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Sciascia e i professionisti dell'antimafia

Leonardo Sciascia e Paolo Borsellino
Leonardo Sciascia e Paolo Borsellino

Si avvia con questo articolo la rubrica "Gli eretici" a cura di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi.

L'idea cui si atterrano gli autori è condensata in alcuni notissimi versi di Tommaso Campanella: "Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi e ipocrisia".

È tutto scritto in queste parole e non c'è altro da aggiungere.

 

Quasi 35 anni il Corriere della Sera pubblicò un articolo di Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia.

L'Autore volle iniziare con due autocitazioni tratte da Il giorno della civetta e A ciascuno il suo e gli piacque chiarire che erano destinate solo alle persone che, ai tempi delle cinque giornate di Milano, sarebbero state chiamate "eroi della sesta", cioè specialiste dell'eroismo che non costa nulla.

Il fulcro della sua riflessione fu che l'antimafia era stata ed era ancora mentre scriveva anche uno strumento di potere.

Sciascia volle fare qualche esempio.

Il primo riguardò un ipotetico "sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione?".

Il secondo fu invece riferito a una persona reale. Si trattava del Dr. Paolo Borsellino che pochi mesi prima era stato nominato Procuratore della Repubblica a Marsala, venendo preferito ad aspiranti di maggiore anzianità.

La cosa provocò l'indignazione di Sciascia che così concluse l'articolo: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso".

Era piuttosto radicato a quei tempi un criterio non scritto, difeso soprattutto dagli iscritti di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dell'associazionismo giudiziario, fondato sulla cosiddetta anzianità senza demerito. Significava questo: che quando c'era un posto direttivo da assegnare, il candidato più anziano in carriera, purché non risultassero elementi negativi a suo carico, prevaleva sempre sui concorrenti con meno anni di servizio, quali che fossero i percorsi professionali e i meriti acquisiti dall'uno e dagli altri.

Il criterio era nato come scudo a difesa dei magistrati schierati a sinistra o comunque appartenenti a correnti minoritarie che mai avrebbero avuto la forza di far nominare i loro candidati.

Chi ci credeva lo giustificava dicendo che, se lo si fosse abbandonato, i vertici della magistratura sarebbero stati designati senza eccezioni dalle correnti di maggioranza con grave danno per il pluralismo culturale del mondo giudiziario.

È probabile dunque che Sciascia vedesse nella nomina del Dr. Borsellino un vulnus a quel principio e un atto di arroganza delle correnti associative di centro e di destra, allora largamente maggioritarie.

Gli anni successivi dimostrarono quanto fosse sbagliato il ragionamento dello scrittore siciliano e come avesse scelto malissimo il bersaglio della sua polemica.

Paolo Borsellino era e continuò ad essere fino alla sua tragica fine uno dei massimi esperti giudiziari di Cosa nostra. Le inchieste di cui fu artefice, a partire da quella, condivisa con Giovanni Falcone, che portò al cosiddetto maxiprocesso di Palermo da cui derivò il primo vero riconoscimento della natura eversiva e dell'unitarietà del fenomeno mafioso, furono pietre miliari lungo il faticoso percorso della conoscenza e del contrasto al crimine organizzato.

Oggi, come è giusto, Paolo Borsellino viene ricordato come un eroe della Repubblica ma quando era ancora in vita dovette sopportare non poco ostracismo dalla sua stessa istituzione di appartenenza cui si aggiunse anche la critica feroce di Sciascia che lo trattò alla stregua di un arrampicatore senza meriti.

Sbagliato clamorosamente il bersaglio e altrettanto sbagliata l'idea che le postazioni antimafia potessero essere assegnate a chiunque purchè "più anziano senza demerito", che rimane della polemica di Sciascia?

Ci pare che sopravviva la sua intuizione di fondo.

Lo scrittore aveva compreso che nel sempre più ampio contenitore dell'antimafia poteva essere stipata mercanzia di ogni genere: allo slancio ideale di tanti magistrati impegnati con consapevolezza, competenza e rispetto delle regole nel contrasto al malaffare mafioso e senza altro interesse che esercitare al meglio le loro funzioni giudiziarie, si poteva affiancare un ben diverso ceto di magistrati interessati piuttosto al personale cursus honorum e al ritorno di immagine riservato a chi poteva vantare il blasone dell'antimafia.

Gli era ugualmente chiaro, e l'esempio ipotetico del sindaco lo testimonia, che un fenomeno analogo si stava già manifestando nell'ambito politico: c'era chi l'impegno antimafia lo realizzava concretamente con la buona amministrazione e chi invece puntava su vuoti proclami.

Non si può certo dire che la situazione di oggi sia cambiata in meglio.

Abbiamo visto magistrati candidarsi in elezioni di ogni ordine e grado, per lo più senza fortuna, su programmi la cui unica cifra identitaria è il loro impegno antimafia, anche quando quell'impegno ha prodotto risultati assai effimeri e discutibili.

Altri loro colleghi sono stati proiettati in postazioni di vertice in ogni sorta di istituzioni statali, non solo le più scontate – quelle del dicastero della Giustizia – ma ogni altra casella per la quale apparisse vantaggioso giocarsi la carta dell'impegno antimafia del designato, anche quando le attitudini richieste erano diverse da quelle maturate in Procure o Tribunali, sia pure di prima linea.

Abbiamo assistito alla nascita e al consolidamento di compagini politiche che hanno eletto a punto di riferimento ideologico il verbo di alcuni dei magistrati più esposti mediaticamente sul fronte dell'antimafia e hanno sostanzialmente delegato a costoro la determinazione della loro linea programmatica sui temi della giustizia.

Senza poi contare, perché anche questo abbiamo visto, il vasto fronte dei mass-media entusiasticamente schierati a sostegno di quello stesso verbo e pronti a difenderlo ad ogni costo, anche a dispetto di evidenze contrarie.

Tutto questo abbiamo visto.

Ci chiediamo se ne è valsa la pena.

L'ascesa di così tanti eroi della sesta ha reso migliore il nostro Paese, più efficiente e corretta la sua giustizia, più acute le strategie antimafia, più trasparente la pubblica amministrazione, più consapevole il dibattito sociale e più illuminata l'agenda politica?

Non siamo sicuri di essere nel giusto ma a occhio e croce ci pare di no.