Dal diritto successorio al diritto alla felicità: la (definitiva?) apertura della Corte di Cassazione al riconoscimento del danno esistenziale da morte del congiunto
Con la recentissima sentenza n. 13546 del 12/06/2006 la Corte di Cassazione sembra, finalmente, voler porre il definitivo suggello al riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale quale autonoma rappresentazione del danno esistenziale, come tale svincolata da qualsiasi riflesso sia di natura medico-legale, sia di natura patrimoniale, oltre che liberata dal peso di un onere probatorio che rischiava di trasformarsi in una probatio diabolica.
Ed invero la III Sez. Civile del Supremo Collegio, aderendo con convinzione alla posizione recentemente adottata dalle Sezioni Unite, che, nella sentenza n. 6572 del 24/03/2006 hanno configurato il danno esistenziale come pregiudizio “provocato sul fare areddituale del soggetto”, tipizzabile sulla base della sua idoneità ad influire sulla vita di relazione, sulle abitudini, sulle scelte di vita del danneggiato, ha ricondotto anche il danno da morte del congiunto nell’alveo del danno esistenziale, considerato come tertium genus rispetto alle categorie del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. e del danno morale soggettivo ex art. 2059 c.c., e ne ha superato le intrinseche limitazioni attraverso le aperture consentite da una lettura “costituzionalmente orientata”.
Per comprendere meglio l’attuale posizione del Supremo Collegio in ordine alla autonoma riconoscibilità e relativa risarcibilità del danno provocato dalla morte del congiunto appaiono, preliminarmente, opportuni alcuni cenni in merito al percorso giurisprudenziale e dottrinale attraverso il quale si è pervenuti alla configurazione di tale peculiare categoria di danno.
Per lungo tempo, e comunque prima che si addivenisse alla prospettazione del danno esistenziale come categoria autonoma ed idonea a consentire il superamento della summa divisio codicistica tra il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, o danno morale soggettivo di cui all’art. 2059 c.c., il danno da morte del congiunto veniva ricollegato e circoscritto alla categoria del “danno biologico”, con tutte le limitazioni, specie di natura probatoria, da ciò derivanti.
In particolare, il danno biologico da morte del congiunto è stato investito, da giurisprudenza e dottrina, di una duplice valenza: alla concezione di un danno biologico iure hereditario, per sua natura riflesso, in quanto fondato sulla trasmissibilità agli eredi del credito risarcitorio attribuibile alla vittima della lesione mortale, si è ben presto affiancata la concezione di un danno biologico iure proprio, diretto, identificabile con la lesione all’integrità psico-fisica subita personalmente dai congiunti della vittima ed accertata dal punto di vista medico-legale.
Le divergenze giurisprudenziali e dottrinali verificatesi in ordine alla effettiva configurabilità del danno biologico iure hereditario hanno tuttavia evidenziato la inadeguatezza dei meccanismi di tutela previsti dal nostro ordinamento giuridico in favore dei familiari delle vittime della più grave tra le lesioni, la morte.
Ed invero, alla posizione (sostenuta con forza dalle Corti di merito) favorevole alla trasmissibilità del credito risarcitorio sulla base sia dell’argomento a fortiori (secondo cui la perdita della vita, considerata come massima espressione della lesione alla salute, condurrebbe senza dubbio al riconoscimento, in capo agli eredi della vittima, del diritto al risarcimento - cfr., in particolare, Trib. Roma, sent. 24/05/1988, cassata da Cass., 14/03/1996; Trib. di Massa, sent. 29/01/1990), sia della necessaria individuabilità di lesioni integranti un danno biologico precedentemente alla realizzazione dell’evento-morte, come sostenuto da Trib. Di Napoli nella sent. 8/07/1988 e nella sent. 16/01/1995, si è contrapposta una posizione negativa, contraria, cioè, al riconoscimento della risarcibilità del danno biologico in favore degli eredi del defunto in forza non solo della generale intrasmissibilità del diritto alla salute, ma anche del divario tra “diritto alla salute” e “diritto alla vita” (cfr. App. Genova, 4/04/1990).
La tesi restrittiva è apparsa prevalente in giurisprudenza di legittimità: il Supremo Collegio ha, infatti, più volte negato la risarcibilità del danno biologico iure hereditario (cfr. Cass. 24/04/1994 n. 3592; Cass. 29/05/1996 n. 4991; Cass. 30/10/1998 n. 10896), ponendosi, in tal senso, nel solco già tracciato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 372 del 27/10/1994. In tale sentenza, infatti, la Corte Costituzionale, evidenziando la fallacia dell’argomento dell’ a fortiori, e la conseguente inconfigurabilità, in capo al defunto, di una lesione all’integrità psico-fisica tale da giustificare un risarcimento trasmissibile agli eredi, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2043 e 2059 c.c. sollevata dal Tribunale di Firenze.
Citando una, in verità piuttosto risalente nel tempo, sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 3475 del 1925), la Corte ha però riconosciuto il diritto - trasmissibile agli eredi - al risarcimento del danno biologico subito dal de cuius nel lasso di tempo intercorrente tra la produzione delle lesioni alla salute e la successiva morte, diritto che ha, recisamente, aprioristicamente escluso - con ciò conseguentemente escludendo la relativa trasmissibilità agli eredi - nel caso in cui alle lesioni consegua la morte istantanea. In quest’ultimo caso, segnatamente, il diritto al risarcimento verrebbe escluso in ragione della insussistenza di conseguenze pregiudizievoli sulla salute del soggetto leso, consistendo il diritto alla salute ed il diritto alla vita in due fattispecie nettamente distinte.
Con la medesima, citata sentenza, la Corte Costituzionale ha, d’altro canto, riconosciuto la risarcibilità del danno biologico patito iure proprio dai familiari della vittima di un illecito che ne abbia provocato la morte; in questo caso, però, precisando che tale danno, lungi dal poter essere sussunto nel modello risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c. (non essendo realizzabile, per difetto della concreta prevedibilità, una valutazione autonoma della colpa da parte del soggetto agente), dovrebbe essere, piuttosto, ricondotto al danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 c.c.
Da questo punto di vista, determinante è stata l’influenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 372/1994 in materia di riconoscimento della risarcibilità del danno biologico iure proprio subito dai congiunti, semprechè tale danno, lungi dall’esaurirsi in uno stato patologico transeunte, consista in un trauma psichico permanente, comunque accertato attraverso consulenza medico-legale (cfr. Trib. Trento, 19/05/1995; Trib. Napoli, 16/01/1995; Cass. Civ., 13/02/002 n. 2082; 20/02/2000 n. 2134). Più recentemente, ancora una volta è stata la Corte Costituzionale a segnare, con la sentenza n. 233 del 2003, la svolta in materia di riconoscimento e relativa risarcibilità del danno da morte Accogliendo le istanze, ormai sempre più diffuse, rivolte ad una più ampia configurabilità del danno alla persona in generale, la Corte Costituzionale si è spinta, per la prima volta, al punto di svincolare il danno da perdita del congiunto dalla concezione di danno all’integrità psicofisica e dal relativo, rigido onere probatorio, e lo ha, di converso, ricollegato alla figura del danno esistenziale, inteso come lesione ad un interesse costituzionalmente tutelato.
Tale fondamentale svolta ha trovato il suo humus nel recente, progressivo riconoscimento dottrinario del danno esistenziale (o, come alcuni autori preferiscono, “danno personale”) quale categoria autonoma, rapportabile alla sfera umana relazionale, dinamica, in linea con lo spirito dei tempi; in questo senso, particolare importanza hanno rivestito i suggerimenti, provenienti da oltreoceano, materializzabili nel “diritto a raggiungere la felicità”, diritto di rilevanza costituzionale, ed il c.d. hedonic damage.
E finalmente anche la Suprema Corte, con la sentenza in commento, attribuendo al concetto di salute un’estensione ampia, elastica, consistente non solo in una mera assenza di malattia, ma, in senso dinamico, in uno stato di benessere fisico, mentale e sociale (secondo la nozione elaborata dall’OMS e condivisa anche dal Codice di deontologia medica italiana), ha operato una rilettura del danno esistenziale; danno che, in tal modo ben delineato, viene identificato con una modificazione in senso peggiorativo della qualità della vita dell’individuo, ben al di là del tradizionale bipolarismo fondato sulla diade “danno patrimoniale” – “danno morale soggettivo dipendente da reato”.
Non solo. Altra decisa - e decisiva - presa di posizione del Supremo Collegio effettuata con la sentenza n. 13546 del 2006 concerne l’interpretazione dell’onere probatorio incombente sui potenziali titolari del diritto al risarcimento del danno da morte del congiunto; presa di posizione che assume un valore ancor più significativo, ove ci si soffermi a considerare i notevoli ostacoli all’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno biologico sofferto iure proprio per la morte di un congiunto, ove non risulti soddisfatto il rigido onere probatorio consistente nell’allegazione di consulenza medico-legale che attesti l’effettiva sussistenza di una patologia psico-fisica di tipo permanente, eziologicamente connessa alla perdita subìta.
Le recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, da ultimo realizzate con la sentenza del 12 giugno 2006, pongono invece, come fatto-base di rilevanza tale da far discendere da sé, come necessaria conseguenza, presuntivamente provata, il diritto al risarcimento del danno esistenziale in capo ai congiunti della vittima, lo stesso rapporto di parentela, specificamente ove questo sia associato alla convivenza.
Dirompente appare la rilevanza di questo assunto, argomentato con forza dalla Suprema Corte: è così che la presenza di una presunzione - lapalissianamente fondata sull’esistenza stessa del rapporto di parentela, e che tuttavia assurge al rango di piena prova - audacemente sovverte l’ordine prestabilito e determina il capovolgimento dell’onere della prova: è quindi il danneggiante a dover “vincere la presunzione di sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative”, allegando elementi idonei a confutare la “serenità” e l’ “armonia” del rapporto familiare del danneggiato (ma, viene spontaneo domandarsi, come può non scorgere in questo tipo di onere probatorio la tanto osteggiata probatio diabolica?).
Irrinunciabili appaiono, a questo punto, taluni rilievi in ordine al sistema risarcitorio conseguente da quanto sopra rappresentato. Con riferimento al sistema assicurativo, ad esempio, si ricorda la sentenza n. 2637 del 9 febbraio 2005, con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che, quando gli stretti congiunti agiscono jure proprio per il risarcimento del danno derivante dalla morte di un parente, il limite risarcitorio consistente nel massimale previsto dalla polizza assicurativo non coincide, cumulativamente per tutti, con quello previsto per una sola persona danneggiata, ma consiste, distintamente per ognuno, in quello previsto per ciascun danneggiato. Orbene, è evidente che l’intervenuta sussunzione del danno da morte del congiunto nella categoria del danno esistenziale, unitamente alle inevitabili “maglie larghe” tessute da un sistema probatorio incentrato sulle presunzioni comporterà necessari riflessi sul sistema assicurativo, notoriamente basato sul sistema della previsione e della redistribuzione dei rischi, con conseguenti difficoltà di gestione legate ai repentini mutamenti dell’orizzonte giurisprudenziale.
In conclusione, la - ormai, pressoché pacifica - apertura giurisprudenziale, suggellata dalla sentenza n. 13546 del 2006, ad una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c., unitamente alla inedita attribuzione di giuridica meritevolezza ad interessi ed aspetti – quali la serenità del nucleo familiare e l’equilibrio mentale dei suoi componenti, da essa derivante, a prescindere da qualsiasi rilievo di tipo nosologico da un lato, patrimoniale dall’altro – prima d’ora confinati ad ambiti nei quali il diritto riteneva di non potere (né lo auspicava) introdursi, non potrà prescindere da un’attenta analisi, in verità non scevra da spirito critico.
Il progressivo avvicinamento al riconoscimento dell’hedonic damage rischia, forse, di trasformarsi (al di là del sacrosanto suo aspetto consistente nel – reale ed inconfutabile – turbamento psicologico determinato dalla morte di uno stretto congiunto) in una minacciosa spada di Damocle rilucente di pretestuose quanto pretendibili richieste di risarcimento applicate ai più variegati ambiti esistenziali.
Soccorrerebbe in tal senso una ragionevole interpretazione dei principi effettivamente tutelati a livello costituzionale, che sola potrebbe escludere a priori il rischio di incorrere in un aumento esponenziale ed obiettivamente non fronteggiabile delle richieste di risarcimento del danno.
Con la recentissima sentenza n. 13546 del 12/06/2006 la Corte di Cassazione sembra, finalmente, voler porre il definitivo suggello al riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale quale autonoma rappresentazione del danno esistenziale, come tale svincolata da qualsiasi riflesso sia di natura medico-legale, sia di natura patrimoniale, oltre che liberata dal peso di un onere probatorio che rischiava di trasformarsi in una probatio diabolica.
Ed invero la III Sez. Civile del Supremo Collegio, aderendo con convinzione alla posizione recentemente adottata dalle Sezioni Unite, che, nella sentenza n. 6572 del 24/03/2006 hanno configurato il danno esistenziale come pregiudizio “provocato sul fare areddituale del soggetto”, tipizzabile sulla base della sua idoneità ad influire sulla vita di relazione, sulle abitudini, sulle scelte di vita del danneggiato, ha ricondotto anche il danno da morte del congiunto nell’alveo del danno esistenziale, considerato come tertium genus rispetto alle categorie del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. e del danno morale soggettivo ex art. 2059 c.c., e ne ha superato le intrinseche limitazioni attraverso le aperture consentite da una lettura “costituzionalmente orientata”.
Per comprendere meglio l’attuale posizione del Supremo Collegio in ordine alla autonoma riconoscibilità e relativa risarcibilità del danno provocato dalla morte del congiunto appaiono, preliminarmente, opportuni alcuni cenni in merito al percorso giurisprudenziale e dottrinale attraverso il quale si è pervenuti alla configurazione di tale peculiare categoria di danno.
Per lungo tempo, e comunque prima che si addivenisse alla prospettazione del danno esistenziale come categoria autonoma ed idonea a consentire il superamento della summa divisio codicistica tra il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, o danno morale soggettivo di cui all’art. 2059 c.c., il danno da morte del congiunto veniva ricollegato e circoscritto alla categoria del “danno biologico”, con tutte le limitazioni, specie di natura probatoria, da ciò derivanti.
In particolare, il danno biologico da morte del congiunto è stato investito, da giurisprudenza e dottrina, di una duplice valenza: alla concezione di un danno biologico iure hereditario, per sua natura riflesso, in quanto fondato sulla trasmissibilità agli eredi del credito risarcitorio attribuibile alla vittima della lesione mortale, si è ben presto affiancata la concezione di un danno biologico iure proprio, diretto, identificabile con la lesione all’integrità psico-fisica subita personalmente dai congiunti della vittima ed accertata dal punto di vista medico-legale.
Le divergenze giurisprudenziali e dottrinali verificatesi in ordine alla effettiva configurabilità del danno biologico iure hereditario hanno tuttavia evidenziato la inadeguatezza dei meccanismi di tutela previsti dal nostro ordinamento giuridico in favore dei familiari delle vittime della più grave tra le lesioni, la morte.
Ed invero, alla posizione (sostenuta con forza dalle Corti di merito) favorevole alla trasmissibilità del credito risarcitorio sulla base sia dell’argomento a fortiori (secondo cui la perdita della vita, considerata come massima espressione della lesione alla salute, condurrebbe senza dubbio al riconoscimento, in capo agli eredi della vittima, del diritto al risarcimento - cfr., in particolare, Trib. Roma, sent. 24/05/1988, cassata da Cass., 14/03/1996; Trib. di Massa, sent. 29/01/1990), sia della necessaria individuabilità di lesioni integranti un danno biologico precedentemente alla realizzazione dell’evento-morte, come sostenuto da Trib. Di Napoli nella sent. 8/07/1988 e nella sent. 16/01/1995, si è contrapposta una posizione negativa, contraria, cioè, al riconoscimento della risarcibilità del danno biologico in favore degli eredi del defunto in forza non solo della generale intrasmissibilità del diritto alla salute, ma anche del divario tra “diritto alla salute” e “diritto alla vita” (cfr. App. Genova, 4/04/1990).
La tesi restrittiva è apparsa prevalente in giurisprudenza di legittimità: il Supremo Collegio ha, infatti, più volte negato la risarcibilità del danno biologico iure hereditario (cfr. Cass. 24/04/1994 n. 3592; Cass. 29/05/1996 n. 4991; Cass. 30/10/1998 n. 10896), ponendosi, in tal senso, nel solco già tracciato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 372 del 27/10/1994. In tale sentenza, infatti, la Corte Costituzionale, evidenziando la fallacia dell’argomento dell’ a fortiori, e la conseguente inconfigurabilità, in capo al defunto, di una lesione all’integrità psico-fisica tale da giustificare un risarcimento trasmissibile agli eredi, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2043 e 2059 c.c. sollevata dal Tribunale di Firenze.
Citando una, in verità piuttosto risalente nel tempo, sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 3475 del 1925), la Corte ha però riconosciuto il diritto - trasmissibile agli eredi - al risarcimento del danno biologico subito dal de cuius nel lasso di tempo intercorrente tra la produzione delle lesioni alla salute e la successiva morte, diritto che ha, recisamente, aprioristicamente escluso - con ciò conseguentemente escludendo la relativa trasmissibilità agli eredi - nel caso in cui alle lesioni consegua la morte istantanea. In quest’ultimo caso, segnatamente, il diritto al risarcimento verrebbe escluso in ragione della insussistenza di conseguenze pregiudizievoli sulla salute del soggetto leso, consistendo il diritto alla salute ed il diritto alla vita in due fattispecie nettamente distinte.
Con la medesima, citata sentenza, la Corte Costituzionale ha, d’altro canto, riconosciuto la risarcibilità del danno biologico patito iure proprio dai familiari della vittima di un illecito che ne abbia provocato la morte; in questo caso, però, precisando che tale danno, lungi dal poter essere sussunto nel modello risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c. (non essendo realizzabile, per difetto della concreta prevedibilità, una valutazione autonoma della colpa da parte del soggetto agente), dovrebbe essere, piuttosto, ricondotto al danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 c.c.
Da questo punto di vista, determinante è stata l’influenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 372/1994 in materia di riconoscimento della risarcibilità del danno biologico iure proprio subito dai congiunti, semprechè tale danno, lungi dall’esaurirsi in uno stato patologico transeunte, consista in un trauma psichico permanente, comunque accertato attraverso consulenza medico-legale (cfr. Trib. Trento, 19/05/1995; Trib. Napoli, 16/01/1995; Cass. Civ., 13/02/002 n. 2082; 20/02/2000 n. 2134). Più recentemente, ancora una volta è stata la Corte Costituzionale a segnare, con la sentenza n. 233 del 2003, la svolta in materia di riconoscimento e relativa risarcibilità del danno da morte Accogliendo le istanze, ormai sempre più diffuse, rivolte ad una più ampia configurabilità del danno alla persona in generale, la Corte Costituzionale si è spinta, per la prima volta, al punto di svincolare il danno da perdita del congiunto dalla concezione di danno all’integrità psicofisica e dal relativo, rigido onere probatorio, e lo ha, di converso, ricollegato alla figura del danno esistenziale, inteso come lesione ad un interesse costituzionalmente tutelato.
Tale fondamentale svolta ha trovato il suo humus nel recente, progressivo riconoscimento dottrinario del danno esistenziale (o, come alcuni autori preferiscono, “danno personale”) quale categoria autonoma, rapportabile alla sfera umana relazionale, dinamica, in linea con lo spirito dei tempi; in questo senso, particolare importanza hanno rivestito i suggerimenti, provenienti da oltreoceano, materializzabili nel “diritto a raggiungere la felicità”, diritto di rilevanza costituzionale, ed il c.d. hedonic damage.
E finalmente anche la Suprema Corte, con la sentenza in commento, attribuendo al concetto di salute un’estensione ampia, elastica, consistente non solo in una mera assenza di malattia, ma, in senso dinamico, in uno stato di benessere fisico, mentale e sociale (secondo la nozione elaborata dall’OMS e condivisa anche dal Codice di deontologia medica italiana), ha operato una rilettura del danno esistenziale; danno che, in tal modo ben delineato, viene identificato con una modificazione in senso peggiorativo della qualità della vita dell’individuo, ben al di là del tradizionale bipolarismo fondato sulla diade “danno patrimoniale” – “danno morale soggettivo dipendente da reato”.
Non solo. Altra decisa - e decisiva - presa di posizione del Supremo Collegio effettuata con la sentenza n. 13546 del 2006 concerne l’interpretazione dell’onere probatorio incombente sui potenziali titolari del diritto al risarcimento del danno da morte del congiunto; presa di posizione che assume un valore ancor più significativo, ove ci si soffermi a considerare i notevoli ostacoli all’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno biologico sofferto iure proprio per la morte di un congiunto, ove non risulti soddisfatto il rigido onere probatorio consistente nell’allegazione di consulenza medico-legale che attesti l’effettiva sussistenza di una patologia psico-fisica di tipo permanente, eziologicamente connessa alla perdita subìta.
Le recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, da ultimo realizzate con la sentenza del 12 giugno 2006, pongono invece, come fatto-base di rilevanza tale da far discendere da sé, come necessaria conseguenza, presuntivamente provata, il diritto al risarcimento del danno esistenziale in capo ai congiunti della vittima, lo stesso rapporto di parentela, specificamente ove questo sia associato alla convivenza.
Dirompente appare la rilevanza di questo assunto, argomentato con forza dalla Suprema Corte: è così che la presenza di una presunzione - lapalissianamente fondata sull’esistenza stessa del rapporto di parentela, e che tuttavia assurge al rango di piena prova - audacemente sovverte l’ordine prestabilito e determina il capovolgimento dell’onere della prova: è quindi il danneggiante a dover “vincere la presunzione di sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative”, allegando elementi idonei a confutare la “serenità” e l’ “armonia” del rapporto familiare del danneggiato (ma, viene spontaneo domandarsi, come può non scorgere in questo tipo di onere probatorio la tanto osteggiata probatio diabolica?).
Irrinunciabili appaiono, a questo punto, taluni rilievi in ordine al sistema risarcitorio conseguente da quanto sopra rappresentato. Con riferimento al sistema assicurativo, ad esempio, si ricorda la sentenza n. 2637 del 9 febbraio 2005, con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che, quando gli stretti congiunti agiscono jure proprio per il risarcimento del danno derivante dalla morte di un parente, il limite risarcitorio consistente nel massimale previsto dalla polizza assicurativo non coincide, cumulativamente per tutti, con quello previsto per una sola persona danneggiata, ma consiste, distintamente per ognuno, in quello previsto per ciascun danneggiato. Orbene, è evidente che l’intervenuta sussunzione del danno da morte del congiunto nella categoria del danno esistenziale, unitamente alle inevitabili “maglie larghe” tessute da un sistema probatorio incentrato sulle presunzioni comporterà necessari riflessi sul sistema assicurativo, notoriamente basato sul sistema della previsione e della redistribuzione dei rischi, con conseguenti difficoltà di gestione legate ai repentini mutamenti dell’orizzonte giurisprudenziale.
In conclusione, la - ormai, pressoché pacifica - apertura giurisprudenziale, suggellata dalla sentenza n. 13546 del 2006, ad una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c., unitamente alla inedita attribuzione di giuridica meritevolezza ad interessi ed aspetti – quali la serenità del nucleo familiare e l’equilibrio mentale dei suoi componenti, da essa derivante, a prescindere da qualsiasi rilievo di tipo nosologico da un lato, patrimoniale dall’altro – prima d’ora confinati ad ambiti nei quali il diritto riteneva di non potere (né lo auspicava) introdursi, non potrà prescindere da un’attenta analisi, in verità non scevra da spirito critico.
Il progressivo avvicinamento al riconoscimento dell’hedonic damage rischia, forse, di trasformarsi (al di là del sacrosanto suo aspetto consistente nel – reale ed inconfutabile – turbamento psicologico determinato dalla morte di uno stretto congiunto) in una minacciosa spada di Damocle rilucente di pretestuose quanto pretendibili richieste di risarcimento applicate ai più variegati ambiti esistenziali.
Soccorrerebbe in tal senso una ragionevole interpretazione dei principi effettivamente tutelati a livello costituzionale, che sola potrebbe escludere a priori il rischio di incorrere in un aumento esponenziale ed obiettivamente non fronteggiabile delle richieste di risarcimento del danno.