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"Right to be let alone": note a margine

Quando, esercitando i nostri diritti, non compromettiamo o non lediamo quelli di nessun’altro, abbiamo il diritto a non essere giudicati. Qualcosa di più di uno ius excludendi alios, forse un’appendice al famoso articolo di Samuel Warren e Luis Brandeis sul “Right to be let alone” (da cui si fa discendere il diritto alla privacy). Il diritto, quindi, a non subire alcuna interferenza nella propria vita privata, domestica -retaggio di una concezione legata alla proprietà della terra- non soltanto in quanto diritto all’autodeterminazione informativa, ma in quanto vera e propria precondizione per potersi liberamente manifestare agli altri, senza timore di incorrere in nuove stigmatizzazioni sociali, come nel caso dei malati o dei protestati, dei militanti politici o sindacali o dei credenti di religione minori, di chi, pagato un qualche debito con la società e vuole continuare ad esserne parte attiva.

Esiste un tempo ben definito nella vita dell’uomo, dove la felicita’ diventa un patrimonio di vera cultura interiore, condotta e voluta con fermezza, trascurando tutti i surrogati. In Europa è la rivoluzione francese a proporre una codificazione del diritto alla felicità, con due divergenti formulazioni: la dichiarazione dei diritti del 1789 richiama nel preambolo il fine della «felicità di tutti», affidato alla libera iniziativa dei singoli, mentre la costituzione giacobina del giugno 1793 propone nel primo articolo, la formulazione di matrice rousseauiana della «felicità comune» come «fine della società».

Saint-Just, nel marzo del 1794, dichiarò che «la felicità è un’idea nuova in Europa», ed il concetto, nel suo significato politico, era ormai legato strettamente al dirigismo del gruppo di potere giacobino. Per raggiungere la «felicità comune», si riteneva fosse necessaria innanzitutto la virtù: l’autorità politica doveva diventare dunque fonte di una rivoluzione morale. Il popolo andava educato ai valori dell’appartenenza civile, con feste e riti collettivi in quanto solo da lì poteva scaturire la vera “felicità pubblica”. In questi termini, valorizzato dall’azione dei giacobini, il concetto politico e giuridico di felicità si tramuta in una nuova e moderna forma di dispotismo, una tirannia del bene pubblico su quello privato.

Questo diritto, pertqnto, esiste così come tale e diviene parte acquiescente dell’uomo solo dopo aver esaminato attentamente tutti i percorsi che lo hanno determinato e, soprattutto, tutte le sofferenze che lo hanno preceduto. Benjamin Franklin (ispirato dall’opera di Gaetano Filangieri “La scienza della legislazione”) l’aveva incastonato, come un gioiello, nell’Unanime Dichiarazione dei Tredici Stati Uniti d’America ove si legge che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce, così, che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza.

Il momento del vero cambiamento individuale avviene quando l’esercizio della quotidianità comincia ad appesantirsi sul diritto alla vita, quando l’acquiescenza al solito diventa banalità.

Tramontata la rivoluzione francese, contro la posizione giacobina in Francia si schierò Benjamin Constant il quale (nell’opera Discorso sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi del 1818) affermò che il valore fondamentale della modernità che va difeso e tutelato dalle ingerenze del potere politico è la “libertà individuale”, che – a parer suo- si esprimeva innanzitutto nel desiderio di migliorare la propria condizione e di godere in piena sicurezza dei propri beni.

Un’analisi più approfondita la fece Kant (che nello scritto “Sul detto comune”, 1793 fa una delle critiche filosofiche più rilevanti al modello giacobino di felicità), arrivando ad asserire che una politica ispirata dal principio della felicità non può che produrre dispotismo, in quanto prelude al totale controllo “paternalistico” del governo sulle scelte degli individui. La ripetizione, di cose sempre fatte, fa’ si che ci si interroghi quando, nell’anteporre l’ineguaglianza tra il giusto ed il dovere, una parte si ribella e comincia a guardarsi indietro.

Troppo spesso si riscontra una sorta di “accanimento terapeutico” ed il diritto alla felicità viene confuso con l’obbligo ad essere felici. Ebbene, non è così.

Parafrasando Kant, si potrebbe dire che non solo “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo”, ma altresì che “nessuno mi può costringere ad essere felice”. C’è un sacrosanto diritto a non essere felici, a coltivare dentro di sé quello stato di desolazione –tipicamente propria degli animi sensibili e delle menti delicate- sovente così catartica e certo meno dannosa della felicità socialmente imposta per essere à la page.

"Il diritto all’infelicità" (il cui contenuto, peraltro è implicito nei diritti "negativi" di libertà individuale) è il diritto rivendicato da chi non vuole essere costretto alla felicità ma anche a da chi rifiuta le cure e non vuole essere costretto alla salute (che della felicità è ritenuta un aspetto fondamentale); il diritto di chi ritiene che i diritti civili debbano avere una posizione prioritaria rispetto ai "collective goals"; il diritto di chi, per dirlo con Zanetti, portatore di valori e culture diverse, rifiuta l’assimilazione.

Quando, esercitando i nostri diritti, non compromettiamo o non lediamo quelli di nessun’altro, abbiamo il diritto a non essere giudicati. Qualcosa di più di uno ius excludendi alios, forse un’appendice al famoso articolo di Samuel Warren e Luis Brandeis sul “Right to be let alone” (da cui si fa discendere il diritto alla privacy). Il diritto, quindi, a non subire alcuna interferenza nella propria vita privata, domestica -retaggio di una concezione legata alla proprietà della terra- non soltanto in quanto diritto all’autodeterminazione informativa, ma in quanto vera e propria precondizione per potersi liberamente manifestare agli altri, senza timore di incorrere in nuove stigmatizzazioni sociali, come nel caso dei malati o dei protestati, dei militanti politici o sindacali o dei credenti di religione minori, di chi, pagato un qualche debito con la società e vuole continuare ad esserne parte attiva.

Esiste un tempo ben definito nella vita dell’uomo, dove la felicita’ diventa un patrimonio di vera cultura interiore, condotta e voluta con fermezza, trascurando tutti i surrogati. In Europa è la rivoluzione francese a proporre una codificazione del diritto alla felicità, con due divergenti formulazioni: la dichiarazione dei diritti del 1789 richiama nel preambolo il fine della «felicità di tutti», affidato alla libera iniziativa dei singoli, mentre la costituzione giacobina del giugno 1793 propone nel primo articolo, la formulazione di matrice rousseauiana della «felicità comune» come «fine della società».

Saint-Just, nel marzo del 1794, dichiarò che «la felicità è un’idea nuova in Europa», ed il concetto, nel suo significato politico, era ormai legato strettamente al dirigismo del gruppo di potere giacobino. Per raggiungere la «felicità comune», si riteneva fosse necessaria innanzitutto la virtù: l’autorità politica doveva diventare dunque fonte di una rivoluzione morale. Il popolo andava educato ai valori dell’appartenenza civile, con feste e riti collettivi in quanto solo da lì poteva scaturire la vera “felicità pubblica”. In questi termini, valorizzato dall’azione dei giacobini, il concetto politico e giuridico di felicità si tramuta in una nuova e moderna forma di dispotismo, una tirannia del bene pubblico su quello privato.

Questo diritto, pertqnto, esiste così come tale e diviene parte acquiescente dell’uomo solo dopo aver esaminato attentamente tutti i percorsi che lo hanno determinato e, soprattutto, tutte le sofferenze che lo hanno preceduto. Benjamin Franklin (ispirato dall’opera di Gaetano Filangieri “La scienza della legislazione”) l’aveva incastonato, come un gioiello, nell’Unanime Dichiarazione dei Tredici Stati Uniti d’America ove si legge che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce, così, che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza.

Il momento del vero cambiamento individuale avviene quando l’esercizio della quotidianità comincia ad appesantirsi sul diritto alla vita, quando l’acquiescenza al solito diventa banalità.

Tramontata la rivoluzione francese, contro la posizione giacobina in Francia si schierò Benjamin Constant il quale (nell’opera Discorso sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi del 1818) affermò che il valore fondamentale della modernità che va difeso e tutelato dalle ingerenze del potere politico è la “libertà individuale”, che – a parer suo- si esprimeva innanzitutto nel desiderio di migliorare la propria condizione e di godere in piena sicurezza dei propri beni.

Un’analisi più approfondita la fece Kant (che nello scritto “Sul detto comune”, 1793 fa una delle critiche filosofiche più rilevanti al modello giacobino di felicità), arrivando ad asserire che una politica ispirata dal principio della felicità non può che produrre dispotismo, in quanto prelude al totale controllo “paternalistico” del governo sulle scelte degli individui. La ripetizione, di cose sempre fatte, fa’ si che ci si interroghi quando, nell’anteporre l’ineguaglianza tra il giusto ed il dovere, una parte si ribella e comincia a guardarsi indietro.

Troppo spesso si riscontra una sorta di “accanimento terapeutico” ed il diritto alla felicità viene confuso con l’obbligo ad essere felici. Ebbene, non è così.

Parafrasando Kant, si potrebbe dire che non solo “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo”, ma altresì che “nessuno mi può costringere ad essere felice”. C’è un sacrosanto diritto a non essere felici, a coltivare dentro di sé quello stato di desolazione –tipicamente propria degli animi sensibili e delle menti delicate- sovente così catartica e certo meno dannosa della felicità socialmente imposta per essere à la page.

"Il diritto all’infelicità" (il cui contenuto, peraltro è implicito nei diritti "negativi" di libertà individuale) è il diritto rivendicato da chi non vuole essere costretto alla felicità ma anche a da chi rifiuta le cure e non vuole essere costretto alla salute (che della felicità è ritenuta un aspetto fondamentale); il diritto di chi ritiene che i diritti civili debbano avere una posizione prioritaria rispetto ai "collective goals"; il diritto di chi, per dirlo con Zanetti, portatore di valori e culture diverse, rifiuta l’assimilazione.