamente connessa al governo delle città e alla misurazione della qualità dei servizi pubblici e della vita urbana (ragione per cui influenza il giudizio sulla classe politica locale); tale attività muove ingenti risorse pubbliche e sta assumendo sempre più, anche a causa dell’insufficienza infrastrutturale nazionale, una dimensione transfrontaliera.

In forza delle predette caratteristiche, il settore dei rifiuti incontra il vivo interesse della criminalità organizzata – tanto da essere espressamente annoverato tra i settori a elevato rischio di infiltrazione mafiosa considerati dalla l. 190/2012[14] – e desta un elevato allarme sociale, soprattutto a seguito di gravi fenomeni criminosi che si sono verificati lungo tutta la penisola italiana (dalla “Terra dei fuochi” ai roghi in territorio lombardo), in quanto potenzialmente in grado di incidere sul bene primario della salute.

L’azione pubblica in questo settore – che richiederebbe scelte politiche di medio-lungo termine basate su un approccio scientifico e sull’analisi dell’impatto regolatorio anche sotto il profilo ambientale e sociale, e non soltanto in termini di ricadute finanziarie per lo Stato – è “governata” da fenomeni collettivi trainanti su scala globale (la svolta “green”, il movimento di Greta Thunberg) e, più in generale, dai moti dell’opinione pubblica, prestandosi a essere facilmente influenzata da individualismi (la nota sindrome “NIMBY” – Not In My Back Yard), talora da complottismi e comunque da una fisiologica diffidenza: sentimenti, tutti, che producono un “monito moralistico” avverso il profitto conseguito dalle imprese, che diventa, nella narrazione pubblica come pure nell’azione degli apparati amministrativi e giudiziari, parametro di disvalore più che di valore.

Da quanto appena detto consegue che anche la regolazione è sempre più sbilanciata sul versante punitivo, anziché su quello precettivo e organizzativo, con un progressivo allontanamento della politica dalle soluzioni di cui invece vi sarebbe reale necessità: la semplificazione, la deregolamentazione e la razionalizzazione degli strumenti sanzionatori, da attuare attraverso la depenalizzazione di alcune fattispecie incriminatrici e una contestuale opera di revisione e aggravamento di altre, che in certi contesti criminosi non hanno un’adeguata efficacia deterrente.

La crescente richiesta di giustizia da parte della collettività ha quale primario effetto che la gestione dei rifiuti si colloca oggi al centro dell’azione della magistratura penale, generando vicende giudiziarie complesse, anzitutto sotto il profilo soggettivo, in cui operatori “sani” sono coinvolti in traffici di rifiuti messi in atto in contesti realmente criminosi, da cui originano procedimenti penali che si sviluppano in “indagini a strascico” lungo la filiera e che determinano – all’atto pratico – un vortice di misure cautelari, personali e reali, e altre ricadute fortemente negative, con conseguente effetto di compromissione della reputazione e della posizione sul mercato degli enti: circostanza che, a propria volta, innesca un “circolo vizioso” per l’impresa, chiamata ad affrontare difficoltà economiche e operative che la rendono ancor più vulnerabile ed esposta alle mire della criminalità (anche organizzata) o comunque alla tentazione di ricadere, per sopravvivere, in un contesto di irregolarità.

A ciò si aggiunge un’evidente “invasione di campo” della giustizia penale nell’azione di controllo, preventiva e successiva, che dovrebbe invece essere prerogativa degli apparati amministrativi, ai quali, in un sistema equilibrato, dovrebbero essere invece restituiti effettivi poteri discrezionali nella ricerca e applicazione delle soluzioni più efficaci, ragionevoli e proporzionate al caso concreto. Si consideri, a tal proposito, come le valutazioni tecnico-giuridiche di natura extrapenale che attengono a elementi e circostanze direttamente rilevanti per l’integrazione della fattispecie incriminatrice – quali ad esempio se un materiale costituisca o meno un rifiuto – sono sempre più spesso maturate all’ombra del segreto investigativo[15], senza dunque alcun contraddittorio con il presunto trasgressore, pur avendo esse un effetto diretto anche nell’ambito dei paralleli procedimenti amministrativi ripristinatori (si pensi, alla disciplina dell’ art. 192 d.lgs. 152/2006 sulla rimozione, avvio a recupero o smaltimento e ripristino in caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti; nonché alla disciplina in tema di bonifica dei siti contaminati degli artt. 242 ss. d.lgs. 152/2006), in cui sono sovente delibate de plano dall’autorità competente, anche in una logica di “amministrazione difensiva”, diminuendo così le chance di efficace controdeduzione in capo all’interessato in tali sedi.

In definitiva, un “campo minato” per coloro che vogliano intraprendere iniziative economiche in questo settore, il quale impone scelte organizzative e risorse adeguate. In un simile contesto, appare evidente come gli strumenti di compliance possano giocare un ruolo determinante, proteggendo le imprese, “riabilitandone” il ruolo sociale e aumentandone la competitività. Tale effetto presuppone tuttavia che, da un lato, le imprese non si limitino a adottare modelli “cosmetici” e investano le necessarie risorse nella prevenzione dei reati (e, più in generale, nella compliance) e, dall’altro, che lo Stato ricompensi adeguatamente tale sforzo, riconoscendo l’esimente all’ente (quale soggetto autonomo rispetto alle persone che ne fanno parte) o, quantomeno, assicurandogli una “via di uscita” sostenibile (quanto a condizioni e tempistiche), a fronte di apprezzabili condotte riparatorie e/o collaborative.

Diversi sono, in definitiva, i fattori a fondamento della particolare attenzione per il settore del diritto penale ambientale connesso alla gestione dei rifiuti, il quale si distingue per un elevato tasso di criminalità, come d’altra parte è confermato dalla crescente produzione della giurisprudenza penale in materia, nonché dall’espresso rilievo che il legislatore attribuisce, ai fini dell’applicazione di un determinato regime normativo, alle attività che coinvolgono una o più fasi della filiera dei rifiuti[16].

I reati in materia di gestione di rifiuti, inoltre, pur se nati e pensati in funzione della tutela penale delle discipline di settore, sempre più spesso si rivelano fattispecie particolarmente versatili, anche ai fini investigativi, posto che si atteggiano quali reati “grimaldello” suscettibili di disvelare più ampi e articolati contesti criminosi, dediti alla commissione di altre e talora più gravi fattispecie di reato (delitti contro la pubblica amministrazione, reati associativi, falsità in atti, truffa aggravata ai danni dello Stato, delitti di riciclaggio, disastri ambientali), con cui i primi finiscono per concorrere.

Allo stesso modo, i reati in esame svolgono un ruolo “utile” anche nella logica preventiva del d.lgs. 231/2001, giacché, per le ragioni appena illustrate, essi si pongono in rapporto di strumentalità o comunque di connessione temporale (come antefatto o postfatto) rispetto ad altre fattispecie criminose che possono comportare, a propria volta, la responsabilità da reato dell’ente; di modo che le misure e i controlli predisposti per impedire le violazioni del d.lgs. 152/2006 possono fungere da valido argine alla realizzazione di altri e ulteriori reati, spesso forieri di conseguenze sanzionatorie ancor più afflittive per la societas.

Sotto il profilo della tipicità penale, da ultimo, occorre ulteriormente ricordare come i reati collegati alla gestione dei rifiuti costituiscono per larghissima parte contravvenzioni – dunque punibili indifferentemente a titolo di dolo e di colpa – che sanzionano l’inosservanza di previsioni di natura “formale”, concernenti ad esempio il possesso di specifici titoli autorizzativi ovvero il rispetto di determinati limiti temporali, quantitativi, qualitativi e/o di requisiti tecnici, operativi e gestionali nell’esercizio dell’attività, di cui il legale rappresentante della società può essere chiamato a rispondere in forma concorsuale con l’operatore professionale “a monte” e/o “a valle” della filiera, dal quale ha ricevuto i rifiuti ovvero al quale ha affidato la gestione degli stessi, oltre che per il fatto del proprio dipendente (o anche congiuntamente a quest’ultimo)[17].

Tale conformazione degli obblighi in capo agli operatori della filiera dei rifiuti deriva in via immediata dal principio cardine della c.d. responsabilità condivisa, che trova la propria fonte nell’art. 178 d.lgs. 152/2006[18] (nonché, per altra impostazione, nell’art. 188 d.lgs. 152/2006[19]), e che – secondo il rigoroso approccio che la giurisprudenza adotta nelle casistiche tipicamente plurisoggettive sottoposte al proprio scrutinio, che interessano la filiera dal produttore del rifiuto fino alla sua destinazione finale – è preposto ad assicurare una corretta gestione dei rifiuti «dalla culla alla tomba»[20].

Tale principio ha trovato espressa conferma anche a seguito delle più recenti novità normative che hanno interessato la Parte Quarta del d.lgs. 152/2006, nella misura in cui il d.lgs. 116/2020 ha riformulato la disposizione dell’art. 188 d.lgs. 152/2006, prevedendo tra l’altro (comma 4) che «La consegna dei rifiuti, ai fini del trattamento, dal produttore iniziale o dal detentore ad uno dei soggetti di cui al comma 1, non costituisce esclusione automatica della responsabilità rispetto alle operazioni di effettivo recupero o smaltimento» e che «Al di fuori dei casi di concorso di persone nel fatto illecito e di quanto previsto dal regolamento (Ce) n. 1013/2006, la responsabilità del produttore o del detentore per il recupero o smaltimento dei rifiuti è esclusa» al ricorrere di determinate condizioni espressamente indicate, tra cui il «conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento a condizione che il detentore abbia ricevuto il formulario di cui all’articolo 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore ovvero che alla scadenza di detto termine il produttore o detentore abbia provveduto a dare comunicazione alle autorità competenti della mancata ricezione del formulario», nonché nell’ipotesi di «conferimento di rifiuti a soggetti autorizzati alle operazioni di raggruppamento, ricondizionamento e deposito preliminare di cui ai punti D13, D14, D15 dell’allegato B alla Parte IV del presente decreto», oltre al formulario di identificazione, sia stata ricevuta un’attestazione di avvenuto smaltimento, resa nelle forme di legge.

La novella ha avuto il merito, tra l’altro, di sgombrare definitivamente il campo dalle incertezze interpretative concernenti la fonte normativa del principio della c.d. responsabilità condivisa, considerato che una tesi non isolata in giurisprudenza ne ravvisava il fondamento, già prima della riforma del 2020, nella disposizione dell’art. 188 d.lgs. 152/2006 ritenuta ratione temporis applicabile a fronte delle modifiche introdotte dal d.lgs. 205/2010[21].

Tanto premesso in linea generale, la figura di reato “base” di detto comparto sanzionatorio – anche nella prospettiva “231” di prevenzione del rischio – è rappresentata dalla contravvenzione di gestione abusiva di rifiuti, non pericolosi o pericolosi, prevista dall’articolo 256, comma 1, lett. a) e b) d.lgs. 152/2006, che, adottando lo schema della norma a più fattispecie, colpisce l’esercizio di una delle varie fasi di gestione dei rifiuti (raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, commercio, intermediazione) in assenza del valido titolo abilitativo prescritto dalla disciplina regolatoria in materia ambientale[22].

Non del tutto pacifica è l’ampiezza soggettiva dell’incriminazione, nel senso che un primo e prevalente orientamento configura la gestione abusiva di rifiuti come reato comune, in cui può incorrere pure chi, non svolgendo professionalmente l’attività di gestione di rifiuti, eserciti la stessa in modo secondario o consequenziale all’esercizio di un’attività primaria diversa, mentre altra tesi qualifica il reato come proprio, in quanto riferibile soltanto alla sfera degli operatori economici che devono dotarsi dei titoli abilitativi per esercitare l’attività di gestione dei rifiuti[23].

La tipicità soggettiva “allargata” del reato, nondimeno, è attenuata dalla pacifica esclusione giurisprudenziale delle condotte connotate da assoluta occasionalità, in quanto carenti di quel minimum di substrato organizzativo che permea il disvalore del fatto incriminato[24].

Ai fini della rilevanza penale del fatto, è evidentemente dirimente la classificazione dell’oggetto materiale della condotta come «rifiuto» – secondo la definizione contenuta nell’art. 183, comma 1, lett. a) d.lgs. 152/2006[25] – e alla conseguente necessità di gestirlo in conformità al predetto regime autorizzativo, come nei casi in cui vi sia stata un’erronea qualificazione dello stesso come «sottoprodotto» (art. 184-bis d.lgs. 152/2006[26]) o come materiale che ha “cessato di essere rifiuto” (end of waste, ai sensi dell’art. 184-ter d.lgs. 152/2006[27]) o, ancora, come “bene usato” (secondo la definizione di «riutilizzo» dell’art. 183, comma 1, lett. r) d.lgs. 152/2006[28]), ipotesi borderline rispetto alla disciplina in tema di rifiuti e che fungono da contrappunto applicativo per definire, a contrario, cosa sia “rifiuto”.

La giurisprudenza, peraltro, ha ulteriormente chiarito che la nozione di rifiuto può essere riferita anche a sostanze od oggetti suscettibili di valorizzazione economica o riutilizzabili, ragione per cui il valore economico di un bene non è di per sé decisivo per escluderne la natura di rifiuto.

Per determinare se uno scarto/residuo (inteso in senso ampio) debba essere qualificato come rifiuto o meno, occorre dunque porsi nell’ottica esclusiva del soggetto che lo produce o lo detiene, verificando la sussistenza di un suo interesse specifico al riutilizzo, poiché, in linea di principio, ciò che rileva «è la condotta del detentore/produttore che qualifica l’oggetto come rifiuto e che con la sua azione del “disfarsi” pone un “problema”, quello della gestione del rifiuto»[29]. Quando l’interesse principale del produttore/detentore è quello di disfarsi della sostanza o dell’oggetto, motivo per cui avviene ad esempio la cessione a un terzo, allora ci trova di fronte a un rifiuto, indipendentemente dalla sussistenza di un interesse altrui al riutilizzo e dalle caratteristiche di funzionalità residua.

Il giudizio circa la qualificazione di una res come rifiuto, ancora, deve essere formulato tenendo presenti alcuni “princìpi cardine” che caratterizzano l’azione degli organi amministrativi e di controllo e l’elaborazione giurisprudenziale in tema di gestione dei rifiuti.

Tra di essi, innanzitutto, viene in rilievo il principio di effettività, in base al quale deve essere considerata preminente – al di là della denominazione e/o dell’organizzazione formale di una determinata operazione[30] – la modalità concreta con cui essa trova attuazione nel contesto di riferimento, secondo un approccio sostanziale e una valutazione “caso per caso”[31]. Ciò non significa che gli aspetti formali nel campo dei rifiuti non abbiano alcuna rilevanza, poiché, anzi, l’affidabilità di una soluzione organizzativa dipende spesso dalla sua coerenza rispetto alla gestione complessiva dell’operazione, considerato che sovente le tematiche ambientali, come quelle legate alla salute e sicurezza sul lavoro, hanno carattere trasversale e coinvolgono svariati profili – organizzativo-gestionali, tecnici, contrattuali, fiscali – tutti rilevanti anche in “chiave 231”.

Occorre poi tenere in debita considerazione la nozione estensiva della definizione di rifiuto[32] – per cui, nel dubbio o in assenza di uno o più requisiti o condizioni, essa prevale su quella di “non rifiuto” – nonché l’attribuzione dell’onere della prova a carico del privato, per cui la prova circa la sussistenza di tutti i requisiti/condizioni per l’applicazione di un regime derogatorio rispetto a quello relativo alla gestione dei rifiuti è a carico di chi intenda avvalersene[33].

Ulteriori problematiche possono poi derivare dai regimi giuridici inerenti al luogo in cui un rifiuto si produce (si pensi alle discipline “speciali” del deposito temporaneo, esonerato da autorizzazione, e dei rifiuti di manutenzione, ipotesi derogatorie rispetto al regime ordinario) o, ancora, all’individuazione del produttore dello stesso su cui ricadano le responsabilità della sua corretta gestione (ad esempio in relazione alla definizione del produttore del rifiuto e all’allocazione degli obblighi tra committente e appaltatore negli appalti di lavori o servizi[34]). Allo stesso modo, in connessione con il tema “classico” della responsabilità penale del proprietario per i reati commessi da terzi sul proprio immobile, non è sempre agevole apprezzare sotto il profilo oggettivo e soggettivo l’addebito che può muoversi a colui che conceda in locazione un terreno a terzi non autorizzati allo svolgimento dell’attività di smaltimento di rifiuti[35].

Allo stesso modo, il reato di discarica abusiva di rifiuti (art. 256, comma 3 d.lgs. 152/2006) ricopre un ruolo fondamentale nella repressione dei fenomeni di illecito abbandono di rifiuti maggiormente offensivi, i quali, sempre più spesso al centro di vicende di cronaca giudiziaria, sono talora connotati da collegamenti con contesti di criminalità organizzata.

Nondimeno, si deve dare atto che tale fattispecie è altresì contestata in situazioni operative “ordinarie” riferibili a iniziative imprenditoriali di base lecite, quali ad esempio i cantieri, in presenza di questioni regolatorie e tecniche “di dettaglio”, che chiamano in causa discipline lacunose e prive dell’adeguato coordinamento (rifiuti, bonifiche, terre e rocce da scavo, matrici materiali di riporto, aggregati riciclati), la cui applicazione può comportare, “dalla sera alla mattina”, che un materiale considerato “non rifiuto” sia invece ritenuto tale a esito di valutazioni discrezionali degli enti di controllo, compiute anche a distanza di molto tempo rispetto alla posa in opera dei materiali e talora basate su motivazioni meramente formali.

La fattispecie – che copre tanto la fase operativa, quanto la fase post-operativa di esercizio della discarica[36], e che si distingue rispetto alle contravvenzioni di minor momento di illecito abbandono o di deposito incontrollato di rifiuti – è a duplice condotta: sono punite, infatti, da un lato, la realizzazione di una discarica abusiva, che per orientamento costante può consistere anche solo nell’allestimento (con effettuazione di opere, quali spianamento del terreno, apertura di accessi, sistemazione, perimetrazione o recinzione) ovvero nella mera destinazione di un determinato sito al progressivo accumulo dei rifiuti, senza che sia necessaria l’esecuzione di opere atte al funzionamento della discarica stessa[37]; dall’altro, la gestione di una discarica abusiva, integrata dalla sussistenza di un’organizzazione, anche se rudimentale, di persone e di cose diretta al funzionamento della medesima, non assumendo rilevanza il dato che il quantitativo di rifiuti presenti in loco non risulti di particolare entità[38].

Nell’individuare una «discarica» penalmente rilevante è possibile senz’altro guardare all’omologa definizione contenuta all’interno della normativa speciale di riferimento (art. 2, comma 1, lett. g) d.lgs. 36/2003[39]), che è stata tra l’altro oggetto di un recente intervento di riforma a opera del d.lgs. 121/2020, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2018/850, che modifica la direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti»; senonché, la norma extrapenale non esaurisce i possibili contenuti del precetto, posto che il dato temporale non definisce un elemento costitutivo del reato, il quale sussiste pure nel caso di abbandono reiterato di rifiuti, anche quando il loro deposito abbia durata inferiore a un anno[40].

Il contenuto dell’incriminazione, tra l’altro, può essere definito anche in negativo, per differenza rispetto ad altre condotte inerenti alla gestione dei rifiuti in senso lato.

Così, la discarica abusiva si differenzia dallo smaltimento, posto che la discarica sussiste quando, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti sono scaricati in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, in modo da cagionare il degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi[41]; analogamente, essa si distingue dall’abbandono di rifiuti in ragione della mera occasionalità di quest’ultimo (occasionalità che può essere desunta da elementi indicativi quali le modalità della condotta, la sua estemporaneità o il mero collocamento dei rifiuti in un determinato luogo in assenza di attività prodromiche o successive al conferimento, la quantità di rifiuti abbandonata, l’unicità della condotta di abbandono), laddove la discarica richiede una condotta abituale, come nel caso di plurimi conferimenti, ovvero un’unica azione, ma strutturata, anche se in modo grossolano e chiaramente finalizzata alla definitiva collocazione dei rifiuti in loco[42].

Contigua alla gestione abusiva di rifiuti è l’ipotesi autonoma e attenuata a livello sanzionatorio – tanto per la persona fisica che per l’ente – di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni ovvero di carenza dei requisiti e delle condizioni richieste per le iscrizioni o comunicazioni in regime semplificato, prevista dall’art. 256, comma 4 d.lgs. 152/2006, evidentemente ritenuta espressiva di un disvalore penale minore rispetto alla condotta del soggetto che si sottragga tout court alle prerogative di autorizzazione e di controllo preventivo in capo all’amministrazione.

L’incriminazione ruota intorno all’elemento costitutivo della “prescrizione” contenuta o richiamata nel provvedimento autorizzativo, che deve essere correttamente individuata, anche in assenza di un’espressa denominazione in tal senso, alla luce del contenuto precettivo sostanziale dell’indicazione e in necessaria connessione con le finalità e i limiti dell’autorizzazione rilasciata[43]. Peraltro – ad avviso di chi scrive – la prescrizione penalmente rilevante deve avere un contenuto ulteriore rispetto al mero richiamo di disposizioni di legge, la cui violazione spesso già integra un’autonoma ipotesi di reato ovvero costituisce illecito amministrativo; in quest’ultimo caso, diversamente opinando, si attuerebbe, per via interpretativa e in palese violazione del principio di legalità, con l’ulteriore effetto di intasare il sistema penale di violazioni bagatellari, un surrettizio upgrade del tipo di illecito per il semplice fatto che l’Amministrazione decida di apporre nel provvedimento autorizzativo una prescrizione, soltanto al fine di richiamare una disposizione di legge).

Maggiori problematiche interpretative pone, senza dubbio, la contravvenzione di miscelazione non consentita di rifiuti (art. 256, comma 5 d.lgs. 152/2006), che, essendo informata sulla violazione del divieto posto dall’art. 187 d.lgs. 152/2006, soffre – anche in sede di applicazione giudiziale – di un grave deficit di determinatezza.

La “delega al precetto” operata dal legislatore ambientale appare particolarmente insidiosa per due ordini di motivi.

Da un lato, infatti, non è immediatamente chiaro – anche a un’attenta lettura del testo della disposizione – l’ampiezza del divieto di miscelazione posto dall’art. 187 d.lgs. 152/2006, atteso che, al di là dei casi tipizzati di miscelazione vietata e di miscelazione in deroga (rispettivamente, commi 1 e 2), la materia è stata interessata pochi anni or sono da un’importante pronuncia della Corte costituzionale, che ha sterilizzato l’intervento di “liberalizzazione” delle miscelazioni non vietate (di cui all’art. 187, comma 3-bis d.lgs. 152/2006), ora ricondotte nell’alveo delle operazioni di trattamento per cui occorre un provvedimento autorizzativo[44].

Dall’altro lato, rimane tutt’oggi nebulosa la nozione normativa di “miscelazione”, per cui la giurisprudenza si rifugia correntemente in formula ormai tralatizia (operazione di mescolanza, volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti aventi codici identificativi diversi, in modo da dare origine a una miscela per la quale invece non esiste uno specifico codice identificativo)[45], senza però realmente addentrarsi nel merito della questione e chiarire in concreto “in cosa consista” la miscelazione; circostanza che importa un ulteriore vulnus alla precisione del tipo penale e per la quale è stato formulato l’auspicio di un maggior sforzo esplicativo attraverso il ricorso a una nozione rigorosa e “forte” di miscelazione[46].

Residuale e di sporadica applicazione giudiziaria[47], nel contesto applicativo dei reati presupposto in tema di gestione di rifiuti, è la fattispecie di deposito temporaneo illecito di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, comma 6 d.lgs. 152/2006), che assiste l’inosservanza delle regole per il deposito temporaneo presso il luogo di produzione poste dal d.P.R. 254/2003 («Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari»), richiamato in via mediata dal precetto penale per il tramite dell’art. 227, comma 1, lett. b) d.lgs. 152/2006.

La Parte Quarta del d.lgs. 152/2006 ospita altresì la disciplina in tema di bonifica dei siti contaminati, insieme con le relative fattispecie incriminatrici – omessa bonifica e omessa comunicazione di evento potenzialmente contaminante (art. 257 d.lgs. 152/2006) – che puniscono l’inosservanza degli adempimenti tecnici e procedurali che assistono il procedimento di bonifica.

Premesso che non è tutt’oggi pacifico se il rinvio operato dall’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001 sia riferito alla sola omessa bonifica “da sostanze pericolose” ovvero a entrambe le contravvenzioni[48] e che, invece, certamente non fonda la responsabilità dell’ente la nuova ipotesi delittuosa di omessa bonifica-ripristino dell’art. 452-terdecies c.p., la fattispecie di maggiore portata applicativa è senz’altro quella di omessa bonifica dell’art. 257, comma 1, primo periodo d.lgs. 152/2006.

L’omessa bonifica – che l’orientamento prevalente legge oggi come reato di evento, soggetto a condizione obiettiva di punibilità espressa in senso negativo –

costituisce per espressa previsione normativa un reato proprio, riferibile al solo responsabile dell’inquinamento (non al proprietario incolpevole o ai soggetti «interessati non responsabili» dell’art. 245, comma 1 d.lgs. 152/2006), il quale è punito per aver cagionato un fenomeno di inquinamento, definito in senso tecnico come superamento delle concentrazioni soglia di rischio (CSR, ossia un livello di rischio superiore ai livelli delle concentrazioni soglia di contaminazione, CSC), e non aver provveduto alla bonifica in conformità al progetto.

L’integrazione del reato, dunque, presuppone la sussistenza di un «progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli artt. 242 ss.», senza che possa ritenersi sanzionato l’inadempimento degli ulteriori e diversi obblighi previsti dall’articolo 242 d.lgs. 152/2006[49], anche se recentemente è stato “riesumato” quell’orientamento giurisprudenziale[50] che riteneva configurabile il reato anche qualora l’agente avesse impedito «la stessa formazione del progetto di bonifica, e quindi la sua realizzazione, attraverso la mancata attuazione del piano di caratterizzazione, necessario per predisporre il progetto di bonifica»[51].

L’omessa comunicazione di evento potenzialmente contaminante trova spazio nell’art. 257, comma 2, secondo periodo d.lgs. 152/2006, disposizione che incrimina il mancato rispetto dell’obbligo di dare immediata comunicazione» ai soggetti istituzionali previsti dall’art. 304, comma 2 d.lgs. 152/2006 «di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito».

Il precetto penale in esame pone diversi profili di incertezza, i quali finiscono per riverberarsi sulla stessa definizione dei presidi preventivi che l’ente dovrebbe adottare anche ai fini “231”.

Così, posto l’ampio rinvio alla norma extrapenale dell’art. 242 d.lgs. 152/2006, non è tutt’oggi chiaro se la contravvenzione abbracci pure le ipotesi di mancata comunicazione di «contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione», ossia casi in cui il fenomeno di inquinamento sia scoperto da un soggetto non responsabile dello stesso[52]. Sotto questo profilo, è oggi meno controverso – essendo assolutamente prevalente la tesi negativa[53] – se possa incorrere nella contravvenzione il soggetto non responsabile dell’inquinamento (quale il proprietario incolpevole del sito) in quanto gravato ex lege di specifici obblighi informativi verso le autorità ai sensi dell’art. 245 d.lgs. 152/2006.

Per giurisprudenza consolidata, ricorre il reato anche nel caso in cui intervengano sul luogo dell’inquinamento gli operatori di vigilanza preposti alla tutela ambientale, in quanto tale circostanza non esime l’operatore interessato dall’obbligo di comunicare agli organi preposti le misure di prevenzione e messa in sicurezza che intende adottare per impedire che il danno ambientale si verifichi, in modo da consentire agli organi preposti alla tutela ambientale del Comune, della Provincia e della Regione del territorio in cui si prospetta l’evento lesivo di prenderne compiutamente cognizione con riferimento a ogni possibile implicazione e di verificare lo sviluppo delle iniziative ripristinatorie intraprese[54].

Quanto ai contenuti della comunicazione – per cui l’art. 304, comma 2 d.lgs. 152/2006 richiama «le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire» – essi informano direttamente il precetto, rendendo penalmente rilevante l’ipotesi della comunicazione tempestiva ma “imperfetta” (ossia carente del contenuto previsto dalla legge)[55].

Un discorso a parte – per le travagliate vicende normative che hanno visto come protagonista la relativa disciplina – deve essere svolto in relazione ai reati in materia di tracciabilità dei rifiuti (artt. 258, comma 4 e 260-bis d.lgs. 152/2006) individuati fin dal 2011 come presupposto della responsabilità dell’ente.

L’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001 prevede una prima ipotesi di illecito amministrativo dipendente dalle fattispecie incriminatrici contenute nell’art. 260-bis d.lgs. 152/2006 – disposizione introdotta dal d.lgs. 205/2010 a copertura del Sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti (SISTRI, contestualmente introdotto dalla stessa riforma) – le quali tuttavia non hanno mai “preso vita” a causa delle proroghe “a catena” disposte per l’entrata in vigore del sottostante regime di tracciabilità dei rifiuti.

Ad oggi, il SISTRI, e così le fattispecie penali poste a suo presidio, sono stati definitivamente soppressi, a partire dal 1 gennaio 2019, per effetto dell’art. 6, comma 1 d.l. 135/2018 (c.d. decreto semplificazioni), conv. con mod. in l. 12/2019, il quale ha contestualmente previsto l’istituzione del nuovo Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti (RENTRI) – le cui concrete modalità di organizzazione e funzionamento sono ancora in stand by, in attesa dell’apposito decreto interministeriale di attuazione[56], su cui è stata recentemente avviata una sperimentazione – cui dovranno iscriversi, tra gli altri, gli enti e le imprese che effettuano il trattamento dei rifiuti, i produttori di rifiuti pericolosi e gli enti e le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale o che operano in qualità di commercianti e intermediari di rifiuti pericolosi.

L’altro reato in tema di tracciabilità dei rifiuti richiamato nel “catalogo 231” era il delitto dell’art. 258, comma 4, secondo periodo d.lgs. 152/2006, che – nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. 205/2010 – punisce con la pena di cui all’art. 483 c.p. chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti (da intendersi quali rifiuti non pericolosi, atteso il riferimento contenuto nel primo periodo alle «imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212, comma 8 che non aderiscano, su base volontaria, al SISTRI»), fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti, nonché chiunque faccia uso di un certificato falso durante il trasporto.

Anche tali ipotesi delittuosa, peraltro, ancorché dettata nella prospettiva dell’avvio del SISTRI, a causa del regime transitorio accennato non entrava di fatto mai in funzione ai fini della tutela penale della tracciabilità, lasciando in vigore la versione dell’art. 258 d.lgs. 152/2006 nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.lgs. 205/2010.

Con la conseguenza che il rinvio del d.lgs. 231/2001 all’art. 258, comma 4, secondo periodo, d.lgs. 152/2006 sembrerebbe essere riferito non alle fattispecie di predisposizione e uso di certificato analitico falso (previste nel periodo successivo), quanto al precetto che puniva – e punisce tutt’oggi anche a seguito della riforma portata dal d.lgs. 116/2020 – la falsità nei (o l’erroneità dei) formulari di trasporto relativi ai rifiuti pericolosi o il trasporto senza formulario di rifiuti pericolosi. Un’alternativa interpretativa maggiormente coerente con l’originario intento del legislatore del 2011 porterebbe nondimeno a considerare che l’odierno rinvio attuato dall’art. 25-undecies d.lgs. 231/2001 sia frutto di un mero difetto di coordinamento normativo e che, dunque, costituisca presupposto della responsabilità dell’ente il reato di predisposizione e uso di certificato analitico di rifiuti non pericolosi falso. Appare evidente, ad ogni modo, come un simile groviglio interpretativo, che pone problematiche in termini di legalità e di certezza del diritto anche sotto il profilo della successione delle norme penali nel tempo, imponga un intervento risolutore in sede legislativa.

Un rilievo affatto crescente sta assumendo nella prassi operativa – anche in ragione della cogente necessità di trovare uno “sbocco” all’estero per determinate tipologie di rifiuti – la contravvenzione di traffico illecito di rifiuti (art. 259 d.lgs. 152/2006), che sanziona la realizzazione di una «spedizione illegale» ai sensi del regolamento CE 1013/2006 sulle spedizioni transfrontaliere di rifiuti (normativa da leggersi congiuntamente al Regolamento CE 1418/2007, che detta specifiche procedure per l’esportazione di rifiuti destinati a recupero verso alcuni Paesi a cui non si applica la decisione OCSE).

Il reato di traffico illecito di rifiuti trova sempre più spazio nelle aule di giustizia, in quanto solitamente connesso a diverse e più gravi fattispecie delittuose, quali le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti[57] (art. 260 d.lgs. 152/2006, oggi trasposto nell’art. 425-quaterdecies c.p.), con cui condivide il nucleo di tipicità delle operazioni di «esportazione» e «importazione» di rifiuti e con cui concorre[58], ovvero le falsità in atti, in particolare il falso ideologico in atto pubblico contestato al privato esportatore in forma “mediata”, secondo le disposizioni degli artt. 479 e 48 c.p. (relativamente alle dichiarazioni rese, ad esempio, nelle bollette doganali e poi trasfuse nella dichiarazione di esportazione).

Nondimeno, la fattispecie contravvenzionale spesso trova applicazione anche in presenza di mere irregolarità formali nella documentazione che deve accompagnare la spedizione (ad esempio, in caso di errori materiali nella compilazione dell’Allegato VII, richiesto per le spedizioni di rifiuti destinati a recupero ai sensi dell’art. 18 regolamento CE 1013/2006[59]).

In chiusura della trattazione relativa ai reati presupposto in materia di gestione dei rifiuti previsti dal d.lgs. 152/2006, si segnalano due fattispecie di responsabilità “apparente” ai sensi del d.lgs. 231/2001 nascoste tra le pieghe della Parte Quarta dello stesso d.lgs. 152/2006. Si tratta di fattispecie di responsabilità monosoggettiva o plurisoggettiva, informate, per espresso dettato normativo, al modello del d.lgs. 231/2001, all’insegna di un ibrido sanzionatorio definito in dottrina come un vero e proprio quartum genus sanzionatorio[60].

Così, in tema di divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti, l’articolo 192 d.lgs. 152/2006, impregiudicate le sanzioni amministrative o penali dei successivi articoli 255 e 256, pone a carico del responsabile della violazione (nonché del proprietario e degli altri titolari di diritti reali o personali di godimento cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa) gli obblighi di rimozione, avvio a recupero o smaltimento e ripristino dello stato dei luoghi, e, qualora «la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica», chiama «la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa» a rispondere in via solidale «secondo le previsioni» del d.lgs. 231/2001.

Similmente, l’articolo 256-bis d.lgs. 152/2006, recante il delitto di combustione illecita di rifiuti (c.d. abbruciamento), configura un’autonoma responsabilità a titolo omissivo per culpa in vigilando a carico del titolare dell’impresa o del responsabile dell’attività comunque organizzata per la «omessa vigilanza sull’operato degli autori materiali del delitto comunque riconducibili all’impresa o all’attività stessa» e dispone che nei confronti di tali soggetti si applichino – parrebbe obbligatoriamente – le sanzioni interdittive previste dall’art. 9 d.lgs. 231/2001.

Le due ipotesi, peraltro, paiono tra loro speculari, se è vero che nel caso dell’art. 192 d.lgs. 152/2006 presupposto della responsabilità è un fatto illecito che costituisce reato (ossia la fattispecie dell’articolo 256, comma 2 d.lgs. 152/2006, in quanto riferibile ai titolari di imprese e ai responsabili di enti), ma che non figura nel “catalogo 231” dei reati ambientali, e che il richiamo ivi contenuto al d.lgs. 231/2001 è finalizzato a imputare alla societas gli obblighi ambientali di rimozione, avvio a trattamento e ripristino[61], limitandosi la norma a mutuare a tal fine i criteri ascrittivi della responsabilità dell’ente definiti dall’articolo 5 d.lgs. 231/2001.

D’altro canto, la fattispecie sanzionatoria dell’art. 256-bis d.lgs. 152/2006 dispone l’irrogazione nei confronti della persona fisica “apicale” delle sanzioni interdittive ordinariamente previste a carico degli enti, in relazione alla sua eventuale responsabilità per il fatto di combustione illecita, anche nella forma dell’omessa vigilanza sull’operato dei propri dipendenti, con un evidente effetto di “disallineamento” tra il destinatario della sanzione (persona fisica) e il target delle sanzioni medesime prescelto dal legislatore del 2001 (l’ente)[62].

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Sistema 231

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