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Lo stemma araldico come marchio d’impresa

L’argomento della tutela dello stemma riveste notevole importanza se si considerano i casi di usurpazione di stemmi familiari al fine di utilizzarli quali marchi di impresa.

Prima dell’entrata in vigore della vigente Costituzione repubblicana, la materia era regolata, da ultimo, dal combinato disposto degli artt. 30 e 31 del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, (la legge marchi) e 6 del Regolamento per la Consulta Araldica, approvato con R.D. 7 giugno 1943, n.652. In base a tali disposizioni,[1] in presenza di una domanda di registrazione di uno stemma come marchio (art. 30, R.D. 929 del 1943), l’Ufficio Brevetti doveva chiedere alla Consulta Araldica un parere circa la legittima appartenenza dello stemma alla famiglia del richiedente. Se lo stemma non apparteneva al richiedente (art. 6, R.D. 652 del 1943), la Consulta Araldica non poteva che esprimere parere negativo alla brevettazione e conseguentemente la domanda doveva essere rigettata, considerato che il parere della Consulta, oltre che obbligatorio, era vincolante per l’Ufficio Brevetti (art. 31, R.D. 929 del 1943). Tuttavia, se lo stemma richiesto non apparteneva ufficialmente ad altra famiglia, il richiedente aveva comunque la possibilità di domandare la concessione o il riconoscimento in suo favore dello stemma, secondo le norme contenute nei R.R. D.D. 651 (Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano) e 652 del 1943 (Regolamento della Consulta Araldica); soltanto in seguito alla concessione od al riconoscimento, la Consulta Araldica poteva esprimere parere positivo alla richiesta registrazione.

Con riferimento all’assetto normativo attuale, il codice della proprietà industriale, contenuto nel D.Ls. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha sostituito la legge marchi, contiene (in ordine al punto in esame) norme sostanzialmente identiche a quelle contenute nella abrogata legge marchi.

Il secondo comma dell’art. 10 praticamente riproduce il contenuto dell’art. 30 dell’abrogata legge marchi: “trattandosi di marchio contenente parole, figure o segni con significazione politica, o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici, l’Ufficio italiano brevetti e marchi, prima della registrazione, invia l’esemplare del marchio e quant’altro possa occorrere, alle amministrazioni pubbliche interessate, o competenti, per sentirne l’avviso in conformità a quanto è disposto nel comma quarto”.

Il comma quarto del medesimo articolo 10 riproduce il contenuto dell’art. 31 dell’abrogata legge marchi: “se l’amministrazione interessata, o competente di cui ai commi 2 e 3, esprime avviso contrario alla registrazione del marchio, l’Ufficio italiano brevetti e marchi respinge la domanda”.

Anche la nuova normativa, in relazione alla registrazione di marchi contenenti elementi araldici, fa riferimento al parere obbligatorio e vincolante delle “amministrazioni pubbliche interessate, o competenti”.

Questa genericità della norma che non precisa quali siano le amministrazioni interessate o competenti alle quali deve essere chiesto il parere (genericità già criticata[2] sotto la previgente legge marchi che appunto conteneva una norma identica all’attuale), comporta un inevitabile empirismo per poter individuare, di volta in volta, quale sia l’amministrazione interessata o competente nella materia oggetto del marchio.

In particolare, la nuova normativa nulla dice in merito alla sopravvivenza della competenza in materia di stemmi araldici della Consulta Araldica.

Sul punto è da dire che se la Consulta Araldica è di fatto inoperante (sebbene non formalmente abolita), una carenza di funzioni in materia non è riscontrabile nell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Dunque, qualora si tratti di brevettare uno marchio contenente uno stemma, l’obbligo per l’Ufficio Brevetti di richiedere il parere dell’Ufficio Araldico e l’obbligo per quest’ultimo di darlo, sarebbero da ritenere tutt’oggi esistenti.[3]

Tuttavia, con l’entrata in vigore dell’art. XIV disp. trans. della Costituzione deve ritenersi tacitamente abrogato il disposto del secondo comma dell’art. 6 R.D. 652/1943. Questo perché la norma costituzionale che ha introdotto nel nostro ordinamento il disconoscimento dei titoli nobiliari sarebbe da riferirsi anche agli “attributi nobiliari” come lo stemma.[4] Pertanto, risulta caduto il divieto di "usare marchi di fabbrica riproducenti stemmi, qualora questi non siano in legittimo possesso dell’intestatario del marchio di fabbrica stesso”; in altre parole, non è più necessario che lo stemma appartenga legittimamente al richiedente in base ad un provvedimento di concessione o riconoscimento dello stemma rilasciato in epoca monarchica.

Da ciò deriva innanzitutto che è possibile registrare come marchio uno stemma di fantasia, cioè uno stemma non concesso o riconosciuto alla famiglia del richiedente o ad altra famiglia. Quindi l’Ufficio Araldico, richiesto del parere (tuttora obbligatorio) dall’Ufficio Brevetti, nonostante lo stemma non appartenga al richiedente, deve dare parere positivo alla registrazione.

Ma se come detto, non è necessario che lo stemma appartenga al richiedente, cosa accade nell’ipotesi di richiesta di registrazione come marchio di uno stemma appartenente ad altri ?

A questa domanda, a mio avviso, si può dare la seguente risposta: in presenza di una domanda di registrazione di uno stemma araldico, l’Ufficio Brevetti deve chiedere il parere all’Ufficio Araldico; quest’ultimo, qualora accerti che lo stemma appartiene ad una famiglia diversa da quella del richiedente, non potrà esprimere parere negativo alla registrazione data l’abrogazione del suddetto articolo 6 R.D. 652/1943, ma dovrà semplicemente appalesare appunto l’appartenenza dello stemma ad altra famiglia. E, sulla base di quanto evidenziato dall’Ufficio Araldico, dato che lo stemma è ancora oggi elemento distintivo personale e familiare, troverà applicazione analogica il disposto di cui al secondo comma dell’art. 8 D.Ls. 30 del 2005, che regola l’ipotesi di uso del nome altrui come marchio: “i nomi di persona, diversi da quello di chi chiede la registrazione, possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L’Ufficio italiano brevetti e marchi ha tuttavia facoltà di subordinare la registrazione al consenso stabilito al comma 1” (consenso del titolare e, dopo la sua morte, del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti; e, in mancanza, o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso). Conseguentemente, l’Ufficio Brevetti dovrà esercitare la sua facoltà di condizionare la concessione della registrazione al consenso degli aventi diritto allo stemma richiesto.[5]

Occorre aggiungere che detto consenso non è una semplice facoltà ma un obbligo nel caso di stemma notorio, in analogia con quanto dispone il terzo comma del medesimo articolo 8, il quale prevede che i nomi di persona: “se notori, possono essere registrati come marchio solo dall’avente diritto, o con il consenso di questi, o dei soggetti di cui al comma 1” (e cioè ancora, del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti; e, in mancanza, o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso). Si pensi allo stemma della famiglia Savoia o di altra famiglia regnante o ex regnante o comunque appunto assai noto.

Quanto detto deve ritenersi valido anche con riferimento all’ipotesi di stemma appartenente a famiglia estinta; nel qual caso, in virtù sempre del primo comma dell’art. 8 D.Ls. 30 del 2005, legittimati al consenso saranno gli eredi dell’ultimo rappresentante della famiglia fino al quarto grado incluso.

Tuttavia l’Ufficio Araldico potrebbe non accorgersi che lo stemma richiesto appartiene a famiglia diversa da quella del richiedente, dato che l’Ufficio non possiede (perchè non esiste) un registro degli stemmi. Inoltre, la richiesta del consenso degli aventi diritto all’altrui registrazione, per l’ipotesi di stemma non notorio, è non un obbligo ma solo una facoltà dell’Ufficio Brevetti. Potrebbe pertanto accadere che taluno riesca a brevettare lo stemma altrui come marchio anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto.

Si pone quindi il quesito di come possa giudizialmente reagire il legittimo titolare di fronte a tale forma di usurpazione del proprio stemma.

La questione deve essere risolta dalla combinazione delle disposizioni contenute nel citato art. 8 D.Ls. 30 del 2005[6] e nell’art. 7 c.c.,[7] conformemente all’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in tema di nome altrui usato come marchio.[8]

In giurisprudenza, dopo una prima affermazione di una concezione estensiva del contenuto del diritto al nome per la quale l’uso indebito e pregiudizievole ai sensi dell’art. 7 c.c. può ricorrere anche quando il nome venga utilizzato per designare un prodotto industriale ed anche a prescindere dal pericolo di confusione con la persona,[9] in tempi più recenti si è formato l’indirizzo per il quale l’art. 7 c.c. e l’art. 21 legge marchi (ora art. 8 D.Ls. 30 del 2005) hanno diverso contenuto precettivo e diverso ambito di applicazione: se “l’art. 7 c.c. nel momento in cui riconosce al titolare il diritto di impedire l’uso indebito del proprio nome per il solo fatto che da tale uso possa derivargli un pregiudizio di qualsiasi genere anche meramente eventuale, enuncia la regola che è vietato l’uso del nome altrui, l’art. 21 legge marchi pone l’opposta regola secondo la quale l’imprenditore può scegliere liberamente un nome di persona diverso dal proprio come marchio del suo prodotto e prevede che come rigorosa eccezione a questa regola il solo caso in cui l’uso di detto marchio sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro della persona che ha diritto a portare tale nome”.[10] Indirizzo confermato dalla Corte di Cassazione[11] secondo la quale: “al fine di verificare se l’uso di un nome altrui, in occasione dell’adozione di un marchio, possa ritenersi o meno indebito, deve farsi riferimento esclusivamente alla disciplina specifica dettata dalla legge sui marchi e non a quella desumibile dalla disciplina codicistica del diritto al nome “.

Pertanto, per la giurisprudenza l’art. 21 legge marchi (ora art. 8 D.Ls. 30 del 2005), in quanto norma particolare rispetto a quella generale di cui all’art. 7 c.c., deve trovare applicazione in modo esclusivo al caso di nome (o stemma) altrui come marchio. In applicazione di tale norma, nel caso in cui il terzo registri come marchio il nome (o lo stemma) altrui, il terzo ne potrà continuare l’uso industriale purchè tale uso non leda la fama, il decoro o il credito del titolare del nome stesso (o dello stemma). Ne consegue che il titolare del nome (o dello stemma) potrà chiedere e ottenere la cessazione dell’uso del suo nome (o stemma) come marchio da parte di colui che ha ottenuto la registrazione, solo provando di aver avuto un effettivo pregiudizio alla fama, decoro o credito.

Contro tale impostazione che muove da un preteso diverso contenuto delle due norme, è stato osservato[12] che se l’utilizzazione del nome (o dello stemma) altrui come marchio non costituisce di per sé violazione del diritto al nome ed all’identità, se non quando tale uso sia idoneo ad arrecare pregiudizio al titolare del nome (o dello stemma), ledendo la fama, il credito o il decoro del titolare, una lesione del diritto al nome si potrà verificare in presenza di circostanze particolari allorchè il nome (o lo stemma) usato in relazione a prodotti di un determinato tipo possa assumere agli occhi del pubblico il significato di un collegamento del prodotto con il titolare del nome (o dello stemma), nel senso di far ritenere che titolare ne sia l’imprenditore o l’ideatore. In presenza di tali circostanze, attinenti alla personalità del titolare, alla sua notorietà ed alle caratteristiche del prodotto, l’adozione del nome (o dello stemma) come marchio, costituisce violazione del diritto al nome. Pertanto, anche l’uso del marchio conforme alla funzione distintiva può violare il diritto al nome, sia che esso dia luogo al pericolo di un collegamento del prodotto con il titolare, sia che l’accostamento del nome (o dello stemma) al prodotto di un determinato genere sia di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio alla fama, al credito o al decoro della titolare (per questa ultima ipotesi, si pensi al nome di un soggetto conosciuto per la sua attività di protezione della natura che venga adoperato come marchio di armi da caccia). In presenza di tali condizioni, il titolare del diritto allo stemma potrà chiedere la nullità del marchio anche se esso venga usato nei limiti della funzione distintiva.

In base a tali considerazioni, dunque -- qualora l’Ufficio Brevetti non abbia esercitato la facoltà di subordinare la registrazione del marchio al consenso degli aventi diritto allo stemma -- la nullità (ex art. 25, lett. c, D.Ls. 30 del 2005, che prevede l’ipotesi di nullità del marchio per contrasto con il disposto dell’art. 8) del marchio potrà essere fatta valere sia nell’ipotesi in cui l’uso del marchio da parte del terzo che ha ottenuto la registrazione sia tale da ledere la fama, il credito od il decoro del titolare, sia nell’ipotesi in cui tale lesione risulti già di per sé dal collegamento dello stemma con il genere di prodotti per cui la registrazione è stata ottenuta (indipendentemente dall’uso ed anche prima di esso). Inoltre, il marchio sarà nullo nell’ipotesi di stemma notorio registrato senza che sia stato richiesto dall’Ufficio Brevetti il consenso obbligatorio degli aventi diritto.

L’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un marchio “perchè il marchio costituisce violazione del diritto al nome”, in base all’art. 122 D.Ls. 30 del 2005, potrà essere esercitata soltanto dal titolare del nome (o dello stemma), dagli aventi diritto e dalle persone designate al consenso dall’art. 8 D.Ls. 30 del 2005.



[1] Art. 30, comma primo, R.D. 929/42: “trattandosi di marchio contenente parole, figure o segni con significazione politica, o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici, l’Ufficio, prima di concedere il brevetto, invierà l’esemplare del marchio e quant’altro potrà occorrere, alle Amministrazioni pubbliche interessate, o competenti, per sentirne l’avviso in conformità di quanto è disposto nell’articolo seguente”. Art. 31, R.D. 929/42: “se l’Amministrazione interessata, o competente di cui al precedente articolo, esprime avviso contrario alla concessione del brevetto, l’Ufficio respinge la domanda”. Art. 6, comma secondo, R.D. 652/43: "è vietato usare marchi di fabbrica riproducenti stemmi, qualora questi non siano in legittimo possesso dell’intestatario del marchio di fabbrica stesso.”

[2] Si veda: RELLINI ROSSI, Lo stemma come marchio di impresa, in Riv. di Dir. Industr., 1955, II, p. 71.

[3] In tal senso: ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 488; CANSACCHI, Lo stemma araldico come marchio di fabbrica, in Riv.Ar. 1962, p. 90; MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Giuffrè, Milano, 1961, p. 78.

[4] In tal senso: CANSACCHI, Lo stemma... cit., p. 92; PIZZORUSSO, voce Stemma, in Enc. Dir., Milano, 1981, p. 1083.

[5] In tal senso: CANSACCHI, Lo stemma .. cit., p. 95.

[6] Già art. 21 legge marchi.

[7] Art. 7 c.c.: “la persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali”.

[8] Per un quadro completo della dottrina e della giurisprudenza sviluppatasi nel corso del 1900 si veda la approfondita nota redazionale 565/1-4, in Giur. ann. di Dir. Industr., 1974, p. 766.

[9] Cass. Civ., 1 febbraio 1962, n. 201, in Riv. di Dir. Industr., 1969, II, p. 215.

[10] Tribunale di Milano, 30 maggio 1974, in Giur. ann. di Dir. Industr., 1974, p. 766, e in Riv. di Dir. Industr., 1983, II, p. 223.

[11] Cass. Civ., sez. I, 13 marzo 1998, n. 2735, in Riv. di Dir. Industr., 1999, II, p. 477, con nota di SPIAZZI.

[12] Si veda la citata nota redazionale 565/1-4.

L’argomento della tutela dello stemma riveste notevole importanza se si considerano i casi di usurpazione di stemmi familiari al fine di utilizzarli quali marchi di impresa.

Prima dell’entrata in vigore della vigente Costituzione repubblicana, la materia era regolata, da ultimo, dal combinato disposto degli artt. 30 e 31 del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, (la legge marchi) e 6 del Regolamento per la Consulta Araldica, approvato con R.D. 7 giugno 1943, n.652. In base a tali disposizioni,[1] in presenza di una domanda di registrazione di uno stemma come marchio (art. 30, R.D. 929 del 1943), l’Ufficio Brevetti doveva chiedere alla Consulta Araldica un parere circa la legittima appartenenza dello stemma alla famiglia del richiedente. Se lo stemma non apparteneva al richiedente (art. 6, R.D. 652 del 1943), la Consulta Araldica non poteva che esprimere parere negativo alla brevettazione e conseguentemente la domanda doveva essere rigettata, considerato che il parere della Consulta, oltre che obbligatorio, era vincolante per l’Ufficio Brevetti (art. 31, R.D. 929 del 1943). Tuttavia, se lo stemma richiesto non apparteneva ufficialmente ad altra famiglia, il richiedente aveva comunque la possibilità di domandare la concessione o il riconoscimento in suo favore dello stemma, secondo le norme contenute nei R.R. D.D. 651 (Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano) e 652 del 1943 (Regolamento della Consulta Araldica); soltanto in seguito alla concessione od al riconoscimento, la Consulta Araldica poteva esprimere parere positivo alla richiesta registrazione.

Con riferimento all’assetto normativo attuale, il codice della proprietà industriale, contenuto nel D.Ls. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha sostituito la legge marchi, contiene (in ordine al punto in esame) norme sostanzialmente identiche a quelle contenute nella abrogata legge marchi.

Il secondo comma dell’art. 10 praticamente riproduce il contenuto dell’art. 30 dell’abrogata legge marchi: “trattandosi di marchio contenente parole, figure o segni con significazione politica, o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici, l’Ufficio italiano brevetti e marchi, prima della registrazione, invia l’esemplare del marchio e quant’altro possa occorrere, alle amministrazioni pubbliche interessate, o competenti, per sentirne l’avviso in conformità a quanto è disposto nel comma quarto”.

Il comma quarto del medesimo articolo 10 riproduce il contenuto dell’art. 31 dell’abrogata legge marchi: “se l’amministrazione interessata, o competente di cui ai commi 2 e 3, esprime avviso contrario alla registrazione del marchio, l’Ufficio italiano brevetti e marchi respinge la domanda”.

Anche la nuova normativa, in relazione alla registrazione di marchi contenenti elementi araldici, fa riferimento al parere obbligatorio e vincolante delle “amministrazioni pubbliche interessate, o competenti”.

Questa genericità della norma che non precisa quali siano le amministrazioni interessate o competenti alle quali deve essere chiesto il parere (genericità già criticata[2] sotto la previgente legge marchi che appunto conteneva una norma identica all’attuale), comporta un inevitabile empirismo per poter individuare, di volta in volta, quale sia l’amministrazione interessata o competente nella materia oggetto del marchio.

In particolare, la nuova normativa nulla dice in merito alla sopravvivenza della competenza in materia di stemmi araldici della Consulta Araldica.

Sul punto è da dire che se la Consulta Araldica è di fatto inoperante (sebbene non formalmente abolita), una carenza di funzioni in materia non è riscontrabile nell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Dunque, qualora si tratti di brevettare uno marchio contenente uno stemma, l’obbligo per l’Ufficio Brevetti di richiedere il parere dell’Ufficio Araldico e l’obbligo per quest’ultimo di darlo, sarebbero da ritenere tutt’oggi esistenti.[3]

Tuttavia, con l’entrata in vigore dell’art. XIV disp. trans. della Costituzione deve ritenersi tacitamente abrogato il disposto del secondo comma dell’art. 6 R.D. 652/1943. Questo perché la norma costituzionale che ha introdotto nel nostro ordinamento il disconoscimento dei titoli nobiliari sarebbe da riferirsi anche agli “attributi nobiliari” come lo stemma.[4] Pertanto, risulta caduto il divieto di "usare marchi di fabbrica riproducenti stemmi, qualora questi non siano in legittimo possesso dell’intestatario del marchio di fabbrica stesso”; in altre parole, non è più necessario che lo stemma appartenga legittimamente al richiedente in base ad un provvedimento di concessione o riconoscimento dello stemma rilasciato in epoca monarchica.

Da ciò deriva innanzitutto che è possibile registrare come marchio uno stemma di fantasia, cioè uno stemma non concesso o riconosciuto alla famiglia del richiedente o ad altra famiglia. Quindi l’Ufficio Araldico, richiesto del parere (tuttora obbligatorio) dall’Ufficio Brevetti, nonostante lo stemma non appartenga al richiedente, deve dare parere positivo alla registrazione.

Ma se come detto, non è necessario che lo stemma appartenga al richiedente, cosa accade nell’ipotesi di richiesta di registrazione come marchio di uno stemma appartenente ad altri ?

A questa domanda, a mio avviso, si può dare la seguente risposta: in presenza di una domanda di registrazione di uno stemma araldico, l’Ufficio Brevetti deve chiedere il parere all’Ufficio Araldico; quest’ultimo, qualora accerti che lo stemma appartiene ad una famiglia diversa da quella del richiedente, non potrà esprimere parere negativo alla registrazione data l’abrogazione del suddetto articolo 6 R.D. 652/1943, ma dovrà semplicemente appalesare appunto l’appartenenza dello stemma ad altra famiglia. E, sulla base di quanto evidenziato dall’Ufficio Araldico, dato che lo stemma è ancora oggi elemento distintivo personale e familiare, troverà applicazione analogica il disposto di cui al secondo comma dell’art. 8 D.Ls. 30 del 2005, che regola l’ipotesi di uso del nome altrui come marchio: “i nomi di persona, diversi da quello di chi chiede la registrazione, possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L’Ufficio italiano brevetti e marchi ha tuttavia facoltà di subordinare la registrazione al consenso stabilito al comma 1” (consenso del titolare e, dopo la sua morte, del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti; e, in mancanza, o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso). Conseguentemente, l’Ufficio Brevetti dovrà esercitare la sua facoltà di condizionare la concessione della registrazione al consenso degli aventi diritto allo stemma richiesto.[5]

Occorre aggiungere che detto consenso non è una semplice facoltà ma un obbligo nel caso di stemma notorio, in analogia con quanto dispone il terzo comma del medesimo articolo 8, il quale prevede che i nomi di persona: “se notori, possono essere registrati come marchio solo dall’avente diritto, o con il consenso di questi, o dei soggetti di cui al comma 1” (e cioè ancora, del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti; e, in mancanza, o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso). Si pensi allo stemma della famiglia Savoia o di altra famiglia regnante o ex regnante o comunque appunto assai noto.

Quanto detto deve ritenersi valido anche con riferimento all’ipotesi di stemma appartenente a famiglia estinta; nel qual caso, in virtù sempre del primo comma dell’art. 8 D.Ls. 30 del 2005, legittimati al consenso saranno gli eredi dell’ultimo rappresentante della famiglia fino al quarto grado incluso.

Tuttavia l’Ufficio Araldico potrebbe non accorgersi che lo stemma richiesto appartiene a famiglia diversa da quella del richiedente, dato che l’Ufficio non possiede (perchè non esiste) un registro degli stemmi. Inoltre, la richiesta del consenso degli aventi diritto all’altrui registrazione, per l’ipotesi di stemma non notorio, è non un obbligo ma solo una facoltà dell’Ufficio Brevetti. Potrebbe pertanto accadere che taluno riesca a brevettare lo stemma altrui come marchio anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto.

Si pone quindi il quesito di come possa giudizialmente reagire il legittimo titolare di fronte a tale forma di usurpazione del proprio stemma.

La questione deve essere risolta dalla combinazione delle disposizioni contenute nel citato art. 8 D.Ls. 30 del 2005[6] e nell’art. 7 c.c.,[7] conformemente all’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in tema di nome altrui usato come marchio.[8]

In giurisprudenza, dopo una prima affermazione di una concezione estensiva del contenuto del diritto al nome per la quale l’uso indebito e pregiudizievole ai sensi dell’art. 7 c.c. può ricorrere anche quando il nome venga utilizzato per designare un prodotto industriale ed anche a prescindere dal pericolo di confusione con la persona,[9] in tempi più recenti si è formato l’indirizzo per il quale l’art. 7 c.c. e l’art. 21 legge marchi (ora art. 8 D.Ls. 30 del 2005) hanno diverso contenuto precettivo e diverso ambito di applicazione: se “l’art. 7 c.c. nel momento in cui riconosce al titolare il diritto di impedire l’uso indebito del proprio nome per il solo fatto che da tale uso possa derivargli un pregiudizio di qualsiasi genere anche meramente eventuale, enuncia la regola che è vietato l’uso del nome altrui, l’art. 21 legge marchi pone l’opposta regola secondo la quale l’imprenditore può scegliere liberamente un nome di persona diverso dal proprio come marchio del suo prodotto e prevede che come rigorosa eccezione a questa regola il solo caso in cui l’uso di detto marchio sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro della persona che ha diritto a portare tale nome”.[10] Indirizzo confermato dalla Corte di Cassazione[11] secondo la quale: “al fine di verificare se l’uso di un nome altrui, in occasione dell’adozione di un marchio, possa ritenersi o meno indebito, deve farsi riferimento esclusivamente alla disciplina specifica dettata dalla legge sui marchi e non a quella desumibile dalla disciplina codicistica del diritto al nome “.

Pertanto, per la giurisprudenza l’art. 21 legge marchi (ora art. 8 D.Ls. 30 del 2005), in quanto norma particolare rispetto a quella generale di cui all’art. 7 c.c., deve trovare applicazione in modo esclusivo al caso di nome (o stemma) altrui come marchio. In applicazione di tale norma, nel caso in cui il terzo registri come marchio il nome (o lo stemma) altrui, il terzo ne potrà continuare l’uso industriale purchè tale uso non leda la fama, il decoro o il credito del titolare del nome stesso (o dello stemma). Ne consegue che il titolare del nome (o dello stemma) potrà chiedere e ottenere la cessazione dell’uso del suo nome (o stemma) come marchio da parte di colui che ha ottenuto la registrazione, solo provando di aver avuto un effettivo pregiudizio alla fama, decoro o credito.

Contro tale impostazione che muove da un preteso diverso contenuto delle due norme, è stato osservato[12] che se l’utilizzazione del nome (o dello stemma) altrui come marchio non costituisce di per sé violazione del diritto al nome ed all’identità, se non quando tale uso sia idoneo ad arrecare pregiudizio al titolare del nome (o dello stemma), ledendo la fama, il credito o il decoro del titolare, una lesione del diritto al nome si potrà verificare in presenza di circostanze particolari allorchè il nome (o lo stemma) usato in relazione a prodotti di un determinato tipo possa assumere agli occhi del pubblico il significato di un collegamento del prodotto con il titolare del nome (o dello stemma), nel senso di far ritenere che titolare ne sia l’imprenditore o l’ideatore. In presenza di tali circostanze, attinenti alla personalità del titolare, alla sua notorietà ed alle caratteristiche del prodotto, l’adozione del nome (o dello stemma) come marchio, costituisce violazione del diritto al nome. Pertanto, anche l’uso del marchio conforme alla funzione distintiva può violare il diritto al nome, sia che esso dia luogo al pericolo di un collegamento del prodotto con il titolare, sia che l’accostamento del nome (o dello stemma) al prodotto di un determinato genere sia di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio alla fama, al credito o al decoro della titolare (per questa ultima ipotesi, si pensi al nome di un soggetto conosciuto per la sua attività di protezione della natura che venga adoperato come marchio di armi da caccia). In presenza di tali condizioni, il titolare del diritto allo stemma potrà chiedere la nullità del marchio anche se esso venga usato nei limiti della funzione distintiva.

In base a tali considerazioni, dunque -- qualora l’Ufficio Brevetti non abbia esercitato la facoltà di subordinare la registrazione del marchio al consenso degli aventi diritto allo stemma -- la nullità (ex art. 25, lett. c, D.Ls. 30 del 2005, che prevede l’ipotesi di nullità del marchio per contrasto con il disposto dell’art. 8) del marchio potrà essere fatta valere sia nell’ipotesi in cui l’uso del marchio da parte del terzo che ha ottenuto la registrazione sia tale da ledere la fama, il credito od il decoro del titolare, sia nell’ipotesi in cui tale lesione risulti già di per sé dal collegamento dello stemma con il genere di prodotti per cui la registrazione è stata ottenuta (indipendentemente dall’uso ed anche prima di esso). Inoltre, il marchio sarà nullo nell’ipotesi di stemma notorio registrato senza che sia stato richiesto dall’Ufficio Brevetti il consenso obbligatorio degli aventi diritto.

L’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un marchio “perchè il marchio costituisce violazione del diritto al nome”, in base all’art. 122 D.Ls. 30 del 2005, potrà essere esercitata soltanto dal titolare del nome (o dello stemma), dagli aventi diritto e dalle persone designate al consenso dall’art. 8 D.Ls. 30 del 2005.



[1] Art. 30, comma primo, R.D. 929/42: “trattandosi di marchio contenente parole, figure o segni con significazione politica, o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici, l’Ufficio, prima di concedere il brevetto, invierà l’esemplare del marchio e quant’altro potrà occorrere, alle Amministrazioni pubbliche interessate, o competenti, per sentirne l’avviso in conformità di quanto è disposto nell’articolo seguente”. Art. 31, R.D. 929/42: “se l’Amministrazione interessata, o competente di cui al precedente articolo, esprime avviso contrario alla concessione del brevetto, l’Ufficio respinge la domanda”. Art. 6, comma secondo, R.D. 652/43: "è vietato usare marchi di fabbrica riproducenti stemmi, qualora questi non siano in legittimo possesso dell’intestatario del marchio di fabbrica stesso.”

[2] Si veda: RELLINI ROSSI, Lo stemma come marchio di impresa, in Riv. di Dir. Industr., 1955, II, p. 71.

[3] In tal senso: ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 488; CANSACCHI, Lo stemma araldico come marchio di fabbrica, in Riv.Ar. 1962, p. 90; MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Giuffrè, Milano, 1961, p. 78.

[4] In tal senso: CANSACCHI, Lo stemma... cit., p. 92; PIZZORUSSO, voce Stemma, in Enc. Dir., Milano, 1981, p. 1083.

[5] In tal senso: CANSACCHI, Lo stemma .. cit., p. 95.

[6] Già art. 21 legge marchi.

[7] Art. 7 c.c.: “la persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali”.

[8] Per un quadro completo della dottrina e della giurisprudenza sviluppatasi nel corso del 1900 si veda la approfondita nota redazionale 565/1-4, in Giur. ann. di Dir. Industr., 1974, p. 766.

[9] Cass. Civ., 1 febbraio 1962, n. 201, in Riv. di Dir. Industr., 1969, II, p. 215.

[10] Tribunale di Milano, 30 maggio 1974, in Giur. ann. di Dir. Industr., 1974, p. 766, e in Riv. di Dir. Industr., 1983, II, p. 223.

[11] Cass. Civ., sez. I, 13 marzo 1998, n. 2735, in Riv. di Dir. Industr., 1999, II, p. 477, con nota di SPIAZZI.

[12] Si veda la citata nota redazionale 565/1-4.