Prospettive risarcitorie del danno morale, tra riserva di legge e tutela dei PACS
La risarcibilità del danno morale parentale derivante da fatto illecito costituisce problematica alla quale da lungo tempo si accompagnano notevoli complicazioni ed animati dibattiti; non v’è da stupirsi, quindi, della frequenza con cui la stessa investe l’attenzione dei componenti del Supremo Collegio.
Alla pacificità del riconoscimento del danno morale parentale derivante dalla morte del congiunto e del relativo diritto al risarcimento si sono affiancati i - prevedibili - contrasti determinati dalla più difficoltosa individuazione del medesimo danno nel caso in cui questo sia ricollegabile a lesioni occorse al congiunto, che non ne abbiano però provocato il decesso. L’intervento delle Sezioni Unite, pronunciatesi con la sentenza n. 9556 del 2002, ha, da ultimo, offerto definitivo avallo alla tesi favorevole alla risarcibilità del danno morale subito dai prossimi congiunti delle vittime di lesioni colpose. Le Sezioni Unite hanno infatti osservato che la causalità diretta ed immediata richiesta dall’art. 1223 c.c. per il risarcimento del danno, lungi dal costituire elemento ostativo all’individuazione del diritto dei prossimi congiunti ad ottenere il risarcimento del danno morale rappresenta, piuttosto, la conferma della caratterizzazione del danno parentale come conseguenza immediata del fatto illecito, meritevole pertanto di risarcimento.
La sentenza n. 15760/2006 della Corte di Cassazione, oggi in commento, non si discosta dal consolidato orientamento, favorevole al riconoscimento del danno morale spettante ai congiunti ex art. 2059 c.c.
Tale pronuncia merita, peraltro, particolare attenzione in considerazione degli spunti offerti nei confronti della prospettazione di nuovi orizzonti risarcitori del danno morale da morte del congiunto.
Evidente è la delicatezza e la portata emozionale della fattispecie esaminata dal Supremo Collegio, che concerne la morte di un minorenne, travolto, durante le vacanze estive, da un motoscafo condotto da altro minore.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso principale dei congiunti del defunto, cassa con rinvio la sentenza del Giudice di secondo grado, che aveva erroneamente applicato i criteri di risarcimento del danno parentale morale jure proprio, ed all’uopo indica i principi di diritto a cui la Corte d’Appello dovrà attenersi per la corretta valutazione di tale danno, meritevole di risarcimento integrale, e non limitatatamente alla mera pecunia doloris.
Valutazione che si riconnette alla più ampia concezione del danno di cui all’art. 2059 c.c., considerato come danno non patrimoniale, e non, restrittivamente, come danno morale, in quanto tale sottoposto a più angusti limiti in materia di liquidazione del risarcimento. Lo stesso codice delle assicurazioni, con l’introduzione del sistema della “congrua offerta”, dimostra, peraltro, di avere aderito alla descritta concezione, secondo la quale i parametri tabellari elaborati dalla giurisprudenza di merito con riferimento alla quantificazione del danno biologico costituiscono uno solo degli elementi di cui tenere conto per la stima del danno non patrimoniale.
L’interesse posto al centro dell’angolo visuale adottato dalla Corte di Cassazione risulta, chiaramente, la tutela della famiglia, la protezione del nucleo familiare considerato come humus, come suprema estrinsecazione della vita stessa.
In una siffatta ricostruzione, il motivo portante dell’interpretazione della “riserva di legge” posta dall’art. 2059 c.c. quale fonte e, nel contempo, quale confine del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale diviene, al di là del riferimento - pur indispensabile - all’art. 185 c.p., la imprescindibile tutela dei valori sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
Il fatto illecito integrante il reato di omicidio colposo, antecedente causale dell’evento-morte, giustifica, pertanto, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale dei congiunti in conseguenza della sua configurazione come lesione dei fondamentali principi di cui all’art. 2 ed all’art. 29 Cost.; ossia, del diritto alla vita e del diritto all’unità familiare, intesa quale estrinsecazione della vita stessa.
La lettura del danno morale ex art. 2059 c.c. come radicale modificazione peggiorativa della “qualità della vita” conseguente all’evento dannoso, come lesione dei beni, costituzionalmente tutelati, della “integrità familiare” e della “solidarietà familiare” non è, peraltro, scevra da contaminazioni con la rappresentazione del danno esistenziale recentemente operata dal medesimo Supremo Collegio: danno esistenziale considerato come hedonic damage, come lesione della serenità della vita familiare la cui tutela, svincolata dalla sussistenza di un illecito penale, trova fondamento nel testo costituzionale.
Alla luce di una tale ottica, desta, forse, qualche perplessità l’arretramento del Supremo Collegio rispetto alle più recenti posizioni: con la sentenza in epigrafe viene, invero, sostanzialmente negata la possibilità di riconoscere la legittimità e l’autonomia della categoria del danno esistenziale tratte da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
Se, come osservato dalla Suprema Corte, al solo diritto positivo è dato rimettersi per fondare la tutela del danno parentale conseguente alla lesione di posizioni giuridiche soggettive costituzionalmente protette, viene allora da interrogarsi su quale potrà essere il futuro della categoria del danno esistenziale inteso come autonoma elaborazione giurisprudenziale e, soprattutto, su quale reale portata possa effettivamente assumere il riferimento ai valori costituzionali nel momento in cui non si prescinda dall’applicazione della riserva di legge come strumento di stretta tipizzazione delle fattispecie tutelabili.
La – apparente? – discrasia tra tassatività della riserva di legge ed elasticità dell’interpretazione costituzionalmente orientata assume ancora maggiore rilevanza nel momento in cui il Supremo Collegio, prospettando l’opportunità, dettata dalla necessità di adeguamento ai mutamenti sociali, di operare un’interpretazione estensiva del testo costituzionale, ne deduce che, prima o poi, anche i c.d. nuovi parenti, le famiglie di fatto caratterizzate da stabile convivenza ma prive del suggello matrimoniale, si riterranno legittimate ad ottenere il risarcimento del danno morale “parentale”.
Ora, a prescindere dalla innegabile attualità del dibattito relativo all’opportunità dell’introduzione dei PACS, va rilevato che la citata osservazione della Suprema Corte non rappresenta un caso isolato, essendo ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del danno morale da morte nel caso di stabile e durevole convivenza more uxorio. Trova applicazione, all’uopo, l’art. 2 Cost.: la giurisprudenza considera infatti la lesione subita dal convivente del soggetto danneggiato da un fatto illecito che ne abbia provocato la morte quale violazione del principio costituzionale di solidarietà sociale, come tale legittimante al
risarcimento del danno.
Secondo un primo, risalente orientamento, la giurisprudenza di merito riconosceva il diritto del convivente al risarcimento dei soli danni morali derivanti dalla morte di un componente della famiglia di fatto provocata da un fatto illecito integrante fattispecie di reato: si vedano, in proposito, ex multis, Trib. pen. Verona, 3 dicembre 1980; Trib. civ. Milano, 18 febbraio 1988; Trib. civ. Roma, 9 luglio 1991).
Successivamente, tuttavia, la Suprema Corte, nella sentenza n. 2988/1994, ha ritenuto che, nell’ipotesi della famiglia di fatto (descritta come una “relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale”), la morte del convivente provocata da fatto illecito faccia sorgere il diritto al risarcimento non soltanto del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., ma anche, analogamente alla famiglia legittima, del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
La tutela de jure condendo offerta dalla giurisprudenza alle famiglie di fatto non si è, peraltro, limitata al riconoscimento del risarcibilità dei danni derivanti dalla morte del convivente.
In proposito, vale la pena ricordare che, in materia di locazioni, la Corte Costituzionale, con la sentenza 7 aprile 1988 n. 404, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 392/1978, per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9868 del 1997, ha ritenuto che, nell’ipotesi di allontanamento del conduttore dell’immobile, la convivente more uxorio che continui ad abitarvi con la prole abbia diritto di succedere nel contratto di locazione, anche senza che il locatore ne venga a conoscenza.
In materia di diritto di famiglia, l’equiparazione della tutela dei figli naturali a quella dei figli legittimi è sancita dal legislatore all’art. 261 c.c.; anche in caso di convivenza more uxorio, la casa familiare spetta al genitore affidatario, ancorché non proprietario dell’immobile (Corte Costituzionale, sent. n. 166/1998).
De jure condito, invece, due importanti disposizioni prevedono la sostanziale equiparazione della famiglia di fatto a quella legittima: l’art. 199 c. 3 c.p.p., che riconosce anche a chi “pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso” la facoltà di astenersi dall’obbligo di testimoniare, e gli artt. 342 bis e ter c.c., introdotti dalla L. 154/2001 ("Misure contro la violenza nelle relazioni familiari"), che estendono alla famiglia di fatto la disciplina prevista, in materia di “Ordini di protezione contro gli abusi familiari” a favore della famiglia legittima.
Alla luce di ciò, ed a prescindere dagli interrogativi, pur delicati, che la Suprema Corte ha lasciato aperti con la sentenza n. 15760/2006, le prospettate conclusioni verso cui sempre più costantemente la giurisprudenza dimostra di voler dirigersi in materia di tutela delle famiglie di fatto appaiono senza dubbio adeguate alla necessità di una interpretazione ed applicazione dello jus positum teleologicamente orientata alla sua “traduzione” in diritto vivente. Guida ed egida rimangono, in ogni caso, i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico; principi tra cui, in primo luogo, si distingue la ratio della stessa Carta Costituzionale.
La risarcibilità del danno morale parentale derivante da fatto illecito costituisce problematica alla quale da lungo tempo si accompagnano notevoli complicazioni ed animati dibattiti; non v’è da stupirsi, quindi, della frequenza con cui la stessa investe l’attenzione dei componenti del Supremo Collegio.
Alla pacificità del riconoscimento del danno morale parentale derivante dalla morte del congiunto e del relativo diritto al risarcimento si sono affiancati i - prevedibili - contrasti determinati dalla più difficoltosa individuazione del medesimo danno nel caso in cui questo sia ricollegabile a lesioni occorse al congiunto, che non ne abbiano però provocato il decesso. L’intervento delle Sezioni Unite, pronunciatesi con la sentenza n. 9556 del 2002, ha, da ultimo, offerto definitivo avallo alla tesi favorevole alla risarcibilità del danno morale subito dai prossimi congiunti delle vittime di lesioni colpose. Le Sezioni Unite hanno infatti osservato che la causalità diretta ed immediata richiesta dall’art. 1223 c.c. per il risarcimento del danno, lungi dal costituire elemento ostativo all’individuazione del diritto dei prossimi congiunti ad ottenere il risarcimento del danno morale rappresenta, piuttosto, la conferma della caratterizzazione del danno parentale come conseguenza immediata del fatto illecito, meritevole pertanto di risarcimento.
La sentenza n. 15760/2006 della Corte di Cassazione, oggi in commento, non si discosta dal consolidato orientamento, favorevole al riconoscimento del danno morale spettante ai congiunti ex art. 2059 c.c.
Tale pronuncia merita, peraltro, particolare attenzione in considerazione degli spunti offerti nei confronti della prospettazione di nuovi orizzonti risarcitori del danno morale da morte del congiunto.
Evidente è la delicatezza e la portata emozionale della fattispecie esaminata dal Supremo Collegio, che concerne la morte di un minorenne, travolto, durante le vacanze estive, da un motoscafo condotto da altro minore.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso principale dei congiunti del defunto, cassa con rinvio la sentenza del Giudice di secondo grado, che aveva erroneamente applicato i criteri di risarcimento del danno parentale morale jure proprio, ed all’uopo indica i principi di diritto a cui la Corte d’Appello dovrà attenersi per la corretta valutazione di tale danno, meritevole di risarcimento integrale, e non limitatatamente alla mera pecunia doloris.
Valutazione che si riconnette alla più ampia concezione del danno di cui all’art. 2059 c.c., considerato come danno non patrimoniale, e non, restrittivamente, come danno morale, in quanto tale sottoposto a più angusti limiti in materia di liquidazione del risarcimento. Lo stesso codice delle assicurazioni, con l’introduzione del sistema della “congrua offerta”, dimostra, peraltro, di avere aderito alla descritta concezione, secondo la quale i parametri tabellari elaborati dalla giurisprudenza di merito con riferimento alla quantificazione del danno biologico costituiscono uno solo degli elementi di cui tenere conto per la stima del danno non patrimoniale.
L’interesse posto al centro dell’angolo visuale adottato dalla Corte di Cassazione risulta, chiaramente, la tutela della famiglia, la protezione del nucleo familiare considerato come humus, come suprema estrinsecazione della vita stessa.
In una siffatta ricostruzione, il motivo portante dell’interpretazione della “riserva di legge” posta dall’art. 2059 c.c. quale fonte e, nel contempo, quale confine del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale diviene, al di là del riferimento - pur indispensabile - all’art. 185 c.p., la imprescindibile tutela dei valori sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
Il fatto illecito integrante il reato di omicidio colposo, antecedente causale dell’evento-morte, giustifica, pertanto, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale dei congiunti in conseguenza della sua configurazione come lesione dei fondamentali principi di cui all’art. 2 ed all’art. 29 Cost.; ossia, del diritto alla vita e del diritto all’unità familiare, intesa quale estrinsecazione della vita stessa.
La lettura del danno morale ex art. 2059 c.c. come radicale modificazione peggiorativa della “qualità della vita” conseguente all’evento dannoso, come lesione dei beni, costituzionalmente tutelati, della “integrità familiare” e della “solidarietà familiare” non è, peraltro, scevra da contaminazioni con la rappresentazione del danno esistenziale recentemente operata dal medesimo Supremo Collegio: danno esistenziale considerato come hedonic damage, come lesione della serenità della vita familiare la cui tutela, svincolata dalla sussistenza di un illecito penale, trova fondamento nel testo costituzionale.
Alla luce di una tale ottica, desta, forse, qualche perplessità l’arretramento del Supremo Collegio rispetto alle più recenti posizioni: con la sentenza in epigrafe viene, invero, sostanzialmente negata la possibilità di riconoscere la legittimità e l’autonomia della categoria del danno esistenziale tratte da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
Se, come osservato dalla Suprema Corte, al solo diritto positivo è dato rimettersi per fondare la tutela del danno parentale conseguente alla lesione di posizioni giuridiche soggettive costituzionalmente protette, viene allora da interrogarsi su quale potrà essere il futuro della categoria del danno esistenziale inteso come autonoma elaborazione giurisprudenziale e, soprattutto, su quale reale portata possa effettivamente assumere il riferimento ai valori costituzionali nel momento in cui non si prescinda dall’applicazione della riserva di legge come strumento di stretta tipizzazione delle fattispecie tutelabili.
La – apparente? – discrasia tra tassatività della riserva di legge ed elasticità dell’interpretazione costituzionalmente orientata assume ancora maggiore rilevanza nel momento in cui il Supremo Collegio, prospettando l’opportunità, dettata dalla necessità di adeguamento ai mutamenti sociali, di operare un’interpretazione estensiva del testo costituzionale, ne deduce che, prima o poi, anche i c.d. nuovi parenti, le famiglie di fatto caratterizzate da stabile convivenza ma prive del suggello matrimoniale, si riterranno legittimate ad ottenere il risarcimento del danno morale “parentale”.
Ora, a prescindere dalla innegabile attualità del dibattito relativo all’opportunità dell’introduzione dei PACS, va rilevato che la citata osservazione della Suprema Corte non rappresenta un caso isolato, essendo ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del danno morale da morte nel caso di stabile e durevole convivenza more uxorio. Trova applicazione, all’uopo, l’art. 2 Cost.: la giurisprudenza considera infatti la lesione subita dal convivente del soggetto danneggiato da un fatto illecito che ne abbia provocato la morte quale violazione del principio costituzionale di solidarietà sociale, come tale legittimante al
risarcimento del danno.
Secondo un primo, risalente orientamento, la giurisprudenza di merito riconosceva il diritto del convivente al risarcimento dei soli danni morali derivanti dalla morte di un componente della famiglia di fatto provocata da un fatto illecito integrante fattispecie di reato: si vedano, in proposito, ex multis, Trib. pen. Verona, 3 dicembre 1980; Trib. civ. Milano, 18 febbraio 1988; Trib. civ. Roma, 9 luglio 1991).
Successivamente, tuttavia, la Suprema Corte, nella sentenza n. 2988/1994, ha ritenuto che, nell’ipotesi della famiglia di fatto (descritta come una “relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale”), la morte del convivente provocata da fatto illecito faccia sorgere il diritto al risarcimento non soltanto del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., ma anche, analogamente alla famiglia legittima, del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
La tutela de jure condendo offerta dalla giurisprudenza alle famiglie di fatto non si è, peraltro, limitata al riconoscimento del risarcibilità dei danni derivanti dalla morte del convivente.
In proposito, vale la pena ricordare che, in materia di locazioni, la Corte Costituzionale, con la sentenza 7 aprile 1988 n. 404, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 392/1978, per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9868 del 1997, ha ritenuto che, nell’ipotesi di allontanamento del conduttore dell’immobile, la convivente more uxorio che continui ad abitarvi con la prole abbia diritto di succedere nel contratto di locazione, anche senza che il locatore ne venga a conoscenza.
In materia di diritto di famiglia, l’equiparazione della tutela dei figli naturali a quella dei figli legittimi è sancita dal legislatore all’art. 261 c.c.; anche in caso di convivenza more uxorio, la casa familiare spetta al genitore affidatario, ancorché non proprietario dell’immobile (Corte Costituzionale, sent. n. 166/1998).
De jure condito, invece, due importanti disposizioni prevedono la sostanziale equiparazione della famiglia di fatto a quella legittima: l’art. 199 c. 3 c.p.p., che riconosce anche a chi “pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso” la facoltà di astenersi dall’obbligo di testimoniare, e gli artt. 342 bis e ter c.c., introdotti dalla L. 154/2001 ("Misure contro la violenza nelle relazioni familiari"), che estendono alla famiglia di fatto la disciplina prevista, in materia di “Ordini di protezione contro gli abusi familiari” a favore della famiglia legittima.
Alla luce di ciò, ed a prescindere dagli interrogativi, pur delicati, che la Suprema Corte ha lasciato aperti con la sentenza n. 15760/2006, le prospettate conclusioni verso cui sempre più costantemente la giurisprudenza dimostra di voler dirigersi in materia di tutela delle famiglie di fatto appaiono senza dubbio adeguate alla necessità di una interpretazione ed applicazione dello jus positum teleologicamente orientata alla sua “traduzione” in diritto vivente. Guida ed egida rimangono, in ogni caso, i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico; principi tra cui, in primo luogo, si distingue la ratio della stessa Carta Costituzionale.