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Tributario: la Cassazione si esprime sulla motivazione "per relationem"

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Indice

1. Premessa

2. La motivazione degli avvisi di accertamento per “relationem

3. Fatto

4. Motivi della decisione

 

1. Premessa

Ogni atto dell’Amministrazione finanziaria deve essere motivato e deve mettere il contribuente nelle condizioni non solo di comprendere le ragioni che sono poste alla base della pretesa fiscale ma anche di esercitare il pieno diritto di difesa laddove si ritiene opportuno contestare quell’atto impositivo.

Come noto, all’Ufficio è consentito motivare gli avvisi di accertamento anche per “relationem” ovvero tramite il riferimento ad altri atti o documenti purchè allegati all’atto notificato o riprodotti nel contenuto essenziale. Tuttavia, se non ricorrono tali condizioni l’accertamento è illegittimo in quanto privo di una congrua motivazione la quale, peraltro, non potrà essere integrata successivamente in corso di giudizio dall’Amministrazione finanziaria.

 

2. La motivazione degli avvisi di accertamento per “relationem”

Con ordinanza n. 4176 depositata il 13 febbraio 2019 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sul tema riguardante la motivazione degli atti tributari, ovvero di quegli elementi che l’Ufficio pone a supporto del recupero a tassazione, stabilendo il principio secondo cui la motivazione di un avviso accertamento non può essere integrata nel corso di un giudizio con documenti che non siano stati prima allegati all’atto notificato, stante la natura impugnatoria del processo tributario.

Più precisamente, la Cassazione ha ribadito un principio di diritto che è in linea con quanto già stabilito dal consolidato orientamento giurisprudenziale (Cassazione 6914/2011) secondo cui l'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all'atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale….” .

Tanto rilevato in sede di principio, i Giudici di Cassazione con l’ordinanza in commento hanno considerato illegittimo un avviso di accertamento perché rinviava a documenti non allegati all’atto impositivo né tantomeno riprodotti nel suo contenuto essenziale.

A riguardo, si rammenta che nel procedimento tributario la motivazione di un qualsiasi atto impositivo ha lo scopo non solo di delimitare l’ambito delle ragioni che l’Ufficio pone a supporto della propria tesi ma consente, altresì, al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che la motivazione dell’atto tributario costituisce lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente e, pertanto, nell’atto impositivo devono essere indicati tutti gli elementi che l’Ufficio pone alla base della pretesa fiscale. Questi elementi costituiscono i confini del processo tributario stante la natura impugnatoria, (il processo prende avvio proprio con l’impugnazione dell’ atto impositivo) per cui l’Amministrazione finanziaria non può integrare le proprie ragioni dopo che l’atto sia stato impugnato in Commissione tributaria o addirittura in corso di giudizio, questo perchè la difesa del ricorrente si è limitata esclusivamente a contestare quanto illustrato nella motivazione originaria dell’atto tributario a lui notificato, con la conseguenza che il giudice è vincolato a decidere solo sugli elementi desumibili dall’atto impugnato. Infatti, anche se il giudice può qualificare autonomamente la pretesa fiscale dell’Ufficio, è vincolato dagli elementi esposti nella motivazione dell’atto originario, non potendo alterare il contenuto dell’accertamento, oggetto di contestazione, con l’integrazione di documenti o dossier forniti dall’ufficio in corso di giudizio.

A sostegno di quanto sopra esposto, si fa presente che l’articolo 7 della Legge n. 212/2000 (Statuto del Contribuente) ha fatto propria la nozione di motivazione dell’atto tributario secondo cui: “Gli atti dell'amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama”. 

Tale norma, quindi, è chiarissima nello stabilire che se la motivazione di un avviso di accertamento fa riferimento ad un altro atto questo deve essere necessariamente allegato all’atto che lo richiama.

Questo perché la motivazione dell’atto tributario è finalizzata a far comprendere non solo le ragioni di diritto ma anche i presupposti di fatto e soprattutto i passaggi logici che hanno condotto l’Amministrazione a stabilire quella determinata pretesa fiscale inclusi, quindi, tutti quei documenti che l’Ufficio ha preso in considerazione garantendo al contribuente il pieno e immediato esercizio del diritto di difesa.

Da ciò, si comprende la necessità che l’atto tributario deve essere correlato a monte di tutti i suoi elementi essenziali per renderlo idoneo a svolgere la funzione cui è destinato e per delimitare i confini entro cui svolgere l’eventuale lite tributaria. Pertanto, “le motivazioni dell’atto impugnato non possono essere integrate successivamente nel corso del giudizio atteso che in questo modo risulterebbe compromesso il diritto di difesa del contribuente che non potrebbe più contestare i nuovi elementi forniti dall’Ufficio, tramite dossier o documenti non allegati all’originario atto impugnato, in quanto ne giunge a conoscenza solo in un momento successivo all’istaurazione del giudizio tributario”. Infatti, se così fosse, verrebbe meno il meccanismo e la ratio del processo tributario che è imperniato sull’impugnazione del provvedimento impositivo originariamente notificato al contribuente.

 

3. Fatto

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate notificava all’erede di un contribuente un avviso di accertamento relativo ad un provvedimento di rettifica e liquidazione per una maggiore imposta di successione, sulla base di una plusvalenza derivante dalla cessione di azienda il cui valore era stato determinato dall’Ufficio ai fini dell’imposta di registro.

Il contribuente impugnava con tempestivo ricorso l’atto impositivo eccependo la nullità dell’atto per mancata allegazione del provvedimento relativo all’imposta di registro sul quale si fondava l’avviso di accertamento impugnato. In primo grado, i giudici accoglievano parzialmente l’impugnazione, riducendo il valore della cessione d’azienda, precedentemente accertata, mentre non accoglievano l’eccezione di carenza di motivazione. Si precisa che detto atto non era stato mai prodotto dall’Ufficio neanche nel corso del giudizio, né era stata data prova della notifica dello stesso nei confronti del soggetto deceduto. Anche in secondo grado i Giudici di merito respingevano il gravame e il contribuente proponeva ricorso per Cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme relative all’obbligo di motivazione degli atti tributari di cui all’articolo 7 L. 17 luglio 2000 n. 212.

 

4. Motivi della decisione

La Suprema Corte con ordinanza n. 4176 depositata il 13 febbraio 2019 accoglieva il ricorso presentato dall’erede del de cuius e rilevava che “l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, oppure che gli atti richiamati siano già legalmente ed integralmente conosciuti dal contribuente”.

Invero, nel caso in questione, l'accertamento notificato per la plusvalenza faceva riferimento ad un provvedimento di rettifica dell’imposta di registro, ma tale provvedimento non era stato allegato né tantomeno riprodotto nelle sue parti essenziali. La Corte, infatti, ha altresì accertato che la notifica dell’accertamento prodromico al de cuius non era stata provata in atti, non essendo sufficiente al tal fine la mera indicazione dell’Agenzia delle Entrate di “avervi provveduto”. L’Ufficio, infatti, avrebbe dovuto fornire la prova dell’avvenuta notifica e del suo perfezionamento, posto che quella presunta notifica poteva anche essere affetta da vizi tali da comportarne la nullità o l’inesistenza.

Alla luce di tali considerazioni, spiega la Corte, i giudici di appello hanno errato nel rigettare il ricorso poiché si sono limitati ad accertare la sola motivazione per relationem omettendo invece di verificare se l’accertamento dell’Ufficio, effettuato nei confronti del de cuius e richiamato nell’atto impugnato ma non allegato, fosse stato comunque conosciuto dal contribuente, o notificato al de cuius, ovvero riprodotto nell’atto impugnato nel suo contenuto essenziale. Non risultava, infatti, condivisibile la tesi dell’Ufficio secondo cui l’atto notificato all’erede evidenziava l’avvenuta consegna dell’atto presupposto, poiché si era in presenza di atto pubblico e, pertanto, assistito da fede privilegiata.

I giudici di legittimità al riguardo hanno evidenziato che tale attribuzione concerne esclusivamente i fatti che il pubblico ufficiale attesta alla sua presenza e non gli effetti giuridici degli atti, quali la notifica. Da qui la violazione da parte della Ctr delle disposizioni che recano l’obbligo di motivazione degli atti tributari.

In conclusione, si ritiene che la decisione della Corte di Cassazione è, ancora una volta, in linea con quanto già stabilito dal consolidato orientamento giurisprudenziale volto a contrastare quella prassi dell’Ufficio, che nel corso di un giudizio, tende spesso ad integrare le carenze motivazionali presenti nell’iniziale atto impositivo con documenti o dossier non notificati con l’originario atto impositivo limitando in questo modo il diritto di difesa del contribuente.