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L’autenticità dell’opera vola via col vento

Concept spatial, Attente, 1963, Lucio Fontana
Concept spatial, Attente, 1963, Lucio Fontana

Che bel vento di marzo è la scritta dietro ad una tela rossa squarciata da due tagli (46x39 cm), un concetto spaziale – attese, che il Tribunale di Milano con la sentenza n. 7402 del 23 luglio 2019 aveva accertato essere opera autentica di mano del Maestro Lucio Fontana, e che, invece, per la Fondazione Fontana, archivio a memoria d’artista del fondatore dello spazialismo, era un falso di cui aveva minacciato il sequestro.

Ad aprile di quest’anno, però, il vento è cambiato e la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 1238 del 28 aprile 2021, a seguito di impugnazione proposta dalla Fondazione, ha dichiarato il difetto di interesse ad agire ex articolo 100 c.p.c. della proprietaria della tela relativamente alla domanda di accertamento dell’autenticità dell’opera spiegata nei confronti della Fondazione, una norma che consente “al giudicante di disporre di un “filtro” per respingere - in limine litis - domande pretestuose, o destituite di utilità ai fini della tutela della sfera giuridica di chi le introduce”.

Si racconta che Fontana, scrivesse quel che gli accadesse o che gli passasse per la mente dietro alle sue tele, per rendere più certa la loro autografia e, in primo grado, proprio, la perizia grafologica d’ufficio, aveva confermato la riconducibilità a Lucio Fontana della firma e del testo scritto sul retro della stessa; e anche la consulenza tecnica espletata sulla datazione dell’opera aveva confermato che l’epoca di realizzazione della tela era coeva al periodo produttivo dell’autore.

La sentenza della Corte d’Appello, che qui si commenta, nel negare il diritto all’accertamento giudiziale dell’autenticità, si pone in aperto contrasto con il precedente espresso meno di un anno prima dalla medesima Corte, con la sentenza n. 1054 del 4 maggio 2020, che, sempre a proposito di un lavoro di Lucio Fontana, una scultura della serie delle Nature, aveva ribadito il principio dell’ammissibilità di tale domanda, qualora l’autenticità dell’opera d’arte, sia oggetto di contestazioni da parte di terzi, in quanto fatto funzionale e determinante a garantire una piena tutela del diritto di proprietà, a pena un ingiustificato vuoto di tutela, contrario al principio di cui all'art. 24 della Costituzione. E ciò, poiché la contestazione della paternità “compromette significativamente la facoltà del proprietario di vendere la scultura come autentica ad un prezzo di mercato corrispondente alle sue effettive caratteristiche nonché di farla circolare nei rapporti con i terzi, tramite esposizioni d'arte, come opera attribuibile al Maestro Fontana” sebbene ciò non incida “in alcun modo sulla libera manifestazione del pensiero degli esponenti della Fondazione, che da nessuna sentenza potrebbero essere condannati ad emettere certificati di autenticità”, trattandosi, peraltro, di un obbligo di fare infungibile.

La giurisprudenza milanese aveva resistito compatta contro l’orientamento romano che, anche di recente, aveva ribadito in un caso relativo ad alcune opere di Keith Haring “che una volta che l’artista non sia in grado di autenticare l’opera d’arte, l’autenticità della stessa può essere oggetto esclusivamente di un parere e non di un accertamento in termini di verità, parere che è espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 32 Cost” (Tribunale Roma, Sezione specializzata in materia di impresa, 26 giugno 2019) e un isolato precedente della Suprema Corte che aveva ha cassato una sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva accertato e dichiarato l’autenticità dell’arazzo Le cose nascono dalla necessità e dal caso di Alighiero Boetti, ignorando il principio per cui “l’azione di accertamento non può avere ad oggetto, salvi i casi eccezionalmente previsti dalla legge, una mera situazione di fatto, ma deve tendere all’accertamento di un diritto che sia già sorto, in presenza di un pregiudizio attuale, e non meramente potenziale”.

Non c’è, invece, dubbio sul “fatto” che un “due tagli rosso” di Fontana, di quelle dimensioni, corredato da un certificato di autenticità della Fondazione Fontana, abbia un valore di mercato di circa 800 mila euro, e neppure sul “fatto” che quella stessa opera, che ben due CTU hanno ritenuto autentica in primo grado, senza quel certificato, non valga nulla.

E, anzi, quella tela non può essere neppure venduta tramite un soggetto che “esercita l'attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura …”, in ottemperanza al disposto dell’articolo 64 del Codice dei Beni Culturali, e per verificarlo basta leggere i cataloghi delle aste internazionali degli ultimi 10 anni in cui sono state battute opere del Maestro Fontana o interpellare anche l’ultimo dei mercanti.

Il punto è, piuttosto, che gli archivi d’artista e il loro ruolo, non ha un riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico.

Sono stati definiti come enti solitamente costituiti da quegli stessi soggetti legittimati a tutelare la paternità della produzione dell’artista deceduto, muniti, pertanto, di un potere in un certo senso di supervisione generale, se si ha riguardo ai sistemi che perpetuano o riconoscono una durata alla tutela del diritto morale dopo la morte dell’artista, oppure, e con eguale rilevanza, per la valenza di un sistema di fatto monopolistico[…]: l’attività di certificazione può avvenire sia direttamente, attraverso il rilascio di attestati di autenticità, sia indirettamente, ma con eguale efficacia per il mercato, mediante l’individuazione dell’opera nell’archivio delle opere di produzione dell’artista e, sempre indirettamente, con l’inserimento dell’opera nel catalogo ragionato dell’artista”.

Ma tale attività, non coincide con la definizione di Archivio Storico secondo il diritto dei Beni Culturali che indica il complesso dei documenti prodotti o acquisiti da un certo soggetto e da quest’ultimo ritenuti meritevoli di conservazione consistenti nella: raccolta ordinata e tendenzialmente completa degli atti di un ente o individuo che si costituisce durante lo svolgimento della sua attività ed è conservata per il conseguimento degli scopi politici, giuridici e culturali di quell’ente o individuo” e neppure con la definizione di archivio privato data dalla dottrina quale “sedimentazione documentaria dell’attività pratica, giuridica, amministrativa, ed in genere di gestione, della persona fisica o giuridica che lo produce “involontariamente”, per il fatto stesso di svolgere la propria attività e nella esplicazione di quella attività[1] e neppure gli si avvicina.

Gli Archivi d’artista, talvolta, infatti, sono solo associazioni o fondazioni “vuote” di fondi ma ricche di eredi e talvolta di opere di loro proprietà da valorizzare, più sotto il profilo economico che sul piano culturale.

Lucio Fontana, morì, senza figli, nel 1968 a Comabbio e la moglie, Teresita Rasini, una sarta, non un’esperta d’arte, che il maestro sposò nel ’52 dopo il suo ritorno dall’Argentina, creò il 29 novembre del 1982 la Fondazione Lucio Fontana, “dopo aver proposto a Milano la donazione di un cospicuo numero di quadri e sculture del maestro, delusa dall’inefficienza del Comune[2]alla quale, con legato, donò circa 600 opere create dal marito.

Nel legato di Teresita alla Fondazione erano comprese solo le opere, non i colori, i pennelli, i cavalletti, i punteruoli e taglierini con cui il Maestro aveva realizzato i suoi tagli e i suoi squarci, che sono ancora di proprietà degli eredi Esposto-Vailati[3] e si possono vedere, di tanto in tanto, a Comabbio, nella villa sul lago dove il maestro aveva scelto di trovare la pace, e dove è conservato il suo ultimo atelier.

Queste dinamiche relative alla gestione degli archivi d’artista e alla valorizzazione economica dei lasciti sono ben illustrate da Loretta Würtenberger nel libro The Artist’s Estate, A Handbook for Artists, Executors and Heirs[4].

La giurisprudenza, invece, ha riconosciuto agli Archivi d’Artista, vuoti o pieni che siano, iure proprioil diritto di preservare l’identità personale” di Alberto Giacometti e della sua opera, con l’ordinanza del Tribunale Milano, Sezione specializzata in materia di proprietà intellettuale ed industriale, 13 luglio 2011 e la Cassazione ha stabilito che si tratta del “soggetto preposto a custodire l’opera del medesimo [artista] ed a diffonderne la corretta conoscenza” e che “il paventato svalutarsi dell’opera del Maestro può integrare altresì un danno all’immagine della Fondazione stessa, che sul mercato rischierebbe di apparire negligente per non aver esercitato efficacemente la cura delle opere e della memoria del Maestro, cui essa è statutariamente tenuta”[5].

Gli Archivi a memoria d’artista, a sostegno della loro legittimazione a rilasciare i certificati di autenticità per le opere in cerca di autore, fanno leva sulla previsione dell’articolo 23 della Legge sul Diritto d’Autore, che attribuisce a taluni familiari nell’ordine gerarchico indicato dalla norma un diritto morale proprio sull’opera dell’artista defunto, non, però, un monopolio sulla damnatio di un’opera con riferimento alla quale sono invece tutti i familiari in forza dell’articolo 8 del Cod. Civ. a essere legittimati a proteggere il diritto al nome e ad opporsi all’indebito uso che altri eventualmente ne facciano.

Autorevole dottrina[6] lo ha recentemente ribadito concludendo per la non applicabilità agli archivi anche degli articoli 168 -170 l.a. che attengono alla distruzione dell’opera, il cui potere spetta solo all’artista.

L’autorevolezza di un certificato da parte di un Archivio, anche sul mercato, non dovrebbe, essere legata alla figura del parente più prossimo, ma alla circostanza che l’Archivio ritorni alla sua originaria essenza di custode della memoria dell’artista e delle fonti primarie (bozzetti, stampe fotografiche, corrispondenza, diari, appunti, manoscritti, fatture, contratti, colori, pennelli, scalpelli, tele, tavolozze, cavalletti, solventi, leganti, collanti, timbri per le riproduzioni, lastre fotografiche, negativi fotografici) la cui lettura dovrebbe essere il faro per la ricostruzione della memoria e della produzione di un artista.

E non certo in ragione del diritto domenicale di proprietà dei beni archivistici di un maestro, ma soltanto perché la lettura delle fonti primarie di provenienza diretta dell’autore, è uno strumento utile nell’indagine sull’autenticità o meno di una sua opera.

A ciò si deve necessariamente aggiungere che la giurisprudenza si è più volte pronunciata nel qualificare l’expertise come «un documento contenente il parere di un esperto, considerato competente ed autorevole, in merito all'autenticità ed all'attribuzione di un'opera d'arte, e ritenuto che tale documento può essere rilasciato da chiunque sia competente ed autorevole, non trattandosi di un diritto riservato in esclusiva agli eredi dell'artista - i quali non possono, quindi, attribuire o negare a terzi (ad es., critici d'arte o studiosi) la facoltà di rilasciare "expertises" in merito all'autenticità dell'opera del loro congiunto -, la formulazione dei giudizi sull'autenticità e sul conseguente valore di un'opera d'arte di un artista defunto costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, e, pertanto, può essere effettuata da qualunque soggetto considerato esperto, fermo restando il diritto degli eredi di rivendicare la paternità dell'opera d'arte, ove erroneamente attribuita ad altri, o, viceversa, di disconoscerne la provenienza (Tribunale Roma 16 febbraio 2010, n. 3425).

Il rapporto che sorge tra il collezionista che richiede un’archiviazione e un archivio, tuttavia, ha natura contrattuale ed è a titolo oneroso. Il proprietario dell’opera, infatti, sottoscrive una richiesta formale di expertise, dichiara di accettare un regolamento predisposto dall’ente e paga un corrispettivo per ricevere un parere altamente qualificato[7] sul vero o sul falso; circostanze, queste, incompatibili con la tesi giurisprudenziale consolidata che qualifica «la formulazione dei giudizi sull'autenticità di un'opera d'arte espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero (art. 32 cost.) per cui l'obbligazione gravante sull'esperto chiamato a rendere una perizia, attribuzione o autenticazione, è una semplice obbligazione di mezzi e non di risultato» (Tribunale di Roma Sez. IX, Sent., 14/06/2016).

Tale tesi è divenuta anche anacronistica perché non è più rispondente ai progressi tecnici e scientifici in tema di autenticazione di opera d’arte che consentono di raggiungere anche tramite esami comparativi evidenze e non opinioni.

Nel caso che qui si commenta, una consulenza tecnica grafologica d’ufficio ha riconosciuto l’autenticità dell’autografia della firma e della scritta.

Se è ancora buono il manifesto di Ben “je signe donc je suis”, e il parere di falso su quell’opera dato dalla Fondazione era errato e, questo, per qualunque prestatore di servizi avrebbe configurato un’ipotesi di colpa grave, per cui l’”esperto” sarebbe stato tenuto a rispondere in base al disposto dell’art. 2236 cod. civ.

Del resto, i più grandi artists’ estates americani (Fondazione Warhol[8], Jean Michel Basquiat e Keith Haring Foundation) hanno smesso di autenticare le opere perché subissati da azioni di danno e spese di difesa per casi di autenticità negata e accuse di violazione della normativa antitrust.

Ma non è tutto, al Rashōmon che sta travolgendo la Corte d’Appello di Milano, e con lei Archivi, Fondazioni, eredi, esperti e collezionisti si deve aggiungere aggiunge la recentissima sentenza della Corte d’Appello di Milano sez. I, 11/12/2020, n. 3260.

In quel caso un collezionista aveva acquistato da un gallerista l’opera Movimento di danza, a firma di Gino Severini.

Tutte e due le figlie viventi di Gino Severini avevano confermato l'autenticità del dipinto in oggetto con loro dichiarazioni. La casa d’aste Christie’s, a cui era stato dato mandato dal collezionista di vendere il dipinto in asta, stante la mancata disponibilità della prof. Daniela Fonti (massima esperta dell’autore ma soggetto privo di vincoli parentali con Severini), a inserire l’opera nel Catalogo Ragionato dell’autore e il suo dubbio sull’autenticità, si era rifiutava di metterlo all’asta.

A ciò, seguiva una causa per annullamento del contratto d’acquisto dell’opera per difetto di autenticità qualificata come vendita di aliud pro alio.

La Corte ritenendo la “mancanza di certezza della paternità dell'opera in capo a Gino Severini e il ritiro dell'opera dall'asta già prevista da parte di Christie's, come detto, autorevole casa d'aste, in grado di influenzare con le sue decisioni il mercato dell'arte concluse trattarsi di errore essenziale sulle qualità della cosa venduta”, nonostante il dipinto fosse stato dichiarato autentico dalle figlie dell’artista, titolari del diritto morale e del diritto al nome.

Il quadro che emerge è sconfortante e la necessità di un intervento legislativo sembra essere l’unica via che possa dare certezze, e mettere fine a un tempo di creatività giuridica e di liberi ma ondivaghi convincimenti dei giudici in cerca un appiglio giuridico a cui ancorare e legittimare delle regole non scritte e non univoche che il mercato si è dato perché the show must go on.

Nel frattempo, posto che un danno economico di 800 milioni di euro è in re ipsa personale, attuale e concreto sembra doversi auspicare un ripensamento, anche se sarebbe l’ennesimo, anche da parte della Corte d’Appello di Milano.

Se ciò non dovesse avvenire, nel frattempo, basterà rivolgersi a una casa d’asta per chiedere che venga messa in vendita un’opera “ripudiata” da un Archivio d’artista e produrre in giudizio la certa lettera di rifiuto che ne seguirà, per rendere “attuale” e concreto, il pregiudizio e far diventare ammissibile l’azione di accertamento incidentale dell’autenticità dell’opera in giudizio.

Dopotutto, domani è un altro giorno.

 

[1] Archivi privati, archivi personali, archivi familiari, ieri e oggi ELIO LODOLINI in Il futuro della memoria (beniculturali.it)

[2] M. Isnenghi, Corriere della Sera, 18 agosto 2002. Rubrica “Storie di passione”.

[3] A CASA DI LUCIO FONTANA (quasi) cinquant’anni dopo (ilgiornaledellefondazioni.com)

[4] Pubblicato da Hatje Cantz Verlag Gmbh & Co Kg nel 2016;

[5] Cass. 26 gennaio 2018 n. 2039 Fondazione Emilio e Annabianca Vedova – Orler;

[6] Cfr. L. C. Ubertazzi, Falsi d’autore e proprietà intellettuale, in AIDA, 2018, 400 ss

[7] Anche lo statuto dell’associazione che rappresenta gli archivi d’artista vi è il fine statutario di “perseguire comportamenti virtuosi e scientificamente qualificati nelle attività degli Archivi, tra cui istituzione, conduzione degli stessi Archivi, nel rilascio di certificata di autenticità, nella redazione ed aggiornamento dei cataloghi ragionati e documentari dell'opera di un artista e, qualora ne sussista la legittimazione, di attestazioni di paternità inStatuto (aitart.it)

[8] La Fondazione Warhol chiude il suo consiglio di autenticazione (ilgiornaledellefondazioni.com)