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Whistleblowing e ordinamento italiano

alla luce della direttiva europea 1937/2019
autumn leaves
Ph. Luca Martini / autumn leaves

Indice:

1. Introduzione – breve compendio storico

2. Whistleblowing nelle fonti comunitarie

3. Ambito soggettivo di applicazione

4. Ambito oggettivo di applicazione

5. Conclusioni

 

Abstract

Entro il 17 dicembre 2021 l’Italia ha l’obbligo di recepire la Direttiva europea 1937/2019, intervenuta in tema di segnalazione di illeciti in ambito lavorativo, attività più propriamente nota come “Whistleblowing”.

L’analisi della Direttiva è spunto per lo scrivente di riesame della normativa nazionale. Dopo un primo inquadramento, il confronto risulterà utile per porre in evidenzia le caratteristiche e soprattutto le criticità dell’attuale formulazione italiana, relativa al sistema di segnalazione interna, sì da trarre poi le conclusioni in relazione alle modifiche che si renderanno opportune in sede di recepimento, nonché in termini assoluti per un generale miglioramento della disciplina a beneficio dei protocolli aziendali ex articolo 2083, II co., c.c..

 

1. Introduzione – breve compendio storico

Nell’approcciarci al tema, dapprima si rende necessaria una sintesi introduttiva al fine di fornire quelle informazioni di base per inquadrare meglio il discorso anche in favore di chi si avvicina alla materia per la prima volta.

Già in una passata pubblicazione dal titolo “Il sistema di segnalazione interna – il whistleblowing nell’assetto anticorruzione, antiriciclaggio e nella prevenzione da responsabilità degli Enti”, lo scrivente era chiamato a ripercorrere la genesi dell’Istituto e proprio da quel volume si prenderà spunto per effettuare una breve sintesi che fornisca le basi per approcciarsi al tema de qua.

Il fenomeno del whistleblowing, pur ancora privo di copertura normativa, prende piede negli anni ’70, dapprima negli Stati Uniti e successivamente negli ordinamenti di common law, caratterizzandosi come la “rivelazione spontanea, effettuata da parte di un appartenente ad un’organizzazione pubblica o privata, di un illecito o di un’irregolarità commessa all’interno dell’ente, del quale lo stesso sia stato testimone nell’esercizio delle proprie funzioni”

L’etimologia del termine è suggestiva, richiamando l’attività di “soffiare nel fischietto” tipica di un direttore di gara che segnali un’irregolarità di gioco o, meglio, di un agente di polizia nel tentativo di segnalare e bloccare un’azione illecita.

Ma al di là delle curiosità letterali, l’Istituto giunge in Italia lentamente e non senza ripetuti richiami da parte delle autorità internazionali, atta la passata e prolungata assenza di intervento del legislatore italiano, a seguito degli impegni assunti in sede internazionale.

Tra le molte risoluzioni approvate dall’Italia nei consessi internazionali in materia di whistleblowing, una in particolare, la Civil Law convention on Corruption, varata in seno al Consiglio d’Europa, assume pregnante rilievo, trattandosi dell’unica fonte pattizia in cui l’Italia si assume diretti obblighi di introduzione di misure anti-retaliation per i lanciatori d’allerta: l’articolo 9 della summenzionata Convenzione prescive, infatti, che “each party shall provide in its internal law for appropriate protection against any unjustified sanction for employees who have reasonable grounds to suspect corruption and who report in good faith their suspicion to responsible persons or authorities”.

A seguito delle succitate lentezze del Legislatore e la sottoscrizione di varie risoluzioni sul tema, la dottrina ha iniziato a sviluppare un acceso dibattito sulla reale necessità di introdurre per via normativa un istituto sorto e pensato per gli ordinamenti di common law. Le posizioni allora contrastanti, già affrontate nella succitata pubblicazione a cui si rinvia, sono molto interessanti e meriterebbero una trattazione a parte, che, per ragioni “logistiche”, si è ora costretti ad accantonare per giungere all’anno 2012, allorquando l’intervento della normativa anticorruzione da tempo auspicata introduce con l’articolo 1, comma 51, l. 190/2012, l’articolo 54-bis all’interno del T.U. sul pubblico impiego (TUPI), rubricato “tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti” ed esplicitamente rivolto a tipizzare l’istituto del whistleblowing nell’ordinamento italiano.

La normativa anticorruzione entra dunque a modificare il settore pubblico, approntando tutta una serie di tutele per quei soggetti che decidano di segnalare “condotte illecite” nel contesto lavorativo, mentre il settore privato rimane dapprima sprovvisto di simili istituti, dovendo attendere interventi ad hoc per i settori più delicati, come quello bancario, sul  quale si interviene direttamente emendando il proprio Testo Unico di riferimento (TUB), o ancora si ricorda la disciplina sull’antiriciclaggio, laddove “l’articolo 42 secondo comma del decreto 231/2007 individuava come criterio generale la prassi di trasmettere la segnalazione al responsabile dell’attività, al legale rappresentante o al suo delegato” (cit. A. PARROTTA e R. RAZZANTE in Il sistema di segnalazione interna – il whistleblowing nell’assetto anticorruzione, antiriciclaggio e nella prevenzione da responsabilità degli Enti, 2019, Pacini Editore, Pisa).

Per le realtà private il cambiamento giunge nel 2017, con la Legge n. 179, la quale porta a compimento un progetto, ancora indubbiamente perfettibile, che finalmente sposta la lotta ai fenomeni corruttivi sul campo della prevenzione, istituendo dei canali di comunicazione delle condotte illecite che tutelino i whistleblowers sia nel settore pubblico, sia in quello privato.

 

2. Whistleblowing nelle fonti comunitarie

Nonostante i frequenti interventi da parte di organismi internazionali e un certo attivismo anche da parte di associazioni e ONG, nonché del Governo medesimo per il tramite di missioni-studio all’estero, va comunque tenuto presente, in linea generale, come, secondo una recente indagine in materia, la protezione del whistleblower nell’Unione Europea sia debole: in particolare in 7 paesi su 28, allorquando veniva adottata la Direttiva in esame, non esisteva tutela alcuna in questo senso, mentre in soli nove paesi (tra cui può essere annoverata l’Italia) vi è una normativa puntuale e precisa che regola i rapporti tra coloro che compiono la segnalazione, sia nel settore pubblico, sia privato.

Alla luce di questa recente ispezione sulle varie normative nazionali, è infatti emerso che nel vecchio continente nessun provvedimento legislativo “soddisfa pienamente le convenzioni internazionali e gli standard europei” (così Blueprint for free speech, organizzazione internazionale non governativa che promuove il diritto alla libertà di espressione).

Pertanto, con la proposta legislativa del 23 aprile 2018 della Commissione Europea si è concretizzata la Direttiva Europea 1937/2019 con lo scopo di creare una normativa comunitaria minima da applicarsi in tutti gli Stati dell’Unione in quasi la totalità dei settori nei quali l’Unione ha competenza: appalti pubblici, servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo; sicurezza e conformità dei prodotti; sicurezza dei trasporti; tutela dell’ambiente; radioprotezione e sicurezza nucleare; sicurezza degli alimenti e dei mangimi e salute e benessere degli animali; salute pubblica; protezione dei consumatori; tutela della vita privata e protezione dei dati personali e sicurezza delle reti e dei sistemi informativi. I settori elencati poc’anzi non pregiudicano comunque la possibilità per i Singoli Stati recepenti di prevedere ulteriori settori a cui estendere la disciplina prevista nella Direttiva.

Come già visto dal breve compendio storico in introduzione, l’Italia può annoverarsi tra quei Paesi che già godono di una disciplina piuttosto strutturata in materia, pertanto nel prosieguo sarà compito di chi scrive individuare eventuali criticità e comprendere se vi sono dei profili sui quali sarà necessario intervenire in sede recepente, in particolare avendo a cura due aspetti: i presupposti soggetti oggettivi di applicazione della disciplina europea.

 

3. Ambito soggettivo di applicazione

È necessario delineare un distinguo: il sistema “binario” adottato dal nostro ordinamento (il quale vede da un lato una specifica disciplina concernente il settore pubblico e, dall’altro, una normativa ad hoc per il settore privato) è frammentato in più testi unici e decreti legislativi.

L’articolo 54 bis del D. Lgs 165/2001 sul Pubblico Impiego (TUPI), introdotto dall’articolo 1, comma 51, L. n. 190/2012, poi novellato successivamente con la L. 30 novembre 2017, n. 179, ha accordato tutta una serie di tutele a favore del pubblico dipendente, così come inteso ai sensi dell’articolo 1 TUPI, ossia tutti quei soggetti alle dipendenze di amministrazioni pubbliche (comuni, regioni, province, scuole ecc.).

In secondo luogo, lo strumento in esame è accordato per i dipendenti di un Ente pubblico, ovvero i dipendenti di enti di diritto privati, ma sottoposti a controllo pubblico ex articolo 2359 del Codice civile.

La già citata Legge 179/2017 ha poi ampliato l’ambito di applicazione soggettivo inserendo tra i soggetti legittimati alla segnalazione anche i lavoratori e collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

Un’attenzione particolare, insomma, quella del Legislatore italiano, soprattutto per gli enti di diritto pubblico. La ratio a fondamento di una simile impostazione è pacificamente rintracciabile nell’esigenza di sterilizzare il più possibile tendenze corruttive in un settore che tradizionalmente ne è affetto, ossia quello Pubblico, espandendo l’utilizzo dello strumento ivi discusso al settore privato, solamente nei termini suddetti, ossia quando i privati entrano in contatto con enti pubblici per la fornitura di beni e servizi.

Sempre nell’ambito pubblicistico, peraltro, una disciplina concernente la segnalazione di illeciti non era del tutto ignota al nostro ordinamento. Si ricordi a tal proposito il dettato ex articolo 331 c.p., rubricato “denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio”, il quale prevede l’obbligo in capo a queste due tipologie di soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni o loro servizio, hanno l’obbligo di fare denuncia per iscritto per quei reati perseguibili d’ufficio.

La disciplina penale de qua non è stata esplicitamente coordinata dal Legislatore con la novella del TUPI, dovendo successivamente la dottrina intervenire per strutturare un coordinamento che, ad oggi, appare pacifico.

La previsione ai sensi degli artt. 361 c.p. e 331 c.p.p., infatti, pur prevedendo un obbligo in capo ai Pubblici Funzionari ed Incaricati di un Pubblico Servizio, non pare tuttavia escludere che questi possano comunque godere delle tutele ex articolo 54 bis D. Lgs. 165/2001.

La normativa sul whistleblowing, invece, opera su un doppio fronte di tutele: da un lato, estende il ventaglio di ipotesi di comportamenti ritorsivi censurabili, laddove sotto la locuzione “misure discriminatorie, dirette o indirette” si è inteso inserire la varie condotte di mobbing, bossing, demansionamento, trasferimento ingiustificato etc… e non solo quelle penalmente rilevanti; dall’altro, inserisce le note garanzie a tutela dell’anonimato del dichiarante, pur con alcune eccezioni (in particolare, laddove la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per l’esercizio del diritto di difesa dell’incolpato o qualora il procedimento disciplinare contro la persona oggetto della segnalazione sia esclusivamente basato sul contenuto della segnalazione stessa).

Venendo ora al settore privato, nel cui ambito il D. Lgs. 231/2001 è indubbiamente il più rilevante, sono ravvisabili norme che prevedevano facoltà segnalatorie in capo ai dipendenti, ovvero agli organi interni di controllo, già prima che intervenisse la più recente la Legge 179/2017.

Il Testo Unico Bancario, la normativa sull’antiriciclaggio o il Testo Unico Finanziario già prevedevano modalità di segnalazione di fatti illeciti, studiate appositamente per il proprio ambito operativo.

Anche in seno alla 231 le attività di whistleblowing non erano del tutto ignote, atta la previsione normativa dell’articolo 6 comma 2, lett. d secondo cui l’adozione del modello delineato dal D. Lgs. “231” doveva “prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli”.

Tuttavia una siffatta previsione, del tutto embrionale rispetto ad un vero e proprio sistema strutturato di segnalazioni in stile anglosassone, è stata poi migliorata ed implementata con il già citato intervento del Legislatore del 2017 che, ora, ha stabilito l’obbligo per quegli enti che vogliono dotarsi di gestione ed organizzazione ex D. Lgs. 231/2001 di istituire dei canali di comunicazione idonei, che consentano a quei soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione, ovvero direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa, nonché per tutte quelle persone alle dipendenze di quest’ultimi, di poter segnalare attività illecite di cui si viene a conoscenza in ragioni delle funzioni svolte.

Tali canali così costituiti devono garantire la riservatezza del segnalante, quale incentivo alla segnalazione, nonché quale tutela da eventuali atti di ritorsione o discriminazione, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi connessi all’attività di segnalazione.

Tuttavia, questo sistema può creare un evidente via di elusione per le società che non vorranno dotarsi di un consono sistema di tutela: basterà non organizzarsi secondo il modello previsto dalla L. 231/01.

I sistemi di segnalazione attualmente in vigore, se da un lato risultano obbligatori per il settore pubblico, dall’altro sono facoltativi per gli enti privati, i quali possono, eventualmente, se lo desiderano, dotarsi dei canali di segnalazione nell’ambito della disciplina “231”, creando un’evidente disparità di trattamento tra i dipendenti e soggetti in qualche modo connessi al settore pubblico e coloro che, invece, lavorano per enti privati che non si sono dotati di modelli organizzativi di gestione.

La normativa italiana, pertanto, presenta non poche differenze con quanto disposto dalla Direttiva europea del 2019. In primis perché Bruxelles non effettua un distinguo tra lavoratori del settore pubblico e privato, distinzione che, invece, come sottolineato poc’anzi, comporta una potenziale disparità di trattamento nel nostro ordinamento.

In secondo luogo, perché la Direttiva fornisce una nozione del tutto deformalizzata di “lavoratore” che contempla non solo i dipendenti, dirigenti e amministratori di enti sia privati che pubblici, ma ogni soggetto in qualche modo collegato all’organizzazione ove l’illecito è avvenuto.

Il paragrafo 37 della Direttiva afferma infatti che “Gli Stati membri dovrebbero adoperarsi affinché la necessità della protezione sia stabilita tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti e non solo della natura della relazione, così da coprire l’insieme delle persone collegate in senso ampio all’organizzazione in cui si è verificata la violazione.”

Non solo, questa si spinge pure oltre, giungendo ad accordare tutela anche alle persone giuridiche e fisiche che a vario titolo sono collegate con il segnalante e che per motivi connessi alla segnalazione rischiano di subire ritorsioni, come, potenzialmente, i parenti di quest’ultimo.

Pertanto, la disciplina italiana, seppur ampliata nei contenuti con la Legge 179/2017, dovrà necessariamente novellarsi ulteriormente in sede di adeguamento alla Direttiva di Bruxelles.

A parere di chi scrive, pertanto, perché la Direttiva possa dirsi pienamente recepita, è necessario procedere sotto due aspetti:

  1. deformalizzare la nozione di “lavoratore”, così da rendere meno rigido e più agevole l’accesso all’istituto per tutti quei soggetti che, pur non rientrando formalmente tra i soggetti destinatari della tutela (amministratori, dipendenti ecc.), necessitano comunque di una tutela per il sostanziale rischio di subire ritorsioni connesse ad una segnalazione;
  2. rendere l’adozione dell’istituto ex articolo 6 D. Lgs 231/2001, obbligatoria per l’ambito privato, se non per tutto, almeno per quelle aziende di rilevanti dimensioni, escludendo tutt’al più le realtà più piccole a cui una simile imposizione sfocerebbe, più che una effettiva tutela, in un’opprimente misura burocratica. Conscia di ciò, la Direttiva stessa nei paragrafi che antecedono gli articoli (paragrafi 48 – 50) e all’articolo 8, prevede infatti che le l’obbligo di istituire canali interni di segnalazione debba essere commisurato alle dimensioni dell’impresa, fissando quale discrimine dimensionale la misura di 50 dipendenti. Si renderà, pertanto, indubbiamente necessario emendare la normativa attuale per rendere cogente l’adozione di siffatti modelli organizzativi, non tanto nel settore pubblico, dove l’articolo 54 bis dispone già in tal senso, bensì nel settore privato.

 

4. Ambito oggettivo di applicazione

L’articolo 54 bis fornisce una definizione piuttosto ampia nell’affermare che la segnalazione ha ad oggetto “condotte illecite”, lasciando così spazio a più interpretazioni.

Sempre l’articolo 54 bis afferma, altresì, che la segnalazione della “condotta illecita” debba avvenire nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione.

Quest’ultimo dettato, seppur molto vago, restringe parzialmente l’oggetto della segnalazione, il quale non potrà riguardare qualunque illecito, ma solamente quelli che risultano contrari agli interessi e all’integrità dell’ente pubblico, non rilevando, pertanto, quelle segnalazioni che riguardano sì condotte illecite, ma di natura puramente personale fra dipendenti e che non sono di alcun interesse per la pubblica amministrazione e, tanto meno, lesive per la sua integrità.

A titolo d’esempio, si ipotizzi la condotta in cui Tizio, dipendente di un’istituzione scolastica, minacci, in maniera seria e credibile, di percuotere Caio, suo collega, per reiterate negligenze di quest’ultimo sul luogo di lavoro. La condotta illecita, la minaccia, pur originando all’interno di un contesto lavorativo e per motivi lavorativi, è pacifico che non sia di alcun interesse per la pubblica amministrazione non attentando all’integrità dell’ente.

Tutt’al più, Caio, nel ritenere la condotta di Tizio lesiva potrà intervenire in sede penale.

Ricorda infatti il TAR che “l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre normative e da altre procedure.” (TAR Campania, sez. VI, sentenza n. 3880/18).

Parimenti nel settore privato il D. Lgs. 231/2001 all’articolo 6 consente “di presentare, a tutela dell'integrità dell'ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite”.

Nuovamente il punto cruciale e presupposto necessario per l’azionabilità dell’istituto è “l’integrità dell’ente” e differentemente non potrebbe essere, non essendo ipotizzabile, ed auspicabile, un sistema ove segnalazioni che godono dell’anonimato intervengano nei confronti di qualsivoglia illecito, anche di quelli di natura puramente privata e risolvibili con altri mezzi e in altre sedi.

Inoltre, senza essere eccessivamente maliziosi, è facile immaginare che un ambito oggettivo di applicazione più ampio si presterebbe facilmente a storture ed abusi.

Per completezza del discorso è bene precisare che la discussione relativa all’oggetto della segnalazione risulta ancora oggi assai accesso per tutta una serie di problematiche, in primis la tutela della privacy dei soggetti di cui si raccolgono i dati a seguito di una segnalazione.

Il problema sorge in ordine all’individuazione del fondamento giuridico che autorizzi le Autorità preposte alla ricezione delle segnalazioni al trattamento dei dati così ricevuti. È chiaro, dunque, che i confini di operatività dell’istituto del whistleblowing vanno delineati nella maniera marcata, affinché il conseguente trattamento dei dati, successivo alla segnalazione, non sfoci in una violazione della privacy per assenza dei presupposti giuridici giustificanti il trattamento di quei dati.

Volendo cercare aiuto o ispirazione nella nuova Direttiva, si osserva che questa risulta ancora più fumosa della normativa nazionale, stabilendo all’articolo 2, rubricato “ambito di applicazione materiale” che “la presente direttiva stabilisce norme minime comuni di protezione delle persone che segnalano le seguenti violazioni del diritto dell’Unione” per poi procedere ad un elenco di materie e settori di competenza unionale.

La Direttiva, tratta più semplicemente di “violazioni del diritto dell’Unione” ricorrendo ad una definizione ben più ampia di quella nazionale.

Le finalità della normativa di Bruxelles, pertanto, vanno ricercate all’interno dell’intero documento, tramite un’accorta lettura che ne estrapoli il senso nei vari paragrafi. In particolare, al paragrafo n. 1 ci si riferisce ai segnalatori come coloro che segnalano “violazioni del diritto unionale che ledono il pubblico interesse”.

Ancora, nel paragrafo n. 22 si afferma che “Gli Stati membri potrebbero decidere di prevedere la possibilità che le segnalazioni riguardanti vertenze interpersonali che interessano esclusivamente la persona segnalante, in particolare vertenze riguardanti conflitti interpersonali tra la persona segnalante e un altro lavoratore, possano essere trattate nell’ambito di altre procedure disponibili.”

Da una lettura sintetizzante della Direttiva, pertanto, emerge che la finalità delle segnalazioni sia quella di prevenire condotte lesive degli interessi dell’Unione e non già ogni condotta attinente a vertenze interpersonali. In realtà, va specificato che Bruxelles non esclude a priori che gli Stati membri possano adattare lo strumento del whistleblowing anche al componimento di vicende interpersonali sorte nel contesto lavorativo, però prevede siffatta ipotesi come un’opzione di natura secondaria, stabilendo quale fine primario la tutela di interessi pubblici dell’Unione in tutta una serie di ambiti e settori lì elencati.

Pertanto, per quanto concerne l’ambito di applicazione materiale, è possibile ipotizzare che nessun cambiamento si renderà necessario in tal senso, rispettando la normativa italiana perfettamente quanto auspicato dalla Direttiva.

Volendo però rilevare delle criticità avulse dal recepimento della Direttiva de qua, sicuramente si renderà necessario, o ad opera della Giurisprudenza e Dottrina, come già sta accadendo, o ad opera del Legislatore, un progressivo progetto di delineamento dell’ambito di applicazione oggettivo, soprattutto in relazione al problema sollevato ut supra sul fondamento giuridico di trattamento dei dati.

 

5. Conclusioni

Volendo rassegnare un quadro globale, è possibile affermare che la situazione normativa nazionale, alla luce della Direttiva europea 1937/2019, risulti tutto sommata in linea con le volontà di Bruxelles, soprattutto per quanto concerne i presupposti materiali di applicazione dell’Istituto, rendendosi necessarie delle modifiche più che altro in ordine ai presupposti soggettivi, atta la rigidità dei soggetti legittimati alla segnalazione, nonché la disparità di trattamento tra il settore pubblico e privato.

Tuttavia, al di là dei problemi di delineamento dei presupposti operativi dell’Istituto, su cui Dottrina e Giurisprudenza sono già abilmente al lavoro, si renderà necessaria una grossa opera di informazione dei soggetti legittimati.

Se, infatti, nel corso degli anni si è visto un progressivo aumento di utilizzo dello strumento del whistleblowing, soprattutto nel settore pubblico, nel settore privato le segnalazioni risultano ancora del tutto esigue.

Inoltre, molto spesso, le segnalazioni che pervengono attengono a questioni del tutto personali e per nulla concernenti gli interessi ed integrità dell’ente, il che è sintomo di un sostanziale mancato recepimento culturale della disciplina, ancor prima che formale.

La Direttiva europea che si dovrà adottare a dicembre di quest’anno, pertanto, oltre ad essere uno spunto di analisi giuridica come avvenuto in questa sede, dovrà anche essere l’occasione per attuare operazioni formative e informative dei soggetti legittimati alla segnalazione, affinché costoro non solo abbiano piena consapevolezza di poter disporre di siffatto strumento, ma anche contezza delle sue modalità di utilizzo.