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Sistemi disciplinari e soggetti apicali ex d.lgs. 231/2001

[Il presente articolo è stato pubblicato sul numero 2/2006 della rivista La Responsabilità Amministrativa delle Società e degli Enti. Si ringrazia l’editore per la gentile concessione e si rinvia al sito http://www.rivista231.it per ulteriori informazioni].

È noto che, nel disciplinare "la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato", il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, attribuisce un ruolo cruciale ai "modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi". In effetti, come hanno puntualmente riconosciuto la dottrina[1] e la giurisprudenza, "il modello è criterio di esclusione della responsabilità dell’ente ex art. 6, I comma, ed ex art. 7; è criterio di riduzione della sanzione pecuniaria ex art. 12; consente, in presenza di altre condizioni ..., la non applicazione di sanzioni interdittive ex art. 17; consente la sospensione della misura cautelare interdittiva emessa nei confronti dell’ente ex art. 49"[2].

Per garantire tali risultati esimenti ed attenuanti, peraltro, il modello deve essere non soltanto "adottato"[3], ma anche "efficacemente attuato" (art. 6, I comma, lett. a) e art. 7, II comma) e "l’efficace attuazione … richiede [tra l’altro] un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello" stesso, tanto nei confronti dei "soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza" (l’art. 7, IV comma, lett. b), quanto nei confronti dei "soggetti in posizione apicale", (art. 6, II comma, lett. e) cioè delle "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale", anche soltanto in via "di fatto" (art. 5, I comma, lett. b)[4].

In sintesi - sulla scia dell’esperienza statunitense, in cui "l’apparato sanzionatorio rappresenta ... il punto di forza di un compliance program"[5] (nella prospettiva "di una parziale privatizzazione dell’amministrazione della giustizia penale"[6]) - l’introduzione e/o l’implementazione di un (duplice) sistema disciplinare ad hoc costituisce un requisito essenziale dei modelli organizzativi, integrandone "quello che può essere definito il contenuto minimo"[7], con un vero e proprio "elemento strutturale"[8]. Tanto è vero che la giurisprudenza ha puntualmente negato ogni rilievo a modelli organizzativi privi di un adeguato sistema disciplinare (in particolare, "nei confronti degli amministratori, direttori generali e compliance officers")[9].

Ciononostante, come hanno rilevato le "associazioni rappresentative degli enti" nel tracciare le linee guida per l’elaborazione dei modelli organizzativi ai sensi dell’art. 6, III comma, "in ordine alle caratteristiche del sistema [disciplinare], il decreto legislativo non offre alcuna indicazione specifica, introducendo previsioni estremamente generali"[10]. Sicché spetta all’interprete la ricostruzione sistematica dei caratteri e dei contenuti del (duplice) sistema disciplinare prescritto dagli articoli 6 e 7, sopra citati.

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A proposito, facendo tesoro delle prime indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, (per approssimazioni progressive) si può affermare che:

1. "ovviamente deve trattarsi di un sistema sanzionatorio disciplinare interno che si aggiunge a quello eventuale esterno penale o amministrativo"[11], inteso sanzionare il contravventore del modello di organizzazione "indipendentemente dal fatto che da quella violazione sia scaturita la commissione di un reato"[12] (requisito della specificità e autonomia);

2. deve essere redatto per iscritto[13] e adeguatamente divulgato, in uno con il modello organizzativo, mediante una puntuale e capillare "informazione" e "formazione" dei destinatari[14], al di là della pubblicazione, "mediante affissione in luogo accessibile a tutti", specificamente prescritta dall’art. 7, I comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300[15] (salva la sanzionabilità in ogni caso dei "fatti il cui divieto risiede ... nella coscienza sociale quale minimum etico"[16], "riconoscibili come illeciti senza necessità di specifica previsione", in particolare se "contrari a norme di rilevanza penale"[17]);

3. "deve essere armonico e compatibile con le norme, legislative e contrattuali, che regolano il rapporto intrattenuto dall’ente con ciascuno dei soggetti ai quali si applica il modello"[18], in particolare per quanto riguarda "la tipologia delle sanzioni ed il relativo procedimento di accertamento e irrogazione"[19] (requisito della compatibilità);

4. non deve essere "flatus vocis, ma ... caratterizzato da misure concrete, idoneo a renderlo efficiente ... (requisito della idoneità)"[20];

5. tale idoneità si manifesta e si misura essenzialmente sul piano della funzione preventiva,

5.1. propria delle sanzioni disciplinari in generale, che "non sono assimilabili alle penali di cui all’art. 1382 Cod.Civ., e non hanno una funzione risarcitoria, ma, grazie ad una portata afflittiva innanzitutto sul piano morale, hanno essenzialmente la funzione di diffidare dal compimento di ulteriori violazioni (salva la funzione di assicurare una diretta tutela degli interessi del datore di lavoro, nel solo caso delle sanzioni estintive del rapporto)"[21];

5.2. e vieppiù propria dei sistemi sanzionatori in esame, data l’espressa finalizzazione ("a prevenire reati") dei modelli organizzativi cui sono coessenziali: sicché le sanzioni ... dovranno essere dotate ... della idoneità ... a svolgere ... una funzione deterrente ... avendo una specifica funzione preventiva e non meramente punitiva"[22].

Il punto merita di essere approfondito, per la fecondità delle sue implicazioni. In effetti occorre evidenziare che si tratta di una funzione preventiva essenzialmente indiretta e mediata, come implicano congruentemente

Ø la natura di "colpa di organizzazione" assunta a fondamento della responsabilità dell’ente[23], il quale si trova a rispondere non già obiettivamente, "per ricaduta automatica"[24], di un illecito altrui, ma, bensì, del proprio "colposo e negligente difetto di organizzazione ... che ha casualmente permesso o agevolato l’attività criminosa del ... soggetto organico"[25];

Ø la natura dolosa dei reati (almeno allo stato) tassativamente presupposti dal D.Lgs. 231/01. In effetti, in quanto tale l’atto doloso non è prevenibile, tant’è che lo stesso legislatore sconta l’ipotesi dell’elusione fraudolenta dei modelli organizzativi (art. 6, I comma, lett. c). Ciò che si può prevenire è l’occasione, anche remota, in cui l’atto doloso alligna, ovvero, ancora una volta, l’agevolazione colposa. In concreto, "ovviamente nessuno può escludere che si diano comportamenti individuali devianti, ..., ma si vuole ... almeno garantire che il sistema dell’impresa … non sia terreno di coltura di reati"[26].

6. In questa prospettiva ben si comprende come "il sistema disciplinare richiesto dal D.Lgs. 231 debba essere orientato a sanzionare, oltre i fatti che costituiscono reato, condotte che, di regola, sono prodromiche alla … commissione"[27] dello stesso o di un altro reato[28] (anzi, a ben vedere, più le seconde che le prime, rispetto alle quali il sistema disciplinare finirebbe per porsi come un pleonastico "doppione" dei preminenti precetti penali di riferimento, in spregio di quanto assunto sub 1). In effetti "nell’ambito dell’impresa ... taluni comportamenti illeciti - ma non sanzionati penalmente o in via amministrativa - o meramente irregolari potrebbero costituire le fasi preparatorie dell’illecito rilevante o rivelarsi strettamente funzionali"[29] alla sua commissione, ovvero comunque propiziatorie.

Orbene, tali condotte prodromiche non necessariamente sono ascrivibili allo stesso soggetto autore del reato e, in sé e per sé considerate, altrettanto non necessariamente integrano gravi illeciti. In effetti un malintenzionato, oltre che procurarsela, può approfittare dell’occasione inconsapevolmente offerta dalla negligenza altrui, e questa può essere anche banale; ovvero, specularmente, una violazione più seria può rimanere senza esiti criminosi, perché fortunatamente nessuno ne approfitta.

7. Il che spiega come i sistemi disciplinari previsti dal D.Lgs. 231/01 - nonostante la gravità dei reati di riferimento, comunque pacificamente degni di sanzioni espulsive - ben possano, e debbano, contemplare anche sanzioni conservative[30], per consentire "una reazione agli inadempimenti che non si ritenessero di gravità tale da determinare la risoluzione del rapporto"[31].

Né potrebbe essere altrimenti, dato che la stessa Corte Costituzionale ha sancito che "in generale l’esercizio di un potere disciplinare, nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato ... ovvero … autonomo o professionale ... deve rispondere al principio di proporzione ... che rappresenta una diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.), coniugato alla tutela del lavoro e della dignità del lavoratore (artt. 4 e 35 Cost., ed implica che il potere deve estrinsecarsi in modo coerente al fatto addebitato, per commisurare ad esso, ove ritenuto sussistente, la sanzione da irrogare". Sicché non sono ammissibili meccanismi sanzionatori che non consentano "di calibrare la giusta e proporzionata sanzione da irrogare", ovvero, come nella fattispecie denunciata, escludano la "possibilità di graduazione secondo la gravità del fatto addebitato [laddove] potrebbe esservi sproporzione tra [quest’ultimo] e la sanzione della perdita del posto di lavoro"[32].

8. Stando alla stessa lezione di costituzionalità, infine, l’applicazione dei sistemi disciplinari a presidio dei modelli organizzativi, così come qualunque "esercizio di un potere disciplinare, nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato ... ovvero ... autonomo o professionale ... deve rispondere ... alla regola del contraddittorio ... riferibile anch’essa ai medesimi valori costituzionali che supportano il principio di proporzione. [Tale regola] implica ... il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale - avendo conosciuto l’addebito per essergli stato previamente contestato - deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa; sicché ... è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola audiatur et altera pars"[33].

9. Infine, a tale "regola del corretto contraddittorio nel procedimento disciplinare è sicuramente connesso il principio di immutabilità della contestazione a garanzia effettiva del diritto di difesa ... dell’incolpato - nell’ambito degli specifici principi di correttezza e buona fede - ... che non deve venire pretermesso per consentire al datore di lavoro di modificare i fatti e/o il titolo della contestazione disciplinare ..."[34].

Così come alla stessa regola devono ritenersi connaturati a priori gli altri principi pretori della specificità[35] (che pure "costituisce una garanzia procedimentale desumibile del carattere generale del ’giusto procedimento’, ripetutamente riconosciuta dalla Corte Costituzionale come un principio di ’civiltà giuridica’"[36]) e della tempestività delle contestazioni disciplinari[37].

È evidente che si tratta degli stessi principi sanciti, rispettivamente, nell’art. 2106 Cod.Civ. e nei primi commi dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto "Statuto dei Lavoratori") con specifico riferimento al rapporto di lavoro subordinato. Ma essi assurgono al rango di principi fondamentali - di rango costituzionale[38], anzi di basilare "civiltà giuridica"[39] - e generali - comunque indiscriminatamente validi, come si è anticipato, "nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (diritto privato o di pubblico impiego), ovvero di lavoro autonomo o professionale", ogniqualvolta è configurabile "un rapporto di supremazia per cui un soggetto (normalmente, ma non necessariamente, il datore di lavoro) può, con un suo atto unilaterale, determinare conseguenze in senso lato negative nella sfera soggettiva di un altro soggetto (il prestatore di lavoro) in ragione di un comportamento negligente o colpevole di quest’ultimo"[40].

Il che risulta particolarmente rilevante per i sistemi disciplinari a presidio dei modelli organizzativi i quali, come si è anticipato, devono riguardare anche le "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione ... dell’ente" (art. 6, II comma, lett e) e I comma, lett. a); art. 5, I comma, lett. a), cioè, in concreto, gli amministratori, che (in quanto tali) intrattengono rapporti di lavoro autonomo con l’ente amministrato (o più precisamente un "rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile", come puntualmente risulta dal combinato disposto del terzo e del primo comma dell’art. 61 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cosiddetta "Legge Biagi").

10. Con particolare riguardo a tali soggetti apicali, infine, il sistema disciplinare deve essere presidiato da un apposito "organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo", con il "compito [tra l’altro] di vigilare su ... l’osservanza dei modelli" (art. 6, I comma, lett. b). Il che implica che l’Organismo di Vigilanza - pur non disponendo, salvo apposita delega aggiuntiva, di "poteri disciplinari o sanzionatori diretti"[41] - avrà il potere-dovere di "promozione" dell’esercizio del potere disciplinare da parte dell’organo statutariamente competente[42], ovvero da parte di "un organo collegiale ad hoc, di nomina assembleare, composto da soggetti di riconosciuta indipendenza e moralità"[43].

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Si tratta ora di applicare tali principi, innanzitutto, ai soggetti in posizione apicale di cui all’art. 5, I comma, lett. b), previa identificazione della categoria: secondo la dottrina, a tale nozione – da intendersi "in senso relativo, perché è evidente che solo l’amministratore unico o il consiglio di amministrazione nel suo complesso possono dirsi davvero all’apice della struttura societaria" - sono riconducibili "gli amministratori, i direttori generali, i preposti a sede secondarie e, in caso di organizzazione divisionale, i direttori di divisione (sempre che dotati di autonomia finanziaria e funzionale)"[44], compresi i "componenti del consiglio di gestione nel sistema dualistico e del consiglio di amministrazone in quello monistico"[45], nonché "il funzionario della società capogruppo - amministratore di una controllata" e "il capo di uno stabilimento - almeno tendenzialmente - a ciclo produttivo completo"[46], ovvero ancora "l’institore", con esclusione dei "sindaci"[47], dei (normali) "dirigenti", dei "quadri" e dei "procuratori e commessi"[48].

Incominciando con gli amministratori, il primo nodo interpretativo è stato ravvisato nel fatto che il D.Lgs. 231/2001 "impone la previsione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto del modello, senza curarsi delle possibili interferenze tra tale sistema e le sanzioni tipiche, in particolare della revoca e dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, previste dal diritto societario"[49].

In realtà il problema non è di interferenze ma, tutt’al più, di integrazione. In effetti,

Ø da una parte deve escludersi che l’azione di responsabilità sia riducibile al novero delle sanzioni disciplinari dei modelli organizzativi, sia perché, come si è anticipato sub 5.1, "le sanzioni disciplinari ... non hanno una funzione risarcitoria"[50], sia perché "molte violazioni degli obblighi degli amministratori [pur preludendo a, o integrando, reati di cui agli articoli 24 ss.] non determinano direttamente alcun danno né alla società, né ai terzi (si pensi, ad es., alla maggioranza degli obblighi aventi per oggetto adempimenti pubblicitari o formalità ...) e, talvolta, anzi, determinano dei vantaggi alla società"[51] (si pensi, ad es., a forme di aggiotaggio tese a provocare un sensibile incremento del prezzo dei titoli sociali)[52].

Ø d’altra parte a mente di quanto sopra anticipato sub 7, un sistema disciplinare armonico e completo non può esaurirsi nella sola sanzione espulsiva della revoca (certamente eccessiva a fronte di violazioni minori ad es. l’inadempimento di uno degli obblighi di informazione di cui all’art. 6, II comma, lett. d), per una mera svista, rimasta priva di alcun esito criminoso - violazioni ciononostante non del tutto trascurabili[53]).

Perciò - almeno nei confronti degli amministratori (ma anche dei dirigenti apicali, su cui infra) - il problema dell’individuazione della "tipologia delle sanzioni" e del "relativo procedimento di irrogazione" per il sistema disciplinare dei modelli organizzativi, non può essere risolto tramite il semplicistico "rinvio alle sanzioni previste per ciascun tipo di rapporto"[54], come invece è avvenuto in molti modelli organizzativi, pubblicati[55] e non.

Al contrario occorre integrare lo strumento tipico del diritto societario con la diretta previsione di una sequenza di sanzioni ad hoc, adeguatamente articolata "a seconda della gravità della violazione"[56]. Com’è stato rilevato dalla dottrina più attenta, "la materia è ... ancora da esplorare, sebbene esperienze disciplinari appartenenti ad altri settori regolamentati potrebbero essere suscettibili di proposizione nel campo specifico"[57].

A proposito è stato suggerito di prevedere "il richiamo formale in forma scritta, che censuri la violazione delle prescrizioni del modello"[58]; nonché, "meccanismi automatici di decadenza dalla carica sociale al sopravvenire di una causa che incida sui requisiti di onorabilità o professionalità eventualmente stabiliti statutariamente e collegati anche a comportamenti non conformi al modello; meccanismi automatici di sospensione dalla carica per un determinato periodo; meccanismi di sospensione dalla carica previa deliberazione del consiglio di amministrazione, al ricorrere di ipotesi oggettivamente determinate"; nonché ancora "altre misure sanzionatorie (ad esempio di spiccata natura reputazionale: si pensi al disconoscimento della qualità di amministratore indipendente pur senza revoca del mandato)"[59].

Il secondo nodo interpretativo in materia di sistemi sanzionatori per gli amministratori è stato ravvisato nell’apparente difficoltà, se non impossibilità, di ricorrere agli ordinari meccanismi di promulgazione della normativa disciplinare, tradizionalmente concepiti e collaudati in specifico riferimento al rapporto del lavoro subordinato; difficoltà a fronte della quale "l’unica soluzione percorribile è apparsa quella di esplicitare nel contratto individuale gli inadempimenti ritenuti rilevanti"[60] e le corrispettive "pene private e non aziendali", ricorrendo "al regime generale delle sanzioni di diritto comune ed innanzitutto gli articoli 1382 e segg. C.C. in materia di clausola penale"[61].

L’opzione esegetica – anche a prescindere dai problemi applicativi che induce sul piano pratico, in particolare per l’introduzione nei rapporti in corso, necessariamente consensuale - non mi sembra condivisibile. In effetti,

Ø da una parte i sistemi disciplinari che ci occupano trovano la loro fonte direttamente nell’art. 6, II comma, lett. e), del D.Lgs. 231/2001, che non fa il minimo cenno alla necessità di un’ulteriore implementazione contrattuale. A proposito, merita ricordare che lo stesso art. 7, I comma, dello "Statuto dei Lavoratori" - che pur esige che si applichi "quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano" - è ormai pacificamente interpretato nel senso di riconoscere, a titolo originario, il potere di predisposizione unilaterale del "codice disciplinare", mentre "è del tutto superata l’opinione secondo la quale, in mancanza di regolamentazione contrattuale [o individuale], il potere disciplinare non sia esercitabile"[62];

Ø d’altra parte, come si è anticipato "le sanzioni disciplinari, data la natura e la funzione particolare ..., ... non trovano il loro fondamento nelle regole generali dei rapporti contrattuali [e] non sono assimilabili alle penali di cui all’art. 1382 Cod.Civ."[63].

Dal punto di vista formale, invece, si può porre il problema dello strumento più acconcio per promulgare le sanzioni disciplinari riguardanti gli amministratori, ovvero perlomeno quelle che incidono, in tutto o in parte, sul loro status societario o sulla loro capacità gestionale: a proposito - data la riserva all’atto costitutivo e allo statuto della materia dei "poteri degli amministratori" e del "funzionamento della società", di cui all’art. 2328 Cod.Civ. - sembra preferibile la tesi dell’implementazione "a livello statutario"[64].

Da ultimo, in tema di responsabilità disciplinare degli amministratori, mi sembrano da coltivare i dubbi dottrinali "in ordine alla coerenza tra scopo di prevenzione dei reati e la prassi societaria ... di forme di copertura assicurativa a favore degli amministratori condizionate all’applicazione di sanzioni amministrative o penali nei confronti degli stessi"[65].

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Venendo poi ai direttori, la verifica di compatibilità di cui sopra sub 3, si pone in termini ancora più problematici, tale da far dubitare che sia stato tenuto in debita considerazione quel "valore essenziale dell’ordinamento giuridico di un paese civile" rappresentato dalla "coerenza tra le parti di cui si compone"[66].

In effetti, mentre l’art. 6, II comma, lett. e), inequivocabilmente esige l’introduzione di un sistema disciplinare ad hoc anche nei confronti di tali soggetti apicali, la prevalente giurisprudenza è attualmente orientata nel senso di ritenerli essenzialmente refrattari a qualsiasi forma di responsabilità e procedimento disciplinare, in ragione della "specialità"[67] del rapporto di lavoro dirigenziale (apicale).

La "genealogia"[68] della tesi è tanto remota, quanto caratterizzata da un andamento "pendolare": in estrema sintesi, dopo l’originaria esclusione dell’applicabilità ai dirigenti dell’art. 7 dello "statuto dei lavoratori"[69], si era assistito ad un deciso revirement giurisprudenziale, indotto dal "combinato disposto" degli effetti del riconoscimento della nozione "ontologica" del licenziamento disciplinare[70], da una parte e, dall’altra, della vis expansiva delle principali garanzie dello stesso art. 7, riconosciute espressione di fondamentali "principi di civiltà giuridica"[71], e perciò estensibili a qualsiasi area di recedibilità ad nutum[72]; revirement avallato dalla stessa Corte Costituzionale, che, pur assumendo lo "status particolare" del dirigente, aveva fatto comunque salva l’applicabilità della "tutela ex lege contro ... i licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedono il riconoscimento di garanzia procedimentale"[73].

Tuttavia, inopinatamente, la Suprema Corte ha ancora cambiato avviso, con la cruciale sentenza a sezioni unite del 29 maggio 1995, n. 6041[74], la cui massima esclude che le garanzie del contraddittorio di cui all’art. 7 Stat. Lav."riguardino il licenziamento del dirigente di aziende industriali" sul presupposto, per quanto qui rileva, che

a) "il dirigente è certamente un lavoratore subordinato, ma la sua subordinazione è di natura particolare", incentrata com’è sul "rapporto fiduciario", sicché "la figura ... mal si attaglia ad un rapporto disciplinare", del quale "il dirigente, almeno di regola, non è soggetto passivo ..., ma soggetto attivo";

b) ciò vale, in particolare, per le sanzioni conservative: "immaginare una lettera di richiamo o una multa o altra sanzione indirizzata a un dirigente, ..., è fuori dal verosimile e dalla realtà aziendale"[75];

c) quanto alle sanzioni espulsive, data la recedibilità ad nutum ex lege[76], neanche una motivazione[77] fondata su addebiti di inadempimento è concettualmente idonea "a trasformare il licenziamento stesso in licenziamento disciplinare"[78];

d) ma non basta: si tratta non soltanto di "rapporto privo di rapporto disciplinare", ma "anzi, a ben vedere, nel quale questo risulta - di per sé, salvo contraria espressa volontà collettiva - incompatibile";

e) perciò è definitivamente sintomatico che, "con eccezione dei contratti dei dirigenti delle aziende di credito ... per nessun altro settore ... è previsto un procedimento disciplinare o sono previste delle sanzioni disciplinari".

La giurisprudenza successiva si è perlopiù conformata al nuovo dictum negativo,

f) estendendolo ai corollari dell’immediatezza, della specificità e dell’immutabilità[79] della contestazione, nonché al principio di proporzionalità della sanzione di cui all’art. 2106 c.c.[80],

g) escludendone l’integrale derogabilità in via convenzionale (pena lo snaturamento del rapporto di lavoro dirigenziale)[81];

h) ma soprattutto sviluppandone un obiter dictum con il precisare che l’inapplicabilità "delle garanzie procedimentali ... si riferisce solo al dirigente ... che si trovi in posizione apicale nell’ambito dell’impresa e sia munito di ampio potere gestorio, tanto che lo stesso possa essere propriamente definito alter ego dell’imprenditore, ... [mentre la stessa] procedura si applica nei confronti ... della media e bassa dirigenza ..."[82].

Non è questa la sede per analizzare la fondatezza di tale distinguo, tanto criticato[83] quanto criticabile (anche per la sua incongrua ricaduta su altri fronti[84]), essendo sufficiente constatare che la conseguente nozione di dirigente apicale sottratto alla responsabilità e al procedimento disciplinare corrisponde, pressoché esattamente, a quella dei direttori generali e divisionali, prevista dall’art. 5, I comma, lett. a), del D.Lgs. 231/2001. Il che illumina la contraddizione sistematica adombrata in apertura di paragrafo, o più praticamente, il cortocircuito giuridico, tra l’onere (penale, e l’obbligo civile[85]) di istituire un sistema disciplinare ad hoc per i dirigenti apicali (art. 6, II comma, lett. e) e la tralatizia incompatibilità concettuale dell’uno rispetto al rapporto degli altri.

È questa la ragione per cui molti modelli organizzativi - quando non eludono il problema, tramite un vuoto rinvio alla contrattazione collettiva[86] (in realtà muta in materia disciplinare) – nella presunta "impossibilità di ricorrere a sanzioni disciplinari", ricorrono surrogatoriamente ad un regime di "pene private", tramite l’inserimento di apposite clausole nella contrattazione individuale[87].

A proposito, più che richiamare le critiche rivolte all’analoga soluzione per gli amministratori, mi sembra addirittura possibile sbarazzarsi del problema stesso: in effetti è proprio l’incompatibilità del rapporto dirigenziale con la responsabilità e il procedimento disciplinare a dover essere oggetto di radicale "ripensamento", se non altro in base all’inequivocabile prescrizione dell’art. 6, II comma, lett. e), del D.Lgs. 231/2001[88]. In altre parole, nel contrasto tra un orientamento giurisprudenziale basato su indizi più sociologici che giuridici[89] ed un netto dettato normativo sopravvenuto, è difficile dubitare della prevalenza del secondo (un bell’esempio del celeberrimo tratto di penna del legislatore che manda al macero volumi di giurisprudenza).

In realtà - al di là della sua inevitabile portata nello speciale dominio applicativo del D.Lgs. 231/2001, dove un sistema disciplinare nei confronti dei dirigenti apicali risulta non soltanto concepibile, ma addirittura doveroso - quello così offerto dall’art. 6, II comma, lett. e), ben può costituire, più in generale, l’argomento dirimente per consolidare e far prevalere un orientamento minoritario, ma non esiguo, che, più o meno consapevolmente, non si è mai arreso al dictum delle sezioni unite del 1995 ed ai suoi sviluppi.

Penso, in particolare, a Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, che, valorizzando i principi costituzionali sopra descritti sub 8, ha convincentemente affermato che "le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, commi secondo e terzo, legge 20 maggio 1970, n. 300, ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari, sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure alla indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato"[90]. Ma penso anche alle recenti pronunce che - pur senza confrontarsi con il problema della compatibilità tra rapporto dirigenziale e procedimento disciplinare ex art. 7 Stat. Lav. - ne hanno implicitamente scontato la soluzione positiva, applicando senz’altro il corollario della tempestività della contestazione disciplinare[91].

In conclusione, i dirigenti apicali ben possono - al di fuori - e debbono - nell’ambito applicativo del D.Lgs. 231/2001 - essere assoggettati ad un sistema disciplinare, comprensivo di sanzioni conservative[92] ed assistito dalle fondamentali garanzie procedimentali del contraddittorio (comunque applicabili in caso di licenziamento "ontologicamente disciplinare").



[1] - RORDORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, in Soc., 2001, 11, 1300.

[2] - Trib. Milano, ord. 20 settembre 2004, in Foro It., 2005, II, 528, in particolare 559; conforme Trib. Milano, ord. 28 ottobre 2004, ibidem, 269, in particolare 273.

[3] - In realtà, "la mera elaborazione di direttive e di linee guida di comportamento non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente ... Così delineato il modello potrà essere solo astrattamente idoneo a prevenire reati di cui al decreto, mentre è necessario che ... sia anche efficacemente attuato ... non solo attraverso verifiche periodiche dell’efficacia dello stesso, ma anche introducendo un sistema disciplinare idoneo a sanzionarne il mancato rispetto ... Solo un adeguato e specifico sistema disciplinare e sanzionatorio può, in effetti, garantire il rispetto concreto delle disposizioni e delle procedure contenute nel modello" (Linee guida dell’Associazione Bancaria Italiana per l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche, febbraio 2004, p. 38)

[4] - "Il sistema disciplinare deve avere riguardo all’attività sia dei vertici aziendali, sia delle persone sottoposte all’altrui direzione" (Linee Guida A.B.I. cit., p. 39). Nello stesso senso, in dottrina, cfr. IELO, Compliance programs: natura e funzione nel sistema della responsabilità degli enti. Modelli organizzativi e D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 113; ALBERTI, Fondamenti aziendali della responsabilità degli enti ai sensi dell’D.Lgs. n. 231 del 2001, in Soc., 2002, 5, 542; FAVA, Responsabilità degli enti e modelli organizzativi, in Dir.Prat.Lav., 2004, 35, 2279.

[5] - DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in Riv.It.Dir.Proc.Pen., 1995, 150 s.

[6] - GRAZIANO, I modelli organizzativo-preventivi e l’esperienza dei ’compliance program’, in Dir.Prat.Soc., 2002, 6-8, p. 31 e s., ove si precisa, richiamando la "dottrina Usa", che "l’apparato disciplinare adottato dall’azienda rappresenta, per questa teoria, una forza ausiliaria, un utile supporto che si affianca al sistema sanzionatorio governativo per perseguire le sue medesime finalità".

[7] - IELO, op. cit., 112

[8] - SFAMENI, La responsabilità delle persone giuridiche: Fattispecie e disciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società – D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 6, a cura di A. Alessandri, Milano, 2002, p. 65-102, in particolare, p. 87.

[9] - Trib. Milano, 20 settembre 2004, cit., 561; conformi, più in generale, Trib. Milano, 28 ottobre 2004, cit., 275; Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2004, in Dir.Prat.Soc., 2005, 6, 69, in particolare p. 70; Trib. Bari, ord. 18 aprile 2005, in www.rivista231.it.

[10] - Linee Guida A.B.I. cit., p. 39

[11] - Trib. Bari, 18 aprile 2005, cit.

[12] - STALLA, Reati societari presupposto della responsabilità amministrativa delle società: aspetti comuni e differenze rispetto alla disciplina fondamentale del D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, p. 143

[13] - In ossequio al "principio della pubblicità delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari" di cui all’art. 7, I comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (SFAMENI, op.cit., p. 81, par. 5.2) e, comunque, ai "diritti inviolabili" di difesa e dignità del lavoratore, di cui agli articoli 3, 24 e 35 della Costituzione (Corte Cost., 23 luglio 1991, n. 364, in Foro It., 1991, II, 2609)

[14] - L’art. 24, II comma, lett. b), del Progetto Grosso, ripreso e modificato dal D.Lgs. 231/2001, prevedeva tra i requisiti dei modelli "un’adeguata formazione e informazione del personale sugli aspetti rilevanti ai fini dell’osservanza della legge nello svolgimento dell’attività di organizzazione". Nonostante tali requisiti non compaiano nell’attuale formulazione del D.Lgs. 231/2001, le Linee Guida delle associazioni di categoria prevedono comunque l’informazione e la formazione dei destinatari come "due importanti requisiti del modello ai fini del suo buon funzionamento", aggiungendo, in particolare, che i relativi sistemi disciplinari "vanno espressamente inseriti nel regolamento disciplinare aziendale, se esistente, o comunque formalmente dichiarati vincolanti per tutti i dipendenti (ad esempio mediante una circolare interna o un comunicato formale), nonché esposti, così come previsto dall’art. 7, I comma, l. n. 300/1970" (così Linee Guida Confindustria, p. 20; conformi Linee Guida A.B.I., p. 39).

[15] - A proposito sono stati suggeriti "nell’applicazione pratica ..., oltre all’affissione in luogo accessibile a tutti, la consegna, ... di una copia del modello, includente il sistema disciplinare, da far firmare per ricevuta e presa visione" (SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e sistema disciplinare, inserto di Dir.Prat.Lav., 2005, 5, p. XI), nonché "l’organizzazione di corsi diretti a diffondere il contenuto" (FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, La responsabilità ’amministrativa’ degli enti ed i ’modelli di organizzazione e gestione’ di cui agli articoli 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001, in Riv.Dir.Comm., 2003, 1-4, p.185 s.; conforme IELO, op. cit., p. 113).

[16] - Così, per tutte, da ultimo, Cass. 13 settembre 2005, n. 18.130, che peraltro limita l’eccezione al principio di pubblicità preventiva alle "sanzioni espulsive", escludendola per le "sanzioni conservative".

[17] - Così, Cass. 9 febbraio 2004, n. 17.763, che in aperto contrasto con l’orientamento prevalente, del tutto condivisibilmente estende l’eccezione al principio di pubblicità preventiva anche alle "sanzioni conservative"

[18] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 185

[19] - IELO, op. cit., 113.

[20] - IELO, op. cit., p. 112. Cfr. anche FAVA, op. cit., p. 2279, per cui "l’adeguatezza della sanzione è da ritenersi fattore determinante per il corretto funzionamento del modello".

[21] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[22] - Linee Guida A.B.I., p. 39 e 41. Sulla funzione di "effettiva deterrenza" preventiva del sistema disciplinare del modello organizzativo insiste anche STALLA, Reati societari e presupposto della responsabilità amministrativa delle società: aspetti comuni e differenze rispetto la disciplina fondamentale del D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 143

[23] - A prescindere dalla natura del rapporto - di immedesimazione organica (degli apicali) ovvero di subordinazione (dei sottoposti) - tra l’ente e l’autore del reato. In effetti "il D.Lgs. n. 231/2001 estende ... alla responsabilità dell’ente per i reati commessi da soggetti in posizione apicale il modello della responsabilità per colpa organizzativa costruito dalla Commissione Grosso, seguendo i modelli anglosassoni, piuttosto che quello francese, con esclusivo riferimento alla responsabilità di soggetti sottoposti"; al contrario, per i soggetti apicali il progetto della stessa Commissione Grosso prevedeva che "l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell’organizzazione, [consentisse] di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione stessa" (FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 167 e 169, citando la relazione della stessa Commissione Grosso)

[24] - Ovvero par ricochet, come previsto dall’art. 121-2 del codice penale francese del 1994. SFAMENI, op. cit., p. (par. 1) sottolinea "il potenziale effetto perverso di una responsabilità penale delle società di tipo oggettivo (strict vicarious liability): l’effetto, cioè, di disincentivo all’adozione di misure di prevenzione e controllo ... qualora il modello di imputazione della responsabilità sia svincolato dal criterio di diligenza e, dunque, dalla colpa".

[25] - BARTOLOMUCCI, Il Commento a Trib. Milano, 25 gennaio 2005, in Soc., 2005, 11, 1444 s.. Nello stesso senso cfr. Trib. Roma, ord. 22 novembre 2002, in Foro It., 2004, II, 318, in particolare 326; Trib. Salerno, ord. 28 marzo 2003, in Foro It., 2004, II, 435, in particolare 452; Trib. Torino, 28 gennaio 2004, e in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 187; Trib. Torino, 10 febbraio 2005, in www.rivista 231.it. In dottrina cfr., ex multis, PALIERO, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere (et puniri) potest, in Corr. Giur., 2001, 7, 846 s. e SFAMENI, op. cit., p. 66-67, con ampi rinvii alla conforme dottrina anglosassone in materia di compliance programs; BEVILACQUA, I presupposti della responsabilità da reato degli enti, in I modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001 - Etica d’impresa e punibilità degli enti, Milano, 2005, p. 121 s. e 140 ss.; LUNGHINI, L’idoneità e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001, ibidem, p. 253 s..

[26] - RORDORF, op. cit., p. 1300. Conforme, SFAMENI, op. cit., p. (par. 6).

[27] - IELO, op. cit., p. 113. Cfr. anche LUNGHINI, op. cit., p. 265, per cui "scopo delle cautele [dei modelli organizzativi] è di agire sull’ipotizzato meccanismo di produzione dell’evento impedendo il verificarsi di accadimenti, prodromici rispetto all’evento lesivo, che rappresentano ’sotto-eventi’ dei decorsi causali tipicamente alla base della realizzazione dell’evento astratto previsto da una fattispecie penale".

[28] - In effetti devono essere prvenute anche "condotte … in materia di frode fiscale o di false comunicazioni sociali, ancorché non previste tra i presupposti della responsabilità dell’ente o non punibili per difetto di soglie quantitative", in quanto "operazioni idonee alla creazione di disponibilità extracontabili" e quindi occasione di condotte corruttive (IELO, op. cit., p. 105 e 111).

[29] - SFAMENI, op. cit., p. 75-76.

[30] - Il punto è stato scarsamente considerato dalla dottrina e dalle linee guida, soprattutto per quanto riguarda il, pur condiviso, "requisito di compatibilità" di cui sopra sub 3 (si limitano a porre il problema FURLAN e STANCHI, Rapporto di dirigenza e responsabilità, Guida al Lav., 2004, 41, 15 s.). I fugaci accenni in termini si limitano perlopiù ad assumere come premessa incidentale a diversi fini argomentativi, a mo’ di obiter dictum, che "le violazioni minori, per esempio la violazione degli obblighi procedimentale del modello [siano] accompagnate da sanzioni conservative e dunque diverse dal licenziamento" (FIGURATI, Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: aspetti lavoristici, in Giur.Piem., 2002, 1, 36; cfr. anche Linee Guida A.B.I., p. 40 s.)

[31] - Linee Guida A.B.I., p. 40.

[32] - Così, in massima e in motivazione (con rinvio alla giurisprudenza costituzionale conforme), Corte Cost., 29 maggio 1995, n. 220, in Foro It., 1996, I, 47. Conforme, in motivazione, Cass. Sez. Un., 29 maggio 1995, n. 6041 in Foro It., 1995, I, 1778, per cui "considerare il licenziamento come unica sanzione evidentemente ... darebbe luogo ad una serie di incongruenze, non ultima quella di impedire al giudice di esercitare un controllo sulla adozione di detta misura estrema, secondo un adeguato criterio di proporzionalità". Cfr. anche, incidentalmente, Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, in Lav. Giur., 2003, 8, 735.

[33] - Così, ancora in massima e in motivazione (con rinvio alla giurisprudenza costituzionale conforme), Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220, cit.. Conformi Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit. e Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, in Dir.Prat.Lav., 2005, 38, 2094.

[34] - Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, cit., ove l’affermazione è argomentata invocando e sviluppando la citata lezione di Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220.

[35] - Su cui cfr., da ultimo, Cass. 30 giugno 2005, n. 13.998, per cui "nell’esercizio del potere disciplinare la contestazione dell’addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata l’immutabilità degli stessi fatti anche ai fini del pieno svolgimento del contraddittorio".

[36] - Così, puntualmente, Cass. 21 aprile 2005, n. 8303.

[37] - Su cui cfr., da ultimo, Cass. 11 gennaio 2006, n. 241, in Guida al Lav., 2006, 8, 35, per cui "la ratio del principio di immediatezza della contestazione disciplinare va individuata nell’esigenza che siano osservate le regole della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, le quali non permettono all’imprenditore di procrastinare la contestazione medesima, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore").

[38] - Conformi Corte Cost., 30 novembre 1982, n. 204, in Foro It., 1982, I, 2981 e Corte Cost. 23 luglio 1991, n. 364, in Foro It., 1991, II, 2609

[39] - Corte Cost. 25 luglio 1989 n. 427, in Foro It., 1989, I, 2685

[40] - Così, ancora, Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220, cit.. e, Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, cit.. Cfr. anche Cass. 21 aprile 2005, n. 8303.

[41] - SFAMENI, op. cit., p. 91, ove è precisato che "ciò, peraltro, non toglie che rientri nell’ambito dell’autonomia negoziale e organizzativa dell’organo amministrativo la facoltà, non il dovere, di delegare all’organismo di vigilanza poteri decisionali e di intervento più incisivi", in particolare in materia disciplinare.

[42] - Linee Guida A.B.I., p. 24, e Linee Guida Confindustria, p. 27. In dottrina cfr. FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 173; IELO, op. cit., p. 113; STALLA, op. cit., p. 145, ove è ipotizzata "una previsione statutaria che conferisca al [l’organismo di vigilanza] il diritto-dovere, non solo di partecipare all’assemblea dei soci, ma anche di chiederne la convocazione per la segnalazione e la deliberazione su questioni rientranti nelle proprie funzioni di vigilanza".

[43] - SFAMENI, op. cit., p. 101, ove è condiviso il suggerimento in tal senso del modello di codice etico redatto dall’ASSOSIM, con Circolare n. 40 del 29 maggio 2002.

[44] - RORDORF, op. cit., p. 1299. Conformi, BEVILACQUA, op. cit., p. 137 S.; FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 172. In giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, ord. 27 aprile 2004, in Foro It., 2004, 434, che ha considerato "manager con posizione apicale ... un direttore esecutivo"; nonché, più genericamente, cfr. Trib. Salerno, 28 marzo 2003, in Foro It., 2004, II, 435, in particolare 452.

[45] - STALLA, op. cit., p. 138.

[46] - PALIERO, op. cit., p. 847

[47] - BEVILACQUA, op. cit., p. 137; STALLA. op. cit., p. 138.

[48] - SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. VI. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, 27 aprile 2004, cit. Che ha considerato "sottoposto" un "direttore commerciale", escludendolo a contrario dalla categoria degli apicali

[49] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 171, ove pure non è proposta alcuna soluzione interpretativa della "incongruenza"; anzi, nella successiva p. 185, dopo aver predicato l’esigenza di compatibilità del sistema sanzionatorio con il regime dei vari rapporti interessati, inopinatamente, quanto semplicisticamente, è affermato che "la soluzione più agevole pare essere il rinvio alle sanzioni previste per ciascun tipo di rapporto". Cfr. BARTOLOMUCCI, Responsabilità amministrativa dell’ente: l’adozione di modelli organizzativi, in Dir.Prat.Soc., 2002, 17, p. 16.

[50] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[51] - BONELLI, Gli obblighi e la responsabilità degli amministratori, in Trattato delle Società per Azioni diretto da Colombo e Portale, vol. 4, Amministratori - Direttore generale, 1991, Torino, p. 327.

[52] - Piuttosto merita rilevare che l’azione di responsabilità può riguardare i modelli organizzativi sotto un diverso profilo. In effetti, l’adozione di questi ultimi, pur rappresentando pressoché pacificamente un onere sul piano penalistico, rappresenta invece un vero e proprio obbligo sul piano civilistico, a mente dell’art. 2381, III e V comma, Cod.Civ., che impongono al consiglio di amministrazione e agli organi delegati, rispettivamente, di valutare e curare un adeguato "assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società", in relazione alla "natura e alle dimensioni dell’impresa": il che inevitabilmente include - in rapporto genere/specie, ovvero insieme/sottoinsieme - l’adozione di un "idoneo modello di organizzazione", "in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta" (artt. 6, I comma, e 7, III comma). In altre parole, "il modello di organizzazione potrebbe configurarsi anche come modello di corporate governance" e "rappresentare l’esatto adempimento di un obbligo di corretta gestione dell’impresa", "quale presupposto di responsabilità civile degli amministratori" (SFAMENI, op. cit., p. 75 s.), sicché "l’amministratore [che] non abbia una responsabilità diretta ed immediata ... nell’illecito penale, ... ben può comunque rispondere a livello civile per non avere posto in essere un modello organizzativo e amministrativo idoneo" (DE CRESCENZO, I profili di responsabilità degli amministratori nei confronti delle società, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 168)

[53] - Come l’inapplicabilità della revoca e l’assenza di sanzioni conservative proporzionate indurrebbe inevitabilmente a fare, svilendo l’efficacia preventiva delle corrispondenti regole dei modelli organizzativi.

[54] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 185; IELO, op. cit., p. 113.

[55] - Cfr. buona parte di quelli sommariamente descritti da MONESI, I modelli organizzativi in rete: le società dello S&P MIB, in I modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001 - Etica d’impresa e punibilità degli enti, Milano, 2005, p. 457.

[56] - Modello di organizzazione, gestione e controllo suggerito dall’A.N.C.E. come standard di riferimento, p. 7. Conformi, sia pure genericamente, Linee Guida A.B.I.; sul punto tacciono, invece, le Linee Guida Confindustria.

[57] - SFAMENI, op. cit., p. 100 s., ove, a titolo esemplificativo, è richiamato "l’istituto della sospensione ... conosciuto nell’ambito del diritto bancario e specificamente disciplinato dalla Banca d’Italia, con proprie istruzioni"

[58] - Modello di organizzazione standard A.N.C.E., p. 7 e 8, ove sono aggiunte "la sospensione dalla carica e dalla compenso per un periodo compreso fra un mese a sei mesi, per violazioni particolarmente gravi, reiterate o molteplici; la proposta o decisione di revoca dalla carica, in caso di violazioni di eccezionale gravità".

[59] - SFAMENI, op. cit., p. 101 s..

[60] - NICOTERA, Modelli organizzativi e gestionali: l’esperienza di ASSTRA, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 227.

[61] - SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. XIV.

[62] - Così, per tutti, MATTAROLO, Il potere disciplinare, in Diritto del Lavoro - Commentario diretto da Franco Carinci, Vol. II, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento a cura di C. Cester, 1998, Torino, p.759, con ampio resoconto della giurisprudenza in materia.

[63] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[64] - SFAMENI, op. cit., p. 100. Cfr. anche STALLA, op. cit., p. 145, ove è additata "una previsione statutaria che conferisca al [l’organismo di vigilanza] il diritto - dovere, non solo di partecipare all’assemblea dei soci, ma anche di chiederne la convocazione per la segnalazione e la deliberazione su questioni rientranti nelle proprie funzioni di vigilanza", tra le quali, come si è visto, rientra la promozione dell’azione disciplinare nei confronti degli amministratori.

[65] - SFAMENI, op. cit., p. 101. Cfr. anche BARTOLOMUCCI, op. cit., p. 13; nonché DE CRESCENZO, op. cit., p. 173, il quale, specularmente, non esclude addirittura la rivalsa societaria nei confronti degli amministratori in esito al pagamento delle sanzioni amministrative (pecuniarie) di cui agli artt. 24 e seguenti del D.Lgs. 231/2001.

[66] - Corte Cost. 30 novembre 1982, n. 204, cit..

[67] - In vario modo ed a vari fini ripetutamente affermato dallo stesso giudice delle leggi: cfr. Corte Cost.,6 luglio 1972, n. 121, in Mass.Giur.Lav., 1972, 274; Corte Cost., 22 maggio 1987, n. 180; Corte Cost., 28 luglio 1988, n. 935, in Mass.Giur.Lav., 1988, 619; Corte Cost., 26 ottobre 1992, n. 404.

[68] - Così, icasticamente, DEL PUNTA, Il valzer delle tutele: ancora su art. 7 st. lav., recesso ad nutum e licenziamento del dirigente, in Mass.Giur.Lav., 2003, p. 681.

[69] - Cass. 1 settembre 1987, n. 7169; Cass. 28 settembre 1988, n. 5260; Cass. 3 febbraio 1989, n. 681; Cass. 11 febbraio 1989, n. 854; Corte Cost., 28 luglio 1988, n. 935, cit.

[70] - Cass. Sez. Un., 1 giugno 1987, n. 4823, in Riv.Giur.Lav., 1987, II, 221.

[71] - Corte Cost., 25 luglio 1989, n. 427, cit.

[72] - Cass. 10 febbraio 1988, n. 1420, in Not.Giur.Lav., 1988, 324; Cass. 10 febbraio 1998, n. 1426, in Foro It., 1989, I, 2248; Cass. 11 maggio 1990, n. 4072 in Not.Giur.Lav., 1990, 684 Cass. 28 novembre 1991, n. 12.758, in Foro It., 1991, 381; Cass. 6 luglio 1992, n. 8205, in Mass.Giur.Lav., 1992, 374; Cass. 13 novembre 1992, n. 12.223, ivi, 1993, 213 Cass. 17 marzo 1993, n. 3146, in Dir.Prat.Lav., 1993, 1398; Cass. 9 giugno 1993, n. 6410, ibidem, 2340; Cass. 18 febbraio 1994, n. 1561, in Mass.Giur.Lav., 1994, 200; Cass. 15 febbraio 1995, n. 1641, in Foro It., 1995, 1778

[73] - Corte Cost., 24 giugno 1992, n. 309, in Foro It., 1992, I, 2, 2321

[74] - Edita, ex multis, in Foro It., 1995, I, 1778

[75] - L’inconcepibilità di sanzioni conservative nei confronti dei dirigenti è stata poi ribadita incidentalmente da Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934, in Mass.Giur.Lav., 1997, 69 e in Foro It., 1997, I, 839, e da Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, in Lav.Giur., 2003, 8, 743

[76] - L’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, limitandone la portata ai "prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio", esclude a contrario la categoria dei dirigenti dall’applicabilità della disciplina vincolistica dei licenziamenti, relegandola al regime codicistico, del recesso acausale, condizionato esclusivamente alla prestazione del preavviso, di cui all’art. 2218.

[77] - Normalmente imposta dalla contrattazione collettiva, ai fini del riconoscimento della "indennità supplementare" in caso di licenziamento riconosciuto "ingiustificato"

[78] - In altre parole la "procedura ... disciplinare non ha costrutto in un rapporto che, per legge, e risolubile ad nutum ex art. 2118 c.c., senza alcuna necessità di motivazione, in termini di piena libertà datoriale" (così, per tutte, Cass. 11 febbraio 1998, n. 1434 in Lav.Giur., 1998, 8, 673).

[79] - Dichiarati inapplicabili ai dirigenti da Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934 cit.; Cass. 1 aprile 1999, n. 3148, in Foro It., 1999, I, 1793 e in Riv.It.Dir.Lav., 1999, II, 817; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 17 gennaio 2005, n. 775.

[80] - Dichiarato inapplicabile ai dirigenti da. Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934 cit.; e, incidentalmente, Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.

[81] - In particolare non è consentita "una completa omologazione ..., neanche previe convenzionale, della tutela del dirigente a quella degli altri lavoratori subordinati, data la [sua] peculiare collocazione e specialità, soprattutto per la rilevanza del profilo fiduciario" (Cass. 20 novembre 1998, n. 11.765; conformi Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 1 aprile 1999, n. 3148, cit.; Cass. 21 marzo 1998, n. 3000, in Foro It., I, 1254; Cass. 25 novembre 1996, n. 10.455, in Mass.Giur.Lav., 1997, 69).

[82] - Così, in particolare, Cass. 11 febbraio 1998, n. 1834 cit.; conformi Cass. 27 novembre 1997, n. 12.001, in Mass.Giur.Lav., 1998, 258; Cass. 26 febbraio 2000, n. 2192; Cass. 18 luglio 2001, n. 9715; Cass. 21 luglio 2001, n. 9950; Cass. 15 novembre 2001, n. 14.230, in Or.Giur.Lav., 2002, 61; Cass. e 16 aprile 2002, n. 5471; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 13 maggio 2005, n. 10.058, cit.; Cass. 8 novembre 2005, n. 21.673, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 277.

[83] - Cfr., da ultimo, DEL PUNTA, op. cit., p. 685, per cui la giurisprudenza in materia ha istituito, "per via schiettamente interpretativa ... una nuova fattispecie astratta, dedotta per scissione del tipo legale unitariamente inteso ..., [senza] solidi argomenti" di suffragio; nonché MANNACIO, Tutela dei dirigenti e sanzioni disciplinari, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 271, per cui si tratterebbe di "distinzione che ... normativamente non esiste". In giurisprudenza cfr. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit.

[84] - Sotto forma di limitazione dell’applicabilità dell’art. 10 della L. 604/1966 ai soli dirigenti apicali, e conseguente complementare espansione della "tutela reale" dell’art. 18 St. Lav. ai medi e bassi dirigenti: cfr. Cass. 12 novembre 1999, n. 12.571, in Foro It., 2000, I, 753; Cass. 15 novembre 2001, n. 14.230; Cass. 9 aprile 2003, n. 5526, in Mass.Giur.Lav., 2003, 676; Cass. 28 maggio 2003, n. 8486; Cass. 9 agosto 2004, n. 15.351, in Lav.Giur., 2005, 6, 556; Cass. 8 novembre 2005, n. 21.673, cit.

[85] - Cfr. nota n. 52

[86] - Cfr. buona parte di quelli sommariamente indicati da MONESI, op. cit., p. 456 ss.

[87] - NICOTERA, op. cit., p. 227.

[88] - Siccome rilevato, per primo, da MANNACIO, Osservazioni sul licenziamento disciplinare dei dirigenti (e su licenziamento disciplinare in generale), in Mass.Giur.Lav., 2003, 7, 545; conformi, SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. X; nonché, sia pure dubitativamente, FURLAN e STANCHI, op. cit., p. 16.

[89] - In effetti, come è stato prontamente rilevato, "entrambe le affermazioni [che - a) non esiste un potere disciplinare ... nei confronti del dirigente; b) ai dirigenti d’azienda non si applica l’art. 7 dello statuto dei lavoratori] trovano origine e fondamento, non già in una specifica previsione normativa di fonte legale, ma nella preliminare costruzione del dirigente come alter ego dell’imprenditore" (AMOROSO, Le sezioni unite mutano giurisprudenza in ordine al licenziamento disciplinare del dirigente d’azienda: incertezze interpretative e dubbi di costituzionalità, in Foro It., 1995, I, 1778). Quanto all’argomento dell’assenza di codici disciplinari di fonte contrattuale collettiva, nella misura in cui traspone sul piano prescrittivo un rilievo meramente descrittivo, non sembra poter fondare la conclusione dell’inammissibilità della responsabilità disciplinare dei dirigenti, se non cadendo nel vizio teoretico della cosiddetta "fallacia deduttivistica". Così non è stato ravvisato "motivo per escludere la possibilità che vengano comminate e irrogate al lavoratore anche sanzioni a carattere conservativo, nel rispetto delle regole poste in proposito dell’art. 7 St. Lav.. Che poi questo nella quasi totalità dei casi non accada, perché i contratti collettivi non lo prevedono e la natura particolare del rapporto fa sì che alle mancanze minori si preferisca reagire in forme non punitive ... è tutt’altro discorso" (ICHINO, Il contratto di lavoro, vol. III, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2003, p. 366; conforme AMOROSO, op. cit., p. 1014).

[90] - La pronuncia è edita in Lav.Giur., 2003, 8, 735. Conformi: nella giurisprudenza di merito,Trib. Milano, 16 dicembre 1999, in Lav.Giur., 2000, 4, 375; Trib. Roma, 16 ottobre 2003, in Guida al Dir., 2004, 24, 62; Trib. Prato, 24 gennaio 2005, in D&L, 2005, 897; in dottrina (da ultimo) DEL PUNTA, op. cit., p. 686 s.; ICHINO, op. cit., p. 366 ss.; MANNACIO, Tutela dei dirigenti e sanzioni disciplinari, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 270. Cfr. anche Cass. 13 maggio 2005, n. 10.058, cit., la quale, pur scontando l’inapplicabilità ai dirigenti dell’art. 7 Stat. Lav., finisce per applicarne comunque le regole principali - preventiva contestazione e diritto di difesa, oltre che immutabilità della contestazione - sul presupposto che si tratti di principi fondamentali che prescindono da specifiche previsioni normative e, anzi, prevalgano su quelle eventuali "divergenti ... che sarebbero comunque dissonanti rispetto al modello prefigurabile in base al combinato disposto degli articoli tre e 24 della Costituzione".

[91] - Cfr., Cass. 22 settembre 2005, n. 18.620, commentata in Guida al Lav., 2005, 47, 18.

[92] - Cfr., rispettivamente, ICHINO, op. cit., p. 366, e FURLAN e STANCHI, op. cit., p. 16.

[Il presente articolo è stato pubblicato sul numero 2/2006 della rivista La Responsabilità Amministrativa delle Società e degli Enti. Si ringrazia l’editore per la gentile concessione e si rinvia al sito http://www.rivista231.it per ulteriori informazioni].

È noto che, nel disciplinare "la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato", il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, attribuisce un ruolo cruciale ai "modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi". In effetti, come hanno puntualmente riconosciuto la dottrina[1] e la giurisprudenza, "il modello è criterio di esclusione della responsabilità dell’ente ex art. 6, I comma, ed ex art. 7; è criterio di riduzione della sanzione pecuniaria ex art. 12; consente, in presenza di altre condizioni ..., la non applicazione di sanzioni interdittive ex art. 17; consente la sospensione della misura cautelare interdittiva emessa nei confronti dell’ente ex art. 49"[2].

Per garantire tali risultati esimenti ed attenuanti, peraltro, il modello deve essere non soltanto "adottato"[3], ma anche "efficacemente attuato" (art. 6, I comma, lett. a) e art. 7, II comma) e "l’efficace attuazione … richiede [tra l’altro] un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello" stesso, tanto nei confronti dei "soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza" (l’art. 7, IV comma, lett. b), quanto nei confronti dei "soggetti in posizione apicale", (art. 6, II comma, lett. e) cioè delle "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale", anche soltanto in via "di fatto" (art. 5, I comma, lett. b)[4].

In sintesi - sulla scia dell’esperienza statunitense, in cui "l’apparato sanzionatorio rappresenta ... il punto di forza di un compliance program"[5] (nella prospettiva "di una parziale privatizzazione dell’amministrazione della giustizia penale"[6]) - l’introduzione e/o l’implementazione di un (duplice) sistema disciplinare ad hoc costituisce un requisito essenziale dei modelli organizzativi, integrandone "quello che può essere definito il contenuto minimo"[7], con un vero e proprio "elemento strutturale"[8]. Tanto è vero che la giurisprudenza ha puntualmente negato ogni rilievo a modelli organizzativi privi di un adeguato sistema disciplinare (in particolare, "nei confronti degli amministratori, direttori generali e compliance officers")[9].

Ciononostante, come hanno rilevato le "associazioni rappresentative degli enti" nel tracciare le linee guida per l’elaborazione dei modelli organizzativi ai sensi dell’art. 6, III comma, "in ordine alle caratteristiche del sistema [disciplinare], il decreto legislativo non offre alcuna indicazione specifica, introducendo previsioni estremamente generali"[10]. Sicché spetta all’interprete la ricostruzione sistematica dei caratteri e dei contenuti del (duplice) sistema disciplinare prescritto dagli articoli 6 e 7, sopra citati.

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A proposito, facendo tesoro delle prime indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, (per approssimazioni progressive) si può affermare che:

1. "ovviamente deve trattarsi di un sistema sanzionatorio disciplinare interno che si aggiunge a quello eventuale esterno penale o amministrativo"[11], inteso sanzionare il contravventore del modello di organizzazione "indipendentemente dal fatto che da quella violazione sia scaturita la commissione di un reato"[12] (requisito della specificità e autonomia);

2. deve essere redatto per iscritto[13] e adeguatamente divulgato, in uno con il modello organizzativo, mediante una puntuale e capillare "informazione" e "formazione" dei destinatari[14], al di là della pubblicazione, "mediante affissione in luogo accessibile a tutti", specificamente prescritta dall’art. 7, I comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300[15] (salva la sanzionabilità in ogni caso dei "fatti il cui divieto risiede ... nella coscienza sociale quale minimum etico"[16], "riconoscibili come illeciti senza necessità di specifica previsione", in particolare se "contrari a norme di rilevanza penale"[17]);

3. "deve essere armonico e compatibile con le norme, legislative e contrattuali, che regolano il rapporto intrattenuto dall’ente con ciascuno dei soggetti ai quali si applica il modello"[18], in particolare per quanto riguarda "la tipologia delle sanzioni ed il relativo procedimento di accertamento e irrogazione"[19] (requisito della compatibilità);

4. non deve essere "flatus vocis, ma ... caratterizzato da misure concrete, idoneo a renderlo efficiente ... (requisito della idoneità)"[20];

5. tale idoneità si manifesta e si misura essenzialmente sul piano della funzione preventiva,

5.1. propria delle sanzioni disciplinari in generale, che "non sono assimilabili alle penali di cui all’art. 1382 Cod.Civ., e non hanno una funzione risarcitoria, ma, grazie ad una portata afflittiva innanzitutto sul piano morale, hanno essenzialmente la funzione di diffidare dal compimento di ulteriori violazioni (salva la funzione di assicurare una diretta tutela degli interessi del datore di lavoro, nel solo caso delle sanzioni estintive del rapporto)"[21];

5.2. e vieppiù propria dei sistemi sanzionatori in esame, data l’espressa finalizzazione ("a prevenire reati") dei modelli organizzativi cui sono coessenziali: sicché le sanzioni ... dovranno essere dotate ... della idoneità ... a svolgere ... una funzione deterrente ... avendo una specifica funzione preventiva e non meramente punitiva"[22].

Il punto merita di essere approfondito, per la fecondità delle sue implicazioni. In effetti occorre evidenziare che si tratta di una funzione preventiva essenzialmente indiretta e mediata, come implicano congruentemente

Ø la natura di "colpa di organizzazione" assunta a fondamento della responsabilità dell’ente[23], il quale si trova a rispondere non già obiettivamente, "per ricaduta automatica"[24], di un illecito altrui, ma, bensì, del proprio "colposo e negligente difetto di organizzazione ... che ha casualmente permesso o agevolato l’attività criminosa del ... soggetto organico"[25];

Ø la natura dolosa dei reati (almeno allo stato) tassativamente presupposti dal D.Lgs. 231/01. In effetti, in quanto tale l’atto doloso non è prevenibile, tant’è che lo stesso legislatore sconta l’ipotesi dell’elusione fraudolenta dei modelli organizzativi (art. 6, I comma, lett. c). Ciò che si può prevenire è l’occasione, anche remota, in cui l’atto doloso alligna, ovvero, ancora una volta, l’agevolazione colposa. In concreto, "ovviamente nessuno può escludere che si diano comportamenti individuali devianti, ..., ma si vuole ... almeno garantire che il sistema dell’impresa … non sia terreno di coltura di reati"[26].

6. In questa prospettiva ben si comprende come "il sistema disciplinare richiesto dal D.Lgs. 231 debba essere orientato a sanzionare, oltre i fatti che costituiscono reato, condotte che, di regola, sono prodromiche alla … commissione"[27] dello stesso o di un altro reato[28] (anzi, a ben vedere, più le seconde che le prime, rispetto alle quali il sistema disciplinare finirebbe per porsi come un pleonastico "doppione" dei preminenti precetti penali di riferimento, in spregio di quanto assunto sub 1). In effetti "nell’ambito dell’impresa ... taluni comportamenti illeciti - ma non sanzionati penalmente o in via amministrativa - o meramente irregolari potrebbero costituire le fasi preparatorie dell’illecito rilevante o rivelarsi strettamente funzionali"[29] alla sua commissione, ovvero comunque propiziatorie.

Orbene, tali condotte prodromiche non necessariamente sono ascrivibili allo stesso soggetto autore del reato e, in sé e per sé considerate, altrettanto non necessariamente integrano gravi illeciti. In effetti un malintenzionato, oltre che procurarsela, può approfittare dell’occasione inconsapevolmente offerta dalla negligenza altrui, e questa può essere anche banale; ovvero, specularmente, una violazione più seria può rimanere senza esiti criminosi, perché fortunatamente nessuno ne approfitta.

7. Il che spiega come i sistemi disciplinari previsti dal D.Lgs. 231/01 - nonostante la gravità dei reati di riferimento, comunque pacificamente degni di sanzioni espulsive - ben possano, e debbano, contemplare anche sanzioni conservative[30], per consentire "una reazione agli inadempimenti che non si ritenessero di gravità tale da determinare la risoluzione del rapporto"[31].

Né potrebbe essere altrimenti, dato che la stessa Corte Costituzionale ha sancito che "in generale l’esercizio di un potere disciplinare, nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato ... ovvero … autonomo o professionale ... deve rispondere al principio di proporzione ... che rappresenta una diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.), coniugato alla tutela del lavoro e della dignità del lavoratore (artt. 4 e 35 Cost., ed implica che il potere deve estrinsecarsi in modo coerente al fatto addebitato, per commisurare ad esso, ove ritenuto sussistente, la sanzione da irrogare". Sicché non sono ammissibili meccanismi sanzionatori che non consentano "di calibrare la giusta e proporzionata sanzione da irrogare", ovvero, come nella fattispecie denunciata, escludano la "possibilità di graduazione secondo la gravità del fatto addebitato [laddove] potrebbe esservi sproporzione tra [quest’ultimo] e la sanzione della perdita del posto di lavoro"[32].

8. Stando alla stessa lezione di costituzionalità, infine, l’applicazione dei sistemi disciplinari a presidio dei modelli organizzativi, così come qualunque "esercizio di un potere disciplinare, nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato ... ovvero ... autonomo o professionale ... deve rispondere ... alla regola del contraddittorio ... riferibile anch’essa ai medesimi valori costituzionali che supportano il principio di proporzione. [Tale regola] implica ... il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale - avendo conosciuto l’addebito per essergli stato previamente contestato - deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa; sicché ... è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola audiatur et altera pars"[33].

9. Infine, a tale "regola del corretto contraddittorio nel procedimento disciplinare è sicuramente connesso il principio di immutabilità della contestazione a garanzia effettiva del diritto di difesa ... dell’incolpato - nell’ambito degli specifici principi di correttezza e buona fede - ... che non deve venire pretermesso per consentire al datore di lavoro di modificare i fatti e/o il titolo della contestazione disciplinare ..."[34].

Così come alla stessa regola devono ritenersi connaturati a priori gli altri principi pretori della specificità[35] (che pure "costituisce una garanzia procedimentale desumibile del carattere generale del ’giusto procedimento’, ripetutamente riconosciuta dalla Corte Costituzionale come un principio di ’civiltà giuridica’"[36]) e della tempestività delle contestazioni disciplinari[37].

È evidente che si tratta degli stessi principi sanciti, rispettivamente, nell’art. 2106 Cod.Civ. e nei primi commi dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto "Statuto dei Lavoratori") con specifico riferimento al rapporto di lavoro subordinato. Ma essi assurgono al rango di principi fondamentali - di rango costituzionale[38], anzi di basilare "civiltà giuridica"[39] - e generali - comunque indiscriminatamente validi, come si è anticipato, "nello svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (diritto privato o di pubblico impiego), ovvero di lavoro autonomo o professionale", ogniqualvolta è configurabile "un rapporto di supremazia per cui un soggetto (normalmente, ma non necessariamente, il datore di lavoro) può, con un suo atto unilaterale, determinare conseguenze in senso lato negative nella sfera soggettiva di un altro soggetto (il prestatore di lavoro) in ragione di un comportamento negligente o colpevole di quest’ultimo"[40].

Il che risulta particolarmente rilevante per i sistemi disciplinari a presidio dei modelli organizzativi i quali, come si è anticipato, devono riguardare anche le "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione ... dell’ente" (art. 6, II comma, lett e) e I comma, lett. a); art. 5, I comma, lett. a), cioè, in concreto, gli amministratori, che (in quanto tali) intrattengono rapporti di lavoro autonomo con l’ente amministrato (o più precisamente un "rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile", come puntualmente risulta dal combinato disposto del terzo e del primo comma dell’art. 61 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cosiddetta "Legge Biagi").

10. Con particolare riguardo a tali soggetti apicali, infine, il sistema disciplinare deve essere presidiato da un apposito "organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo", con il "compito [tra l’altro] di vigilare su ... l’osservanza dei modelli" (art. 6, I comma, lett. b). Il che implica che l’Organismo di Vigilanza - pur non disponendo, salvo apposita delega aggiuntiva, di "poteri disciplinari o sanzionatori diretti"[41] - avrà il potere-dovere di "promozione" dell’esercizio del potere disciplinare da parte dell’organo statutariamente competente[42], ovvero da parte di "un organo collegiale ad hoc, di nomina assembleare, composto da soggetti di riconosciuta indipendenza e moralità"[43].

*****

Si tratta ora di applicare tali principi, innanzitutto, ai soggetti in posizione apicale di cui all’art. 5, I comma, lett. b), previa identificazione della categoria: secondo la dottrina, a tale nozione – da intendersi "in senso relativo, perché è evidente che solo l’amministratore unico o il consiglio di amministrazione nel suo complesso possono dirsi davvero all’apice della struttura societaria" - sono riconducibili "gli amministratori, i direttori generali, i preposti a sede secondarie e, in caso di organizzazione divisionale, i direttori di divisione (sempre che dotati di autonomia finanziaria e funzionale)"[44], compresi i "componenti del consiglio di gestione nel sistema dualistico e del consiglio di amministrazone in quello monistico"[45], nonché "il funzionario della società capogruppo - amministratore di una controllata" e "il capo di uno stabilimento - almeno tendenzialmente - a ciclo produttivo completo"[46], ovvero ancora "l’institore", con esclusione dei "sindaci"[47], dei (normali) "dirigenti", dei "quadri" e dei "procuratori e commessi"[48].

Incominciando con gli amministratori, il primo nodo interpretativo è stato ravvisato nel fatto che il D.Lgs. 231/2001 "impone la previsione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto del modello, senza curarsi delle possibili interferenze tra tale sistema e le sanzioni tipiche, in particolare della revoca e dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, previste dal diritto societario"[49].

In realtà il problema non è di interferenze ma, tutt’al più, di integrazione. In effetti,

Ø da una parte deve escludersi che l’azione di responsabilità sia riducibile al novero delle sanzioni disciplinari dei modelli organizzativi, sia perché, come si è anticipato sub 5.1, "le sanzioni disciplinari ... non hanno una funzione risarcitoria"[50], sia perché "molte violazioni degli obblighi degli amministratori [pur preludendo a, o integrando, reati di cui agli articoli 24 ss.] non determinano direttamente alcun danno né alla società, né ai terzi (si pensi, ad es., alla maggioranza degli obblighi aventi per oggetto adempimenti pubblicitari o formalità ...) e, talvolta, anzi, determinano dei vantaggi alla società"[51] (si pensi, ad es., a forme di aggiotaggio tese a provocare un sensibile incremento del prezzo dei titoli sociali)[52].

Ø d’altra parte a mente di quanto sopra anticipato sub 7, un sistema disciplinare armonico e completo non può esaurirsi nella sola sanzione espulsiva della revoca (certamente eccessiva a fronte di violazioni minori ad es. l’inadempimento di uno degli obblighi di informazione di cui all’art. 6, II comma, lett. d), per una mera svista, rimasta priva di alcun esito criminoso - violazioni ciononostante non del tutto trascurabili[53]).

Perciò - almeno nei confronti degli amministratori (ma anche dei dirigenti apicali, su cui infra) - il problema dell’individuazione della "tipologia delle sanzioni" e del "relativo procedimento di irrogazione" per il sistema disciplinare dei modelli organizzativi, non può essere risolto tramite il semplicistico "rinvio alle sanzioni previste per ciascun tipo di rapporto"[54], come invece è avvenuto in molti modelli organizzativi, pubblicati[55] e non.

Al contrario occorre integrare lo strumento tipico del diritto societario con la diretta previsione di una sequenza di sanzioni ad hoc, adeguatamente articolata "a seconda della gravità della violazione"[56]. Com’è stato rilevato dalla dottrina più attenta, "la materia è ... ancora da esplorare, sebbene esperienze disciplinari appartenenti ad altri settori regolamentati potrebbero essere suscettibili di proposizione nel campo specifico"[57].

A proposito è stato suggerito di prevedere "il richiamo formale in forma scritta, che censuri la violazione delle prescrizioni del modello"[58]; nonché, "meccanismi automatici di decadenza dalla carica sociale al sopravvenire di una causa che incida sui requisiti di onorabilità o professionalità eventualmente stabiliti statutariamente e collegati anche a comportamenti non conformi al modello; meccanismi automatici di sospensione dalla carica per un determinato periodo; meccanismi di sospensione dalla carica previa deliberazione del consiglio di amministrazione, al ricorrere di ipotesi oggettivamente determinate"; nonché ancora "altre misure sanzionatorie (ad esempio di spiccata natura reputazionale: si pensi al disconoscimento della qualità di amministratore indipendente pur senza revoca del mandato)"[59].

Il secondo nodo interpretativo in materia di sistemi sanzionatori per gli amministratori è stato ravvisato nell’apparente difficoltà, se non impossibilità, di ricorrere agli ordinari meccanismi di promulgazione della normativa disciplinare, tradizionalmente concepiti e collaudati in specifico riferimento al rapporto del lavoro subordinato; difficoltà a fronte della quale "l’unica soluzione percorribile è apparsa quella di esplicitare nel contratto individuale gli inadempimenti ritenuti rilevanti"[60] e le corrispettive "pene private e non aziendali", ricorrendo "al regime generale delle sanzioni di diritto comune ed innanzitutto gli articoli 1382 e segg. C.C. in materia di clausola penale"[61].

L’opzione esegetica – anche a prescindere dai problemi applicativi che induce sul piano pratico, in particolare per l’introduzione nei rapporti in corso, necessariamente consensuale - non mi sembra condivisibile. In effetti,

Ø da una parte i sistemi disciplinari che ci occupano trovano la loro fonte direttamente nell’art. 6, II comma, lett. e), del D.Lgs. 231/2001, che non fa il minimo cenno alla necessità di un’ulteriore implementazione contrattuale. A proposito, merita ricordare che lo stesso art. 7, I comma, dello "Statuto dei Lavoratori" - che pur esige che si applichi "quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano" - è ormai pacificamente interpretato nel senso di riconoscere, a titolo originario, il potere di predisposizione unilaterale del "codice disciplinare", mentre "è del tutto superata l’opinione secondo la quale, in mancanza di regolamentazione contrattuale [o individuale], il potere disciplinare non sia esercitabile"[62];

Ø d’altra parte, come si è anticipato "le sanzioni disciplinari, data la natura e la funzione particolare ..., ... non trovano il loro fondamento nelle regole generali dei rapporti contrattuali [e] non sono assimilabili alle penali di cui all’art. 1382 Cod.Civ."[63].

Dal punto di vista formale, invece, si può porre il problema dello strumento più acconcio per promulgare le sanzioni disciplinari riguardanti gli amministratori, ovvero perlomeno quelle che incidono, in tutto o in parte, sul loro status societario o sulla loro capacità gestionale: a proposito - data la riserva all’atto costitutivo e allo statuto della materia dei "poteri degli amministratori" e del "funzionamento della società", di cui all’art. 2328 Cod.Civ. - sembra preferibile la tesi dell’implementazione "a livello statutario"[64].

Da ultimo, in tema di responsabilità disciplinare degli amministratori, mi sembrano da coltivare i dubbi dottrinali "in ordine alla coerenza tra scopo di prevenzione dei reati e la prassi societaria ... di forme di copertura assicurativa a favore degli amministratori condizionate all’applicazione di sanzioni amministrative o penali nei confronti degli stessi"[65].

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Venendo poi ai direttori, la verifica di compatibilità di cui sopra sub 3, si pone in termini ancora più problematici, tale da far dubitare che sia stato tenuto in debita considerazione quel "valore essenziale dell’ordinamento giuridico di un paese civile" rappresentato dalla "coerenza tra le parti di cui si compone"[66].

In effetti, mentre l’art. 6, II comma, lett. e), inequivocabilmente esige l’introduzione di un sistema disciplinare ad hoc anche nei confronti di tali soggetti apicali, la prevalente giurisprudenza è attualmente orientata nel senso di ritenerli essenzialmente refrattari a qualsiasi forma di responsabilità e procedimento disciplinare, in ragione della "specialità"[67] del rapporto di lavoro dirigenziale (apicale).

La "genealogia"[68] della tesi è tanto remota, quanto caratterizzata da un andamento "pendolare": in estrema sintesi, dopo l’originaria esclusione dell’applicabilità ai dirigenti dell’art. 7 dello "statuto dei lavoratori"[69], si era assistito ad un deciso revirement giurisprudenziale, indotto dal "combinato disposto" degli effetti del riconoscimento della nozione "ontologica" del licenziamento disciplinare[70], da una parte e, dall’altra, della vis expansiva delle principali garanzie dello stesso art. 7, riconosciute espressione di fondamentali "principi di civiltà giuridica"[71], e perciò estensibili a qualsiasi area di recedibilità ad nutum[72]; revirement avallato dalla stessa Corte Costituzionale, che, pur assumendo lo "status particolare" del dirigente, aveva fatto comunque salva l’applicabilità della "tutela ex lege contro ... i licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedono il riconoscimento di garanzia procedimentale"[73].

Tuttavia, inopinatamente, la Suprema Corte ha ancora cambiato avviso, con la cruciale sentenza a sezioni unite del 29 maggio 1995, n. 6041[74], la cui massima esclude che le garanzie del contraddittorio di cui all’art. 7 Stat. Lav."riguardino il licenziamento del dirigente di aziende industriali" sul presupposto, per quanto qui rileva, che

a) "il dirigente è certamente un lavoratore subordinato, ma la sua subordinazione è di natura particolare", incentrata com’è sul "rapporto fiduciario", sicché "la figura ... mal si attaglia ad un rapporto disciplinare", del quale "il dirigente, almeno di regola, non è soggetto passivo ..., ma soggetto attivo";

b) ciò vale, in particolare, per le sanzioni conservative: "immaginare una lettera di richiamo o una multa o altra sanzione indirizzata a un dirigente, ..., è fuori dal verosimile e dalla realtà aziendale"[75];

c) quanto alle sanzioni espulsive, data la recedibilità ad nutum ex lege[76], neanche una motivazione[77] fondata su addebiti di inadempimento è concettualmente idonea "a trasformare il licenziamento stesso in licenziamento disciplinare"[78];

d) ma non basta: si tratta non soltanto di "rapporto privo di rapporto disciplinare", ma "anzi, a ben vedere, nel quale questo risulta - di per sé, salvo contraria espressa volontà collettiva - incompatibile";

e) perciò è definitivamente sintomatico che, "con eccezione dei contratti dei dirigenti delle aziende di credito ... per nessun altro settore ... è previsto un procedimento disciplinare o sono previste delle sanzioni disciplinari".

La giurisprudenza successiva si è perlopiù conformata al nuovo dictum negativo,

f) estendendolo ai corollari dell’immediatezza, della specificità e dell’immutabilità[79] della contestazione, nonché al principio di proporzionalità della sanzione di cui all’art. 2106 c.c.[80],

g) escludendone l’integrale derogabilità in via convenzionale (pena lo snaturamento del rapporto di lavoro dirigenziale)[81];

h) ma soprattutto sviluppandone un obiter dictum con il precisare che l’inapplicabilità "delle garanzie procedimentali ... si riferisce solo al dirigente ... che si trovi in posizione apicale nell’ambito dell’impresa e sia munito di ampio potere gestorio, tanto che lo stesso possa essere propriamente definito alter ego dell’imprenditore, ... [mentre la stessa] procedura si applica nei confronti ... della media e bassa dirigenza ..."[82].

Non è questa la sede per analizzare la fondatezza di tale distinguo, tanto criticato[83] quanto criticabile (anche per la sua incongrua ricaduta su altri fronti[84]), essendo sufficiente constatare che la conseguente nozione di dirigente apicale sottratto alla responsabilità e al procedimento disciplinare corrisponde, pressoché esattamente, a quella dei direttori generali e divisionali, prevista dall’art. 5, I comma, lett. a), del D.Lgs. 231/2001. Il che illumina la contraddizione sistematica adombrata in apertura di paragrafo, o più praticamente, il cortocircuito giuridico, tra l’onere (penale, e l’obbligo civile[85]) di istituire un sistema disciplinare ad hoc per i dirigenti apicali (art. 6, II comma, lett. e) e la tralatizia incompatibilità concettuale dell’uno rispetto al rapporto degli altri.

È questa la ragione per cui molti modelli organizzativi - quando non eludono il problema, tramite un vuoto rinvio alla contrattazione collettiva[86] (in realtà muta in materia disciplinare) – nella presunta "impossibilità di ricorrere a sanzioni disciplinari", ricorrono surrogatoriamente ad un regime di "pene private", tramite l’inserimento di apposite clausole nella contrattazione individuale[87].

A proposito, più che richiamare le critiche rivolte all’analoga soluzione per gli amministratori, mi sembra addirittura possibile sbarazzarsi del problema stesso: in effetti è proprio l’incompatibilità del rapporto dirigenziale con la responsabilità e il procedimento disciplinare a dover essere oggetto di radicale "ripensamento", se non altro in base all’inequivocabile prescrizione dell’art. 6, II comma, lett. e), del D.Lgs. 231/2001[88]. In altre parole, nel contrasto tra un orientamento giurisprudenziale basato su indizi più sociologici che giuridici[89] ed un netto dettato normativo sopravvenuto, è difficile dubitare della prevalenza del secondo (un bell’esempio del celeberrimo tratto di penna del legislatore che manda al macero volumi di giurisprudenza).

In realtà - al di là della sua inevitabile portata nello speciale dominio applicativo del D.Lgs. 231/2001, dove un sistema disciplinare nei confronti dei dirigenti apicali risulta non soltanto concepibile, ma addirittura doveroso - quello così offerto dall’art. 6, II comma, lett. e), ben può costituire, più in generale, l’argomento dirimente per consolidare e far prevalere un orientamento minoritario, ma non esiguo, che, più o meno consapevolmente, non si è mai arreso al dictum delle sezioni unite del 1995 ed ai suoi sviluppi.

Penso, in particolare, a Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, che, valorizzando i principi costituzionali sopra descritti sub 8, ha convincentemente affermato che "le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, commi secondo e terzo, legge 20 maggio 1970, n. 300, ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari, sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure alla indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato"[90]. Ma penso anche alle recenti pronunce che - pur senza confrontarsi con il problema della compatibilità tra rapporto dirigenziale e procedimento disciplinare ex art. 7 Stat. Lav. - ne hanno implicitamente scontato la soluzione positiva, applicando senz’altro il corollario della tempestività della contestazione disciplinare[91].

In conclusione, i dirigenti apicali ben possono - al di fuori - e debbono - nell’ambito applicativo del D.Lgs. 231/2001 - essere assoggettati ad un sistema disciplinare, comprensivo di sanzioni conservative[92] ed assistito dalle fondamentali garanzie procedimentali del contraddittorio (comunque applicabili in caso di licenziamento "ontologicamente disciplinare").



[1] - RORDORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, in Soc., 2001, 11, 1300.

[2] - Trib. Milano, ord. 20 settembre 2004, in Foro It., 2005, II, 528, in particolare 559; conforme Trib. Milano, ord. 28 ottobre 2004, ibidem, 269, in particolare 273.

[3] - In realtà, "la mera elaborazione di direttive e di linee guida di comportamento non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente ... Così delineato il modello potrà essere solo astrattamente idoneo a prevenire reati di cui al decreto, mentre è necessario che ... sia anche efficacemente attuato ... non solo attraverso verifiche periodiche dell’efficacia dello stesso, ma anche introducendo un sistema disciplinare idoneo a sanzionarne il mancato rispetto ... Solo un adeguato e specifico sistema disciplinare e sanzionatorio può, in effetti, garantire il rispetto concreto delle disposizioni e delle procedure contenute nel modello" (Linee guida dell’Associazione Bancaria Italiana per l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche, febbraio 2004, p. 38)

[4] - "Il sistema disciplinare deve avere riguardo all’attività sia dei vertici aziendali, sia delle persone sottoposte all’altrui direzione" (Linee Guida A.B.I. cit., p. 39). Nello stesso senso, in dottrina, cfr. IELO, Compliance programs: natura e funzione nel sistema della responsabilità degli enti. Modelli organizzativi e D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 113; ALBERTI, Fondamenti aziendali della responsabilità degli enti ai sensi dell’D.Lgs. n. 231 del 2001, in Soc., 2002, 5, 542; FAVA, Responsabilità degli enti e modelli organizzativi, in Dir.Prat.Lav., 2004, 35, 2279.

[5] - DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in Riv.It.Dir.Proc.Pen., 1995, 150 s.

[6] - GRAZIANO, I modelli organizzativo-preventivi e l’esperienza dei ’compliance program’, in Dir.Prat.Soc., 2002, 6-8, p. 31 e s., ove si precisa, richiamando la "dottrina Usa", che "l’apparato disciplinare adottato dall’azienda rappresenta, per questa teoria, una forza ausiliaria, un utile supporto che si affianca al sistema sanzionatorio governativo per perseguire le sue medesime finalità".

[7] - IELO, op. cit., 112

[8] - SFAMENI, La responsabilità delle persone giuridiche: Fattispecie e disciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società – D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 6, a cura di A. Alessandri, Milano, 2002, p. 65-102, in particolare, p. 87.

[9] - Trib. Milano, 20 settembre 2004, cit., 561; conformi, più in generale, Trib. Milano, 28 ottobre 2004, cit., 275; Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2004, in Dir.Prat.Soc., 2005, 6, 69, in particolare p. 70; Trib. Bari, ord. 18 aprile 2005, in www.rivista231.it.

[10] - Linee Guida A.B.I. cit., p. 39

[11] - Trib. Bari, 18 aprile 2005, cit.

[12] - STALLA, Reati societari presupposto della responsabilità amministrativa delle società: aspetti comuni e differenze rispetto alla disciplina fondamentale del D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, p. 143

[13] - In ossequio al "principio della pubblicità delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari" di cui all’art. 7, I comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (SFAMENI, op.cit., p. 81, par. 5.2) e, comunque, ai "diritti inviolabili" di difesa e dignità del lavoratore, di cui agli articoli 3, 24 e 35 della Costituzione (Corte Cost., 23 luglio 1991, n. 364, in Foro It., 1991, II, 2609)

[14] - L’art. 24, II comma, lett. b), del Progetto Grosso, ripreso e modificato dal D.Lgs. 231/2001, prevedeva tra i requisiti dei modelli "un’adeguata formazione e informazione del personale sugli aspetti rilevanti ai fini dell’osservanza della legge nello svolgimento dell’attività di organizzazione". Nonostante tali requisiti non compaiano nell’attuale formulazione del D.Lgs. 231/2001, le Linee Guida delle associazioni di categoria prevedono comunque l’informazione e la formazione dei destinatari come "due importanti requisiti del modello ai fini del suo buon funzionamento", aggiungendo, in particolare, che i relativi sistemi disciplinari "vanno espressamente inseriti nel regolamento disciplinare aziendale, se esistente, o comunque formalmente dichiarati vincolanti per tutti i dipendenti (ad esempio mediante una circolare interna o un comunicato formale), nonché esposti, così come previsto dall’art. 7, I comma, l. n. 300/1970" (così Linee Guida Confindustria, p. 20; conformi Linee Guida A.B.I., p. 39).

[15] - A proposito sono stati suggeriti "nell’applicazione pratica ..., oltre all’affissione in luogo accessibile a tutti, la consegna, ... di una copia del modello, includente il sistema disciplinare, da far firmare per ricevuta e presa visione" (SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e sistema disciplinare, inserto di Dir.Prat.Lav., 2005, 5, p. XI), nonché "l’organizzazione di corsi diretti a diffondere il contenuto" (FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, La responsabilità ’amministrativa’ degli enti ed i ’modelli di organizzazione e gestione’ di cui agli articoli 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001, in Riv.Dir.Comm., 2003, 1-4, p.185 s.; conforme IELO, op. cit., p. 113).

[16] - Così, per tutte, da ultimo, Cass. 13 settembre 2005, n. 18.130, che peraltro limita l’eccezione al principio di pubblicità preventiva alle "sanzioni espulsive", escludendola per le "sanzioni conservative".

[17] - Così, Cass. 9 febbraio 2004, n. 17.763, che in aperto contrasto con l’orientamento prevalente, del tutto condivisibilmente estende l’eccezione al principio di pubblicità preventiva anche alle "sanzioni conservative"

[18] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 185

[19] - IELO, op. cit., 113.

[20] - IELO, op. cit., p. 112. Cfr. anche FAVA, op. cit., p. 2279, per cui "l’adeguatezza della sanzione è da ritenersi fattore determinante per il corretto funzionamento del modello".

[21] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[22] - Linee Guida A.B.I., p. 39 e 41. Sulla funzione di "effettiva deterrenza" preventiva del sistema disciplinare del modello organizzativo insiste anche STALLA, Reati societari e presupposto della responsabilità amministrativa delle società: aspetti comuni e differenze rispetto la disciplina fondamentale del D.Lgs. 231/2001, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 143

[23] - A prescindere dalla natura del rapporto - di immedesimazione organica (degli apicali) ovvero di subordinazione (dei sottoposti) - tra l’ente e l’autore del reato. In effetti "il D.Lgs. n. 231/2001 estende ... alla responsabilità dell’ente per i reati commessi da soggetti in posizione apicale il modello della responsabilità per colpa organizzativa costruito dalla Commissione Grosso, seguendo i modelli anglosassoni, piuttosto che quello francese, con esclusivo riferimento alla responsabilità di soggetti sottoposti"; al contrario, per i soggetti apicali il progetto della stessa Commissione Grosso prevedeva che "l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell’organizzazione, [consentisse] di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione stessa" (FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 167 e 169, citando la relazione della stessa Commissione Grosso)

[24] - Ovvero par ricochet, come previsto dall’art. 121-2 del codice penale francese del 1994. SFAMENI, op. cit., p. (par. 1) sottolinea "il potenziale effetto perverso di una responsabilità penale delle società di tipo oggettivo (strict vicarious liability): l’effetto, cioè, di disincentivo all’adozione di misure di prevenzione e controllo ... qualora il modello di imputazione della responsabilità sia svincolato dal criterio di diligenza e, dunque, dalla colpa".

[25] - BARTOLOMUCCI, Il Commento a Trib. Milano, 25 gennaio 2005, in Soc., 2005, 11, 1444 s.. Nello stesso senso cfr. Trib. Roma, ord. 22 novembre 2002, in Foro It., 2004, II, 318, in particolare 326; Trib. Salerno, ord. 28 marzo 2003, in Foro It., 2004, II, 435, in particolare 452; Trib. Torino, 28 gennaio 2004, e in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 187; Trib. Torino, 10 febbraio 2005, in www.rivista 231.it. In dottrina cfr., ex multis, PALIERO, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere (et puniri) potest, in Corr. Giur., 2001, 7, 846 s. e SFAMENI, op. cit., p. 66-67, con ampi rinvii alla conforme dottrina anglosassone in materia di compliance programs; BEVILACQUA, I presupposti della responsabilità da reato degli enti, in I modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001 - Etica d’impresa e punibilità degli enti, Milano, 2005, p. 121 s. e 140 ss.; LUNGHINI, L’idoneità e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001, ibidem, p. 253 s..

[26] - RORDORF, op. cit., p. 1300. Conforme, SFAMENI, op. cit., p. (par. 6).

[27] - IELO, op. cit., p. 113. Cfr. anche LUNGHINI, op. cit., p. 265, per cui "scopo delle cautele [dei modelli organizzativi] è di agire sull’ipotizzato meccanismo di produzione dell’evento impedendo il verificarsi di accadimenti, prodromici rispetto all’evento lesivo, che rappresentano ’sotto-eventi’ dei decorsi causali tipicamente alla base della realizzazione dell’evento astratto previsto da una fattispecie penale".

[28] - In effetti devono essere prvenute anche "condotte … in materia di frode fiscale o di false comunicazioni sociali, ancorché non previste tra i presupposti della responsabilità dell’ente o non punibili per difetto di soglie quantitative", in quanto "operazioni idonee alla creazione di disponibilità extracontabili" e quindi occasione di condotte corruttive (IELO, op. cit., p. 105 e 111).

[29] - SFAMENI, op. cit., p. 75-76.

[30] - Il punto è stato scarsamente considerato dalla dottrina e dalle linee guida, soprattutto per quanto riguarda il, pur condiviso, "requisito di compatibilità" di cui sopra sub 3 (si limitano a porre il problema FURLAN e STANCHI, Rapporto di dirigenza e responsabilità, Guida al Lav., 2004, 41, 15 s.). I fugaci accenni in termini si limitano perlopiù ad assumere come premessa incidentale a diversi fini argomentativi, a mo’ di obiter dictum, che "le violazioni minori, per esempio la violazione degli obblighi procedimentale del modello [siano] accompagnate da sanzioni conservative e dunque diverse dal licenziamento" (FIGURATI, Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: aspetti lavoristici, in Giur.Piem., 2002, 1, 36; cfr. anche Linee Guida A.B.I., p. 40 s.)

[31] - Linee Guida A.B.I., p. 40.

[32] - Così, in massima e in motivazione (con rinvio alla giurisprudenza costituzionale conforme), Corte Cost., 29 maggio 1995, n. 220, in Foro It., 1996, I, 47. Conforme, in motivazione, Cass. Sez. Un., 29 maggio 1995, n. 6041 in Foro It., 1995, I, 1778, per cui "considerare il licenziamento come unica sanzione evidentemente ... darebbe luogo ad una serie di incongruenze, non ultima quella di impedire al giudice di esercitare un controllo sulla adozione di detta misura estrema, secondo un adeguato criterio di proporzionalità". Cfr. anche, incidentalmente, Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, in Lav. Giur., 2003, 8, 735.

[33] - Così, ancora in massima e in motivazione (con rinvio alla giurisprudenza costituzionale conforme), Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220, cit.. Conformi Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit. e Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, in Dir.Prat.Lav., 2005, 38, 2094.

[34] - Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, cit., ove l’affermazione è argomentata invocando e sviluppando la citata lezione di Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220.

[35] - Su cui cfr., da ultimo, Cass. 30 giugno 2005, n. 13.998, per cui "nell’esercizio del potere disciplinare la contestazione dell’addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata l’immutabilità degli stessi fatti anche ai fini del pieno svolgimento del contraddittorio".

[36] - Così, puntualmente, Cass. 21 aprile 2005, n. 8303.

[37] - Su cui cfr., da ultimo, Cass. 11 gennaio 2006, n. 241, in Guida al Lav., 2006, 8, 35, per cui "la ratio del principio di immediatezza della contestazione disciplinare va individuata nell’esigenza che siano osservate le regole della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, le quali non permettono all’imprenditore di procrastinare la contestazione medesima, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore").

[38] - Conformi Corte Cost., 30 novembre 1982, n. 204, in Foro It., 1982, I, 2981 e Corte Cost. 23 luglio 1991, n. 364, in Foro It., 1991, II, 2609

[39] - Corte Cost. 25 luglio 1989 n. 427, in Foro It., 1989, I, 2685

[40] - Così, ancora, Corte Cost. 29 maggio 1995, n. 220, cit.. e, Cass. 13 maggio 2005 n. 10.058, cit.. Cfr. anche Cass. 21 aprile 2005, n. 8303.

[41] - SFAMENI, op. cit., p. 91, ove è precisato che "ciò, peraltro, non toglie che rientri nell’ambito dell’autonomia negoziale e organizzativa dell’organo amministrativo la facoltà, non il dovere, di delegare all’organismo di vigilanza poteri decisionali e di intervento più incisivi", in particolare in materia disciplinare.

[42] - Linee Guida A.B.I., p. 24, e Linee Guida Confindustria, p. 27. In dottrina cfr. FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 173; IELO, op. cit., p. 113; STALLA, op. cit., p. 145, ove è ipotizzata "una previsione statutaria che conferisca al [l’organismo di vigilanza] il diritto-dovere, non solo di partecipare all’assemblea dei soci, ma anche di chiederne la convocazione per la segnalazione e la deliberazione su questioni rientranti nelle proprie funzioni di vigilanza".

[43] - SFAMENI, op. cit., p. 101, ove è condiviso il suggerimento in tal senso del modello di codice etico redatto dall’ASSOSIM, con Circolare n. 40 del 29 maggio 2002.

[44] - RORDORF, op. cit., p. 1299. Conformi, BEVILACQUA, op. cit., p. 137 S.; FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 172. In giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, ord. 27 aprile 2004, in Foro It., 2004, 434, che ha considerato "manager con posizione apicale ... un direttore esecutivo"; nonché, più genericamente, cfr. Trib. Salerno, 28 marzo 2003, in Foro It., 2004, II, 435, in particolare 452.

[45] - STALLA, op. cit., p. 138.

[46] - PALIERO, op. cit., p. 847

[47] - BEVILACQUA, op. cit., p. 137; STALLA. op. cit., p. 138.

[48] - SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. VI. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, 27 aprile 2004, cit. Che ha considerato "sottoposto" un "direttore commerciale", escludendolo a contrario dalla categoria degli apicali

[49] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 171, ove pure non è proposta alcuna soluzione interpretativa della "incongruenza"; anzi, nella successiva p. 185, dopo aver predicato l’esigenza di compatibilità del sistema sanzionatorio con il regime dei vari rapporti interessati, inopinatamente, quanto semplicisticamente, è affermato che "la soluzione più agevole pare essere il rinvio alle sanzioni previste per ciascun tipo di rapporto". Cfr. BARTOLOMUCCI, Responsabilità amministrativa dell’ente: l’adozione di modelli organizzativi, in Dir.Prat.Soc., 2002, 17, p. 16.

[50] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[51] - BONELLI, Gli obblighi e la responsabilità degli amministratori, in Trattato delle Società per Azioni diretto da Colombo e Portale, vol. 4, Amministratori - Direttore generale, 1991, Torino, p. 327.

[52] - Piuttosto merita rilevare che l’azione di responsabilità può riguardare i modelli organizzativi sotto un diverso profilo. In effetti, l’adozione di questi ultimi, pur rappresentando pressoché pacificamente un onere sul piano penalistico, rappresenta invece un vero e proprio obbligo sul piano civilistico, a mente dell’art. 2381, III e V comma, Cod.Civ., che impongono al consiglio di amministrazione e agli organi delegati, rispettivamente, di valutare e curare un adeguato "assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società", in relazione alla "natura e alle dimensioni dell’impresa": il che inevitabilmente include - in rapporto genere/specie, ovvero insieme/sottoinsieme - l’adozione di un "idoneo modello di organizzazione", "in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta" (artt. 6, I comma, e 7, III comma). In altre parole, "il modello di organizzazione potrebbe configurarsi anche come modello di corporate governance" e "rappresentare l’esatto adempimento di un obbligo di corretta gestione dell’impresa", "quale presupposto di responsabilità civile degli amministratori" (SFAMENI, op. cit., p. 75 s.), sicché "l’amministratore [che] non abbia una responsabilità diretta ed immediata ... nell’illecito penale, ... ben può comunque rispondere a livello civile per non avere posto in essere un modello organizzativo e amministrativo idoneo" (DE CRESCENZO, I profili di responsabilità degli amministratori nei confronti delle società, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 168)

[53] - Come l’inapplicabilità della revoca e l’assenza di sanzioni conservative proporzionate indurrebbe inevitabilmente a fare, svilendo l’efficacia preventiva delle corrispondenti regole dei modelli organizzativi.

[54] - FRIGNANI, GROSSO, ROSSI, op. cit., p. 185; IELO, op. cit., p. 113.

[55] - Cfr. buona parte di quelli sommariamente descritti da MONESI, I modelli organizzativi in rete: le società dello S&P MIB, in I modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001 - Etica d’impresa e punibilità degli enti, Milano, 2005, p. 457.

[56] - Modello di organizzazione, gestione e controllo suggerito dall’A.N.C.E. come standard di riferimento, p. 7. Conformi, sia pure genericamente, Linee Guida A.B.I.; sul punto tacciono, invece, le Linee Guida Confindustria.

[57] - SFAMENI, op. cit., p. 100 s., ove, a titolo esemplificativo, è richiamato "l’istituto della sospensione ... conosciuto nell’ambito del diritto bancario e specificamente disciplinato dalla Banca d’Italia, con proprie istruzioni"

[58] - Modello di organizzazione standard A.N.C.E., p. 7 e 8, ove sono aggiunte "la sospensione dalla carica e dalla compenso per un periodo compreso fra un mese a sei mesi, per violazioni particolarmente gravi, reiterate o molteplici; la proposta o decisione di revoca dalla carica, in caso di violazioni di eccezionale gravità".

[59] - SFAMENI, op. cit., p. 101 s..

[60] - NICOTERA, Modelli organizzativi e gestionali: l’esperienza di ASSTRA, in Resp. Amm. Enti e Soc., 2006, 1, 227.

[61] - SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. XIV.

[62] - Così, per tutti, MATTAROLO, Il potere disciplinare, in Diritto del Lavoro - Commentario diretto da Franco Carinci, Vol. II, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento a cura di C. Cester, 1998, Torino, p.759, con ampio resoconto della giurisprudenza in materia.

[63] - Cass. 17 agosto 2001, n. 11.153. Conforme Cass. 27 giugno 1998, n. 6382.

[64] - SFAMENI, op. cit., p. 100. Cfr. anche STALLA, op. cit., p. 145, ove è additata "una previsione statutaria che conferisca al [l’organismo di vigilanza] il diritto - dovere, non solo di partecipare all’assemblea dei soci, ma anche di chiederne la convocazione per la segnalazione e la deliberazione su questioni rientranti nelle proprie funzioni di vigilanza", tra le quali, come si è visto, rientra la promozione dell’azione disciplinare nei confronti degli amministratori.

[65] - SFAMENI, op. cit., p. 101. Cfr. anche BARTOLOMUCCI, op. cit., p. 13; nonché DE CRESCENZO, op. cit., p. 173, il quale, specularmente, non esclude addirittura la rivalsa societaria nei confronti degli amministratori in esito al pagamento delle sanzioni amministrative (pecuniarie) di cui agli artt. 24 e seguenti del D.Lgs. 231/2001.

[66] - Corte Cost. 30 novembre 1982, n. 204, cit..

[67] - In vario modo ed a vari fini ripetutamente affermato dallo stesso giudice delle leggi: cfr. Corte Cost.,6 luglio 1972, n. 121, in Mass.Giur.Lav., 1972, 274; Corte Cost., 22 maggio 1987, n. 180; Corte Cost., 28 luglio 1988, n. 935, in Mass.Giur.Lav., 1988, 619; Corte Cost., 26 ottobre 1992, n. 404.

[68] - Così, icasticamente, DEL PUNTA, Il valzer delle tutele: ancora su art. 7 st. lav., recesso ad nutum e licenziamento del dirigente, in Mass.Giur.Lav., 2003, p. 681.

[69] - Cass. 1 settembre 1987, n. 7169; Cass. 28 settembre 1988, n. 5260; Cass. 3 febbraio 1989, n. 681; Cass. 11 febbraio 1989, n. 854; Corte Cost., 28 luglio 1988, n. 935, cit.

[70] - Cass. Sez. Un., 1 giugno 1987, n. 4823, in Riv.Giur.Lav., 1987, II, 221.

[71] - Corte Cost., 25 luglio 1989, n. 427, cit.

[72] - Cass. 10 febbraio 1988, n. 1420, in Not.Giur.Lav., 1988, 324; Cass. 10 febbraio 1998, n. 1426, in Foro It., 1989, I, 2248; Cass. 11 maggio 1990, n. 4072 in Not.Giur.Lav., 1990, 684 Cass. 28 novembre 1991, n. 12.758, in Foro It., 1991, 381; Cass. 6 luglio 1992, n. 8205, in Mass.Giur.Lav., 1992, 374; Cass. 13 novembre 1992, n. 12.223, ivi, 1993, 213 Cass. 17 marzo 1993, n. 3146, in Dir.Prat.Lav., 1993, 1398; Cass. 9 giugno 1993, n. 6410, ibidem, 2340; Cass. 18 febbraio 1994, n. 1561, in Mass.Giur.Lav., 1994, 200; Cass. 15 febbraio 1995, n. 1641, in Foro It., 1995, 1778

[73] - Corte Cost., 24 giugno 1992, n. 309, in Foro It., 1992, I, 2, 2321

[74] - Edita, ex multis, in Foro It., 1995, I, 1778

[75] - L’inconcepibilità di sanzioni conservative nei confronti dei dirigenti è stata poi ribadita incidentalmente da Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934, in Mass.Giur.Lav., 1997, 69 e in Foro It., 1997, I, 839, e da Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, in Lav.Giur., 2003, 8, 743

[76] - L’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, limitandone la portata ai "prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio", esclude a contrario la categoria dei dirigenti dall’applicabilità della disciplina vincolistica dei licenziamenti, relegandola al regime codicistico, del recesso acausale, condizionato esclusivamente alla prestazione del preavviso, di cui all’art. 2218.

[77] - Normalmente imposta dalla contrattazione collettiva, ai fini del riconoscimento della "indennità supplementare" in caso di licenziamento riconosciuto "ingiustificato"

[78] - In altre parole la "procedura ... disciplinare non ha costrutto in un rapporto che, per legge, e risolubile ad nutum ex art. 2118 c.c., senza alcuna necessità di motivazione, in termini di piena libertà datoriale" (così, per tutte, Cass. 11 febbraio 1998, n. 1434 in Lav.Giur., 1998, 8, 673).

[79] - Dichiarati inapplicabili ai dirigenti da Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934 cit.; Cass. 1 aprile 1999, n. 3148, in Foro It., 1999, I, 1793 e in Riv.It.Dir.Lav., 1999, II, 817; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 17 gennaio 2005, n. 775.

[80] - Dichiarato inapplicabile ai dirigenti da. Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934 cit.; e, incidentalmente, Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.

[81] - In particolare non è consentita "una completa omologazione ..., neanche previe convenzionale, della tutela del dirigente a quella degli altri lavoratori subordinati, data la [sua] peculiare collocazione e specialità, soprattutto per la rilevanza del profilo fiduciario" (Cass. 20 novembre 1998, n. 11.765; conformi Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 1 aprile 1999, n. 3148, cit.; Cass. 21 marzo 1998, n. 3000, in Foro It., I, 1254; Cass. 25 novembre 1996, n. 10.455, in Mass.Giur.Lav., 1997, 69).

[82] - Così, in particolare, Cass. 11 febbraio 1998, n. 1834 cit.; conformi Cass. 27 novembre 1997, n. 12.001, in Mass.Giur.Lav., 1998, 258; Cass. 26 febbraio 2000, n. 2192; Cass. 18 luglio 2001, n. 9715; Cass. 21 luglio 2001, n. 9950; Cass. 15 novembre 2001, n. 14.230, in Or.Giur.Lav., 2002, 61; Cass. e 16 aprile 2002, n. 5471; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, cit.; Cass. 13 maggio 2005, n. 10.058, cit.; Cass. 8 novembre 2005, n. 21.673, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 277.

[83] - Cfr., da ultimo, DEL PUNTA, op. cit., p. 685, per cui la giurisprudenza in materia ha istituito, "per via schiettamente interpretativa ... una nuova fattispecie astratta, dedotta per scissione del tipo legale unitariamente inteso ..., [senza] solidi argomenti" di suffragio; nonché MANNACIO, Tutela dei dirigenti e sanzioni disciplinari, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 271, per cui si tratterebbe di "distinzione che ... normativamente non esiste". In giurisprudenza cfr. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit.

[84] - Sotto forma di limitazione dell’applicabilità dell’art. 10 della L. 604/1966 ai soli dirigenti apicali, e conseguente complementare espansione della "tutela reale" dell’art. 18 St. Lav. ai medi e bassi dirigenti: cfr. Cass. 12 novembre 1999, n. 12.571, in Foro It., 2000, I, 753; Cass. 15 novembre 2001, n. 14.230; Cass. 9 aprile 2003, n. 5526, in Mass.Giur.Lav., 2003, 676; Cass. 28 maggio 2003, n. 8486; Cass. 9 agosto 2004, n. 15.351, in Lav.Giur., 2005, 6, 556; Cass. 8 novembre 2005, n. 21.673, cit.

[85] - Cfr. nota n. 52

[86] - Cfr. buona parte di quelli sommariamente indicati da MONESI, op. cit., p. 456 ss.

[87] - NICOTERA, op. cit., p. 227.

[88] - Siccome rilevato, per primo, da MANNACIO, Osservazioni sul licenziamento disciplinare dei dirigenti (e su licenziamento disciplinare in generale), in Mass.Giur.Lav., 2003, 7, 545; conformi, SALONIA, PETRUCCI e TADDEI, op. cit., p. X; nonché, sia pure dubitativamente, FURLAN e STANCHI, op. cit., p. 16.

[89] - In effetti, come è stato prontamente rilevato, "entrambe le affermazioni [che - a) non esiste un potere disciplinare ... nei confronti del dirigente; b) ai dirigenti d’azienda non si applica l’art. 7 dello statuto dei lavoratori] trovano origine e fondamento, non già in una specifica previsione normativa di fonte legale, ma nella preliminare costruzione del dirigente come alter ego dell’imprenditore" (AMOROSO, Le sezioni unite mutano giurisprudenza in ordine al licenziamento disciplinare del dirigente d’azienda: incertezze interpretative e dubbi di costituzionalità, in Foro It., 1995, I, 1778). Quanto all’argomento dell’assenza di codici disciplinari di fonte contrattuale collettiva, nella misura in cui traspone sul piano prescrittivo un rilievo meramente descrittivo, non sembra poter fondare la conclusione dell’inammissibilità della responsabilità disciplinare dei dirigenti, se non cadendo nel vizio teoretico della cosiddetta "fallacia deduttivistica". Così non è stato ravvisato "motivo per escludere la possibilità che vengano comminate e irrogate al lavoratore anche sanzioni a carattere conservativo, nel rispetto delle regole poste in proposito dell’art. 7 St. Lav.. Che poi questo nella quasi totalità dei casi non accada, perché i contratti collettivi non lo prevedono e la natura particolare del rapporto fa sì che alle mancanze minori si preferisca reagire in forme non punitive ... è tutt’altro discorso" (ICHINO, Il contratto di lavoro, vol. III, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2003, p. 366; conforme AMOROSO, op. cit., p. 1014).

[90] - La pronuncia è edita in Lav.Giur., 2003, 8, 735. Conformi: nella giurisprudenza di merito,Trib. Milano, 16 dicembre 1999, in Lav.Giur., 2000, 4, 375; Trib. Roma, 16 ottobre 2003, in Guida al Dir., 2004, 24, 62; Trib. Prato, 24 gennaio 2005, in D&L, 2005, 897; in dottrina (da ultimo) DEL PUNTA, op. cit., p. 686 s.; ICHINO, op. cit., p. 366 ss.; MANNACIO, Tutela dei dirigenti e sanzioni disciplinari, in Dir.Prat.Lav., 2006, 5, 270. Cfr. anche Cass. 13 maggio 2005, n. 10.058, cit., la quale, pur scontando l’inapplicabilità ai dirigenti dell’art. 7 Stat. Lav., finisce per applicarne comunque le regole principali - preventiva contestazione e diritto di difesa, oltre che immutabilità della contestazione - sul presupposto che si tratti di principi fondamentali che prescindono da specifiche previsioni normative e, anzi, prevalgano su quelle eventuali "divergenti ... che sarebbero comunque dissonanti rispetto al modello prefigurabile in base al combinato disposto degli articoli tre e 24 della Costituzione".

[91] - Cfr., Cass. 22 settembre 2005, n. 18.620, commentata in Guida al Lav., 2005, 47, 18.

[92] - Cfr., rispettivamente, ICHINO, op. cit., p. 366, e FURLAN e STANCHI, op. cit., p. 16.