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RTI-Yahoo: commento alla sentenza della Corte di Appello

Da esenzione a immunità
RTI-Yahoo: commento alla sentenza della Corte di Appello
RTI-Yahoo: commento alla sentenza della Corte di Appello

Il giorno 7 gennaio 2015 la Corte di Appello di Milano, sezione specializzata in materia d’impresa, ha rovesciato la Sentenza del Tribunale di Milano che già aveva deciso in primo grado la controversia tra Reti Televisive Italiane s.p.a. (RTI) e Yahoo! Inc. (Yahoo), destando non poco scalpore.

Il Giudice di primo grado aveva condannato la società americana, in virtù della legge sulla responsabilità dei provider contenuta nel Decreto Legislativo n. 70/2003 (in recepimento della direttiva 2000/31 CE) per non aver rimosso tempestivamente i contenuti, di proprietà di RTI, qualificando Yahoo come hosting provider attivo (Sentenza n. 10893/2011). Il Tribunale non aveva ritenuto che Yahoo potesse beneficiare dell’esenzione da responsabilità prevista dall’articolo 16 del suddetto decreto.

Di parere opposto è stata la Corte di Appello, che ha considerato “fuorviante” la definizione di hosting provider attivo. Infatti, nella sentenza è stato precisato che un soggetto passivo non possa essere ritenuto responsabile della rimozione tardiva di contenuti illeciti nella misura in cui la richiesta precedentemente pervenuta non sia “qualificata, puntuale e circoscritta”.

Ora, non vi è dubbio che per i servizi di hosting puro non vi debba essere un obbligo di sorveglianza, né tantomeno di rimozione continuativa di materiale illecito a fronte di una contestazione generica, ma questo non è il caso di Yahoo. In questo senso, il Giudice di primo grado, utilizzando la figura di hosting provider attivo, aveva provato a ricucire quella profonda discrasia, a opinione di chi scrive, riscontrabile tra quanto stabilito da un decreto legislativo ed una direttiva europea, vecchie di dieci anni, e la diversa realtà con cui oggi ci confrontiamo.

Paradossale è la parte della sentenza in cui la Corte di Appello afferma “[...] la nozione di hosting provider attivo risulti oggi sicuramente fuorviante e sicuramente da evitare concettualmente in quanto mal si addice ai servizi di “ospitalità in rete” in cui il prestatore non interviene in alcun modo sul contenuto caricato dagli utenti, limitandosi semmai a sfruttarne commercialmente la presenza sul sito, ove il contenuto viene mostrato così come è caricato dall’utente senza alcuna ulteriore elaborazione da parte del prestatore”.

Come si può evincere dal testo, la principale ambiguità derivante dalla difficile lettura del Decreto Legislativo n. 70/2003 affrontata dalla Corte di Appello, si riduce al distinguo tra hosting provider attivo e passivo, ovverosia la fattispecie in accordo alla quale il provider ospita meramente i contenuti caricati da terzi sulla propria piattaforma opposta al caso in cui il soggetto in questione non si limiti all’ospitalità, ma sfrutti commercialmente, anche in maniera indiretta, i contenuti caricati. A partire da questa delicata contrapposizione bisogna interrogarsi sulla base di quali elementi di diritto e di fatto la Corte ha deciso di ritenere passivo un soggetto che fonda il proprio modello di business sulla monetizzazione della distribuzione di contenuti altrui: principale fonte di profitto posto alla base dell’attività d’impresa di questi soggetti.

Ciò che invece è certo è che ‘disintermediare’ in questo modo l’intera filiera del settore dei media digitali, dall’ideazione, alla produzione, alla distribuzione, senza far assumere alcuna responsabilità in materia di tutela dei contenuti da parte dei grossi distributori online, porterà una totale assenza di protezione degli autori, oltre a cambiare l’approccio tradizionale al pagamento delle royalties, proposte, o meglio imposte, dal distributore al produttore, determinando, di fatto, asimmetrie economiche, spesso fonte di mancati accordi commerciali. Per ‘disintermediazione’ intendiamo la distribuzione dei contenuti senza previi accordi con i produttori, sui quali ricade inevitabilmente l’onere di salvaguardare i diritti connessi allo sfruttamento economico. Inoltre mancando l’accordo, viene eluso il principio consensualistico, elemento fondante del diritto civile. A questo punto occorrerebbe una nuova riforma della legislazione che porti ad una sostanziale differenziazione tra i provider che ospitano passivamente contenuti altrui e provider che in realtà si propongono come nuovi distributori di contenuti, sfruttandone economicamente il valore.

In conclusione il rischio, celato in questa decisione, è quello di “legalizzare” modelli di business che incentivano la diffusione di contenuti illeciti, senza averne acquisito i diritti, in quanto le sanzioni previste non sono sufficienti a tutelare la proprietà intellettuale, favorendo comportamenti elusivi del diritto d’autore.

Dietro la giusta tutela di importanti diritti come quello all’informazione o alla libera espressione, si sta però trasformando l’istituto di esenzione di responsabilità per la vigilanza di contenuti ex ante in un sistema di completa immunità per i soggetti che svolgono attività di hosting provider.

Non è tollerabile che un’entità giuridica che ricavi la maggior parte dei propri profitti dalla utilizzazione di contenuti digitali, non si doti di strumenti per facilitare l’individuazione e l’eliminazione di quei contenuti utilizzati non correttamente se non addirittura illegalmente. Proprio da questo paradosso nasce la problematica irrisolta di chi abbia il compito di segnalare le violazioni, in maniera precisa.

Secondo la Corte d’Appello sarebbe spettato a RTI segnalare le violazioni in maniera “qualificata, puntuale e circoscritta”, ovvero indicando gli URL all’hosting provider. Una tale interpretazione così restrittiva dell’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 70/2003, non solo crea un istituto che non trova nessun riferimento normativo, risultando, invece, originato da una forte pressione delle grosse società responsabili del servizio, ma rischia di aggravare eccessivamente l’onore probatorio, delineando profili di incostituzionalità in riferimento all’articolo 24 della Costituzione, in materia di accesso alla giustizia.

Come possiamo dire che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, se contemporaneamente chiediamo allo stesso soggetto di vigilare su tutto il web? Una tale probatio diabolica renderebbe difficile, se non impossibile, ogni tentativo di ottenere giustizia.

Sicuramente urge che venga trovato un equo contemperamento tra le parti in materia di onere probatorio. Una definizione di standard tecnico anche in materia di individuazione, segnalazione e rimozione di contenuti illeciti sul web potrebbe essere un primo passo per risolvere tale questione, come già precedentemente avvenuto in ambiti critici quali la sicurezza informatica e l’informatica forense, nei quali, oltre a essere disponibili numerosi standard, non è mancato il proliferare di progetti open source utilizzati e analizzati quotidianamente dalle istituzioni pubbliche e private operanti in questi mercati.

I problemi da affrontare ed i dubbi da sciogliere non sono pochi. Sarebbe auspicabile pertanto un intervento del legislatore europeo e nazionale, in modo da decidere finalmente se tutelare maggiormente i produttori di contenuti o, ancora una volta, lasciare ampio ed ingiustificato spazio ai nuovi distributori (i.e. hosting provider attivo), spesso incuranti delle esigenze degli autori e negligenti nei loro confronti. Una riflessione questa che in Italia dovrebbe essere estesa anche oltre l’ambito digitale.

Il giorno 7 gennaio 2015 la Corte di Appello di Milano, sezione specializzata in materia d’impresa, ha rovesciato la Sentenza del Tribunale di Milano che già aveva deciso in primo grado la controversia tra Reti Televisive Italiane s.p.a. (RTI) e Yahoo! Inc. (Yahoo), destando non poco scalpore.

Il Giudice di primo grado aveva condannato la società americana, in virtù della legge sulla responsabilità dei provider contenuta nel Decreto Legislativo n. 70/2003 (in recepimento della direttiva 2000/31 CE) per non aver rimosso tempestivamente i contenuti, di proprietà di RTI, qualificando Yahoo come hosting provider attivo (Sentenza n. 10893/2011). Il Tribunale non aveva ritenuto che Yahoo potesse beneficiare dell’esenzione da responsabilità prevista dall’articolo 16 del suddetto decreto.

Di parere opposto è stata la Corte di Appello, che ha considerato “fuorviante” la definizione di hosting provider attivo. Infatti, nella sentenza è stato precisato che un soggetto passivo non possa essere ritenuto responsabile della rimozione tardiva di contenuti illeciti nella misura in cui la richiesta precedentemente pervenuta non sia “qualificata, puntuale e circoscritta”.

Ora, non vi è dubbio che per i servizi di hosting puro non vi debba essere un obbligo di sorveglianza, né tantomeno di rimozione continuativa di materiale illecito a fronte di una contestazione generica, ma questo non è il caso di Yahoo. In questo senso, il Giudice di primo grado, utilizzando la figura di hosting provider attivo, aveva provato a ricucire quella profonda discrasia, a opinione di chi scrive, riscontrabile tra quanto stabilito da un decreto legislativo ed una direttiva europea, vecchie di dieci anni, e la diversa realtà con cui oggi ci confrontiamo.

Paradossale è la parte della sentenza in cui la Corte di Appello afferma “[...] la nozione di hosting provider attivo risulti oggi sicuramente fuorviante e sicuramente da evitare concettualmente in quanto mal si addice ai servizi di “ospitalità in rete” in cui il prestatore non interviene in alcun modo sul contenuto caricato dagli utenti, limitandosi semmai a sfruttarne commercialmente la presenza sul sito, ove il contenuto viene mostrato così come è caricato dall’utente senza alcuna ulteriore elaborazione da parte del prestatore”.

Come si può evincere dal testo, la principale ambiguità derivante dalla difficile lettura del Decreto Legislativo n. 70/2003 affrontata dalla Corte di Appello, si riduce al distinguo tra hosting provider attivo e passivo, ovverosia la fattispecie in accordo alla quale il provider ospita meramente i contenuti caricati da terzi sulla propria piattaforma opposta al caso in cui il soggetto in questione non si limiti all’ospitalità, ma sfrutti commercialmente, anche in maniera indiretta, i contenuti caricati. A partire da questa delicata contrapposizione bisogna interrogarsi sulla base di quali elementi di diritto e di fatto la Corte ha deciso di ritenere passivo un soggetto che fonda il proprio modello di business sulla monetizzazione della distribuzione di contenuti altrui: principale fonte di profitto posto alla base dell’attività d’impresa di questi soggetti.

Ciò che invece è certo è che ‘disintermediare’ in questo modo l’intera filiera del settore dei media digitali, dall’ideazione, alla produzione, alla distribuzione, senza far assumere alcuna responsabilità in materia di tutela dei contenuti da parte dei grossi distributori online, porterà una totale assenza di protezione degli autori, oltre a cambiare l’approccio tradizionale al pagamento delle royalties, proposte, o meglio imposte, dal distributore al produttore, determinando, di fatto, asimmetrie economiche, spesso fonte di mancati accordi commerciali. Per ‘disintermediazione’ intendiamo la distribuzione dei contenuti senza previi accordi con i produttori, sui quali ricade inevitabilmente l’onere di salvaguardare i diritti connessi allo sfruttamento economico. Inoltre mancando l’accordo, viene eluso il principio consensualistico, elemento fondante del diritto civile. A questo punto occorrerebbe una nuova riforma della legislazione che porti ad una sostanziale differenziazione tra i provider che ospitano passivamente contenuti altrui e provider che in realtà si propongono come nuovi distributori di contenuti, sfruttandone economicamente il valore.

In conclusione il rischio, celato in questa decisione, è quello di “legalizzare” modelli di business che incentivano la diffusione di contenuti illeciti, senza averne acquisito i diritti, in quanto le sanzioni previste non sono sufficienti a tutelare la proprietà intellettuale, favorendo comportamenti elusivi del diritto d’autore.

Dietro la giusta tutela di importanti diritti come quello all’informazione o alla libera espressione, si sta però trasformando l’istituto di esenzione di responsabilità per la vigilanza di contenuti ex ante in un sistema di completa immunità per i soggetti che svolgono attività di hosting provider.

Non è tollerabile che un’entità giuridica che ricavi la maggior parte dei propri profitti dalla utilizzazione di contenuti digitali, non si doti di strumenti per facilitare l’individuazione e l’eliminazione di quei contenuti utilizzati non correttamente se non addirittura illegalmente. Proprio da questo paradosso nasce la problematica irrisolta di chi abbia il compito di segnalare le violazioni, in maniera precisa.

Secondo la Corte d’Appello sarebbe spettato a RTI segnalare le violazioni in maniera “qualificata, puntuale e circoscritta”, ovvero indicando gli URL all’hosting provider. Una tale interpretazione così restrittiva dell’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 70/2003, non solo crea un istituto che non trova nessun riferimento normativo, risultando, invece, originato da una forte pressione delle grosse società responsabili del servizio, ma rischia di aggravare eccessivamente l’onore probatorio, delineando profili di incostituzionalità in riferimento all’articolo 24 della Costituzione, in materia di accesso alla giustizia.

Come possiamo dire che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, se contemporaneamente chiediamo allo stesso soggetto di vigilare su tutto il web? Una tale probatio diabolica renderebbe difficile, se non impossibile, ogni tentativo di ottenere giustizia.

Sicuramente urge che venga trovato un equo contemperamento tra le parti in materia di onere probatorio. Una definizione di standard tecnico anche in materia di individuazione, segnalazione e rimozione di contenuti illeciti sul web potrebbe essere un primo passo per risolvere tale questione, come già precedentemente avvenuto in ambiti critici quali la sicurezza informatica e l’informatica forense, nei quali, oltre a essere disponibili numerosi standard, non è mancato il proliferare di progetti open source utilizzati e analizzati quotidianamente dalle istituzioni pubbliche e private operanti in questi mercati.

I problemi da affrontare ed i dubbi da sciogliere non sono pochi. Sarebbe auspicabile pertanto un intervento del legislatore europeo e nazionale, in modo da decidere finalmente se tutelare maggiormente i produttori di contenuti o, ancora una volta, lasciare ampio ed ingiustificato spazio ai nuovi distributori (i.e. hosting provider attivo), spesso incuranti delle esigenze degli autori e negligenti nei loro confronti. Una riflessione questa che in Italia dovrebbe essere estesa anche oltre l’ambito digitale.