x

x

Abuso d’ufficio, peculato d’uso e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 16 gennaio 2012, n.1208

Massima

I reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio possono concorrere tra loro, pur sostanziandosi in condotte identiche o laddove non ricorra un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose [come nel caso in esame]: la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio.

Sintesi del caso

Ricorreva in Cassazione un condannato in sede di appello alla pena di un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei seguenti reati, in continuazione tra loro:

A) del reato di cui all’art. 323 cod. pen., per avere, nella qualità di assistente della Polizia di Stato in servizio, in violazione dell’art. 10 (comma 2-ter) legge 15 marzo 1991, n. 82, utilizzato per uso personale un appartamento preso in locazione dal Ministero degli interni per adibirlo ad alloggio di soggetti sotto protezione, conducendovi una donna e trattenendosi con la stessa per un certo tempo;

B) del reato di cui all’art. 326, comma primo, cod. pen., per avere, nella predetta qualità, violando i doveri inerenti la sua funzione e il suo servizio e in particolare le disposizioni normative circa il dovere di segreto su tutte le attività riguardanti il servizio di protezione, rivelando alla stessa che l’appartamento nella quale essi si stavano trattenendo era adibito alla protezione di collaboratori.

Quesito da risolvere

La difesa aveva contestato – oltre al fatto del carattere residuale del reato di cui all’art. 323 c.p. rispetto a quello del 326 c.p. - che al momento della consumazione del reato esistessero ancora la segretezza e la riservatezza dell’immobile, sostenendo che il responsabile del servizio regionale di protezione avesse comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche, anche a seguito del fatto che la compagna di un collaboratore di giustizia lo aveva lasciato abbandonando il programma di protezione. Inoltre aveva sostenuto che pur trattandosi di immobile locato dall’Ufficio, ciò non comportava alcuna rivelazione di notizie segrete; che neppure il materiale accesso all’immobile poteva integrare la rivelazione e che sotto il profilo psicologico, il soggetto condannato ben poteva ritenere, per errore di fatto, che l’immobile avesse perso la destinazione ad uso di alloggio di collaboratori, data la comunicazione formale fatta dal dirigente dell’Ufficio di cui sopra e considerato l’abbandono del programma di protezione dei precedenti inquilini. Inoltre veniva sottolineato come fosse insussistente un vantaggio patrimoniale ingiusto, trattandosi di un uso dell’appartamento limitato a pochi minuti, nei quali il soggetto non aveva agito nell’ambito delle sue funzioni o del suo servizio, non valendo a tal fine che egli avesse la materiale disponibilità delle chiavi dell’appartamento e che non sussisteva il dolo intenzionale.

La Corte, respingendo il ricorso, ha rilevato come non in questione la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio. Si è osservato che non ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose.

Normativa di riferimento

Art. 323 cod. pen.

Art. 326 cod. pen.

Legge 15 marzo 1991, n. 82

Nota esplicativa

Osservava la Corte di appello che le prove della responsabilità dell’imputato derivavano dalle dichiarazioni della donna che egli aveva ospitato nell’appartamento destinato a soggetti sotto protezione, ritenute attendibili nonostante l’astio che l’aveva mossa nei confronti del ricorrente e nonostante alcune incertezze di ricordi, riscontrate da dati obiettivi, e in particolare dalle caratteristiche dell’appartamento di cui alle imputazioni, essendo di nessuna consistenza l’alibi dedotto dall’imputato.

La Corte ha ritenuto sussistenti entrambi i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti di ufficio, non potendosi dire che quello di abuso di ufficio fosse assorbito in quello di rivelazione di segreti di ufficio: infatti il primo reato era stato integrato non solo dal fatto della rivelazione di segreti di ufficio, ma anche dall’uso indebito dell’appartamento.

Tale appartamento era infatti di appartenenza dell’amministrazione, e certamente il ricorrente non ne aveva la disponibilità per alcun uso privato. Egli, in ragione del suo servizio era in grado di procurarsi le chiavi dell’appartamento, e tanto basta per ricondurre questa condotta al paradigma dell’abuso di ufficio. L’indebito utilizzo dello stesso ha procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale in quanto il soggetto ha usufruito gratuitamente, sia pure per un limitato spazio temporale, dei relativi locali.

Sussiste sicché il requisito della doppia ingiustizia: egli non poteva utilizzare l’immobile per usi estranei a quelli per i quali esso era adibito e in concreto tale uso ha soddisfatto interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale.

Sentenza difforme e precedenti conformi

Cass. VI, 9/6/1997: assumendo entrambi i reati come presupposto l’abuso delle funzioni inerenti ai compiti istituzionali o al servizio, in caso di unicità della condotta non è tra essi configurabile il concorso formale.

In dottrina si è sostenuto che l’utilizzazione abusiva di segreti di ufficio rappresenta un peculiare caso di abuso di ufficio e l’art. 326 c.p. deve perciò ritenersi una norma speciale rispetto all’art. 323 c.p. (PADOVANI).



Testo sentenza

La sentenza

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza in data 20 aprile 2009 del Tribunale di Cagliari, appellata da C.G. , condannato alla pena di un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei seguenti reati, in continuazione tra loro:

A) del reato di cui all’art. 323 cod. pen., per avere, nella qualità di assistente della Polizia di Stato in servizio presso il Nucleo Operativo di Protezione per la Sardegna, in violazione dell’art. 10 (comma 2-ter) legge 15 marzo 1991, n. 82, utilizzato per uso personale un appartamento sito nella via (omissis) , preso in locazione dal Ministero degli interni per adibirlo ad alloggio di soggetti sotto protezione, conducendovi N.N. e trattenendosi con la stessa per un certo tempo;

B) del reato di cui all’art. 326, comma primo, cod. pen., per avere, nella predetta qualità, violando i doveri inerenti la sua funzione e il suo servizio e in particolare le disposizioni normative circa il dovere di segreto su tutte le attività riguardanti il servizio di protezione, rivelato alla N. che l’appartamento nella quale essi si stavano trattenendo era adibito alla protezione di collaboratori.

Fatti commessi in (omissis) .

2. Osservava la Corte di appello che le prove della responsabilità dell’imputato derivavano dalle dichiarazioni della N. (rese a seguito della rottura della relazione sentimentale con il C. ), ritenute attendibili nonostante l’astio che l’aveva mossa nei confronti del C. e nonostante alcune incertezze di ricordi, riscontrate da dati obiettivi, e in particolare dalle caratteristiche dell’appartamento di cui alle imputazioni, essendo di nessuna consistenza l’alibi dedotto dall’imputato.

Ricorrevano entrambi i reati, non potendosi dire che quello di abuso di ufficio fosse assorbito in quello di rivelazione di segreti di ufficio, posto che il primo reato era stato integrato non solo dal fatto della rivelazione di segreti di ufficio ma anche dall’uso indebito dell’appartamento.

3. Ricorrono per cassazione l’imputato, a mezzo dei difensori avvocati Patrizio Rovelli e Gian Mario Sechi, che deducono i seguenti motivi.

3.1. Inosservanza dell’art. 194 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in punto di valutazione della attendibilità della N. , che in sede di denuncia aveva dichiarato che il C. solo alcuni giorni dopo la loro permanenza nell’appartamento gli aveva rivelato che si trattava di immobile in uso all’ufficio mentre in dibattimento ha riferito che tale confidenza gli venne fatta in quello stesso contesto, tanto che essa, preoccupata per tale improprio uso, aveva deciso dì non trattenersi ulteriormente in esso. Era sfuggito alla Corte di appello che questa seconda versione era idonea ad allontanare qualunque ipotesi di corresponsabilità della M. ed era comunque scarsamente credibile, non comprendendosi per quale motivo il C. , dopo aver detto alla donna che l’immobile era stato da lui affittato per adibirlo a luogo di comune convivenza, avesse subito dopo sentito l’esigenza di smentirsi e di dirle che in realtà si trattava di appartamento in uso all’amministrazione.

3.2. Inosservanza degli artt. 326, 43 e 47 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di rivelazione di segreti di ufficio, posto che: a) la segretezza e la riservatezza dell’immobile era venuta meno già in data 19 novembre 2004, quando il responsabile del servizio regionale di protezione aveva comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche, anche a seguito del fatto che la compagna di un collaboratore di giustizia lo aveva lasciato abbandonando il programma di protezione; b) la generica dichiarazione che il C. avrebbe reso alla N. secondo cui si trattava di immobile locato dall’Ufficio non comportava alcuna rivelazione di notizie segrete; c) neppure il materiale accesso all’immobile poteva integrare la rivelazione; d) sotto il profilo psicologico, poi, il C. ben poteva ritenere, per errore di fatto, che l’immobile avesse perso la destinazione ad uso di alloggio di collaboratori data la comunicazione formale fatta dal dirigente dell’Ufficio di cui sopra e considerato l’abbandono del programma di protezione dei precedenti inquilini.

3.3. Inosservanza dell’art. 323 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di abuso di ufficio, posto che: a) il reato, per il suo carattere di residualità, non può concorrere con quello di rivelazione di segreti di ufficio, tanto più che per ritenere integrate entrambe le fattispecie la Corte di appello hanno fatto riferimento alle identiche condotte (comunicazione verbale e condotta materiale); e in ogni caso nel caso in esame l’uso dell’appartamento sarebbe consistito in una permanenza di quindici-venti minuti, senza utilizzo di acqua o elettricità, essendo allora le utenze state distaccate; b) non sussisteva la violazione della norma richiamata, perché questa se aveva un collegamento con la rivelazione di segreto di ufficio non lo aveva con il vantaggio patrimoniale derivante dall’abuso di ufficio; c) era insussistente un vantaggio patrimoniale ingiusto, trattandosi di un uso dell’appartamento limitato a pochi minuti, né era stata offerta motivazione sul requisito della cd. doppia ingiustizia; d) il C. non aveva agito nell’ambito delle sue funzioni o del suo servizio, non valendo a tal fine che egli avesse la materiale disponibilità delle chiavi dell’appartamento; e) non sussisteva il dolo intenzionale, come sostenutosi nell’atto di appello sulla base di rilievi cui non è stata data alcuna risposta, in particolare rimarcandosi che il C. ben poteva ritenere, per ciò che si è detto, che l’immobile non fosse più utilizzabile a fini istituzionali.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, in tutti i suoi aspetti, appare infondato.

2. Va premesso che, come d’altra parte si riconosce nel ricorso, la Corte di cassazione non ha il compito di stabilire se un teste sia attendibile, dovendo solo accertare se la relativa valutazione del giudice di merito sia adeguata e rispondente alle regole della logica e del diritto.

Nel caso in esame non sono apprezzabili vizi argomentativi di sorta.

3. Quanto alla contestazione di cui al capo A), non appare controvertibile che il C. abbia condotto la N. , con la quale aveva una relazione sentimentale, nell’appartamento di via (omissis) .

Tale appartamento era di appartenenza dell’amministrazione, e certamente il C. non ne aveva la disponibilità per usi privati.

Egli, in ragione del suo servizio (quale appartenente al Nucleo Operativo Protezione per la Sardegna), era in grado di procurarsi le chiavi dell’appartamento, e tanto basta per ricondurre questa condotta al paradigma dell’abuso di ufficio.

L’indebito utilizzo dello stesso ha infatti procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale per il C. , atteso che egli, per il suo incontro intimo con la M. , ha usufruito gratuitamente, sia pure per un limitato spazio temporale, dei relativi locali, nulla rilevando, in particolare, che la breve permanenza non abbia comportato consumi di acqua o elettricità, né che le relative utenze fossero distaccate.

Sussiste all’evidenza il requisito della doppia ingiustizia: il C. non poteva utilizzare l’immobile per usi estranei a quelli per i quali esso era adibito; e in concreto tale uso ha soddisfatto interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale, dato che, diversamente, per dare corso all’incontro intimo egli avrebbe dovuto impegnare una casa privata o, più verosimilmente, un locale a pagamento, quale ad esempio una camera di albergo.

4. Bene è stata ritenuta la configurabilità dell’ulteriore reato di cui all’art. 326 cod. pen..

Non viene in questione la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio.

Viene invece in questione il principio della non assoggettabilità a duplice sanzione penale di una condotta derivante da un unico abuso di funzioni (v. tra le altre, proprio in tema di rapporti tra abuso di ufficio e rivelazione di segreti di ufficio, Sez. 6, n. 7960 del 09/06/1997, Palumbo, Rv. 209757).

Ma, al riguardo, va osservato che non ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose.

Infatti, il C. , dopo avere condotto la N. nell’appartamento, le comunicò che si trattava di immobile destinato alla protezione di collaboratori; si tratta dunque di due distinte e successive condotte, riconducibili ciascuna alle ipotesi criminose contestate (vedi, per analoga fattispecie, Sez. 5, n. 1491 del 15/11/2005, dep. 2006, Cavallari, Rv. 233044).

Non rileva che l’ufficio regionale di Cagliari abbia comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche funzionali, dato che a tale comunicazione non era stato dato riscontro con formale provvedimento ministeriale, di competenza esclusiva della commissione centrale di protezione; che anzi successivamente ai fatti di causa lo stesso appartamento venne adibito ad alloggio di altro collaboratore di giustizia. Né può ragionevolmente sostenersi che il C. abbia in buona fede ritenuto che tale destinazione fosse venuta meno prima ancora del formale provvedimento dell’organo centrale.

5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

Massima

I reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio possono concorrere tra loro, pur sostanziandosi in condotte identiche o laddove non ricorra un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose [come nel caso in esame]: la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio.

Sintesi del caso

Ricorreva in Cassazione un condannato in sede di appello alla pena di un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei seguenti reati, in continuazione tra loro:

A) del reato di cui all’art. 323 cod. pen., per avere, nella qualità di assistente della Polizia di Stato in servizio, in violazione dell’art. 10 (comma 2-ter) legge 15 marzo 1991, n. 82, utilizzato per uso personale un appartamento preso in locazione dal Ministero degli interni per adibirlo ad alloggio di soggetti sotto protezione, conducendovi una donna e trattenendosi con la stessa per un certo tempo;

B) del reato di cui all’art. 326, comma primo, cod. pen., per avere, nella predetta qualità, violando i doveri inerenti la sua funzione e il suo servizio e in particolare le disposizioni normative circa il dovere di segreto su tutte le attività riguardanti il servizio di protezione, rivelando alla stessa che l’appartamento nella quale essi si stavano trattenendo era adibito alla protezione di collaboratori.

Quesito da risolvere

La difesa aveva contestato – oltre al fatto del carattere residuale del reato di cui all’art. 323 c.p. rispetto a quello del 326 c.p. - che al momento della consumazione del reato esistessero ancora la segretezza e la riservatezza dell’immobile, sostenendo che il responsabile del servizio regionale di protezione avesse comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche, anche a seguito del fatto che la compagna di un collaboratore di giustizia lo aveva lasciato abbandonando il programma di protezione. Inoltre aveva sostenuto che pur trattandosi di immobile locato dall’Ufficio, ciò non comportava alcuna rivelazione di notizie segrete; che neppure il materiale accesso all’immobile poteva integrare la rivelazione e che sotto il profilo psicologico, il soggetto condannato ben poteva ritenere, per errore di fatto, che l’immobile avesse perso la destinazione ad uso di alloggio di collaboratori, data la comunicazione formale fatta dal dirigente dell’Ufficio di cui sopra e considerato l’abbandono del programma di protezione dei precedenti inquilini. Inoltre veniva sottolineato come fosse insussistente un vantaggio patrimoniale ingiusto, trattandosi di un uso dell’appartamento limitato a pochi minuti, nei quali il soggetto non aveva agito nell’ambito delle sue funzioni o del suo servizio, non valendo a tal fine che egli avesse la materiale disponibilità delle chiavi dell’appartamento e che non sussisteva il dolo intenzionale.

La Corte, respingendo il ricorso, ha rilevato come non in questione la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio. Si è osservato che non ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose.

Normativa di riferimento

Art. 323 cod. pen.

Art. 326 cod. pen.

Legge 15 marzo 1991, n. 82

Nota esplicativa

Osservava la Corte di appello che le prove della responsabilità dell’imputato derivavano dalle dichiarazioni della donna che egli aveva ospitato nell’appartamento destinato a soggetti sotto protezione, ritenute attendibili nonostante l’astio che l’aveva mossa nei confronti del ricorrente e nonostante alcune incertezze di ricordi, riscontrate da dati obiettivi, e in particolare dalle caratteristiche dell’appartamento di cui alle imputazioni, essendo di nessuna consistenza l’alibi dedotto dall’imputato.

La Corte ha ritenuto sussistenti entrambi i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti di ufficio, non potendosi dire che quello di abuso di ufficio fosse assorbito in quello di rivelazione di segreti di ufficio: infatti il primo reato era stato integrato non solo dal fatto della rivelazione di segreti di ufficio, ma anche dall’uso indebito dell’appartamento.

Tale appartamento era infatti di appartenenza dell’amministrazione, e certamente il ricorrente non ne aveva la disponibilità per alcun uso privato. Egli, in ragione del suo servizio era in grado di procurarsi le chiavi dell’appartamento, e tanto basta per ricondurre questa condotta al paradigma dell’abuso di ufficio. L’indebito utilizzo dello stesso ha procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale in quanto il soggetto ha usufruito gratuitamente, sia pure per un limitato spazio temporale, dei relativi locali.

Sussiste sicché il requisito della doppia ingiustizia: egli non poteva utilizzare l’immobile per usi estranei a quelli per i quali esso era adibito e in concreto tale uso ha soddisfatto interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale.

Sentenza difforme e precedenti conformi

Cass. VI, 9/6/1997: assumendo entrambi i reati come presupposto l’abuso delle funzioni inerenti ai compiti istituzionali o al servizio, in caso di unicità della condotta non è tra essi configurabile il concorso formale.

In dottrina si è sostenuto che l’utilizzazione abusiva di segreti di ufficio rappresenta un peculiare caso di abuso di ufficio e l’art. 326 c.p. deve perciò ritenersi una norma speciale rispetto all’art. 323 c.p. (PADOVANI).



Testo sentenza

La sentenza

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza in data 20 aprile 2009 del Tribunale di Cagliari, appellata da C.G. , condannato alla pena di un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei seguenti reati, in continuazione tra loro:

A) del reato di cui all’art. 323 cod. pen., per avere, nella qualità di assistente della Polizia di Stato in servizio presso il Nucleo Operativo di Protezione per la Sardegna, in violazione dell’art. 10 (comma 2-ter) legge 15 marzo 1991, n. 82, utilizzato per uso personale un appartamento sito nella via (omissis) , preso in locazione dal Ministero degli interni per adibirlo ad alloggio di soggetti sotto protezione, conducendovi N.N. e trattenendosi con la stessa per un certo tempo;

B) del reato di cui all’art. 326, comma primo, cod. pen., per avere, nella predetta qualità, violando i doveri inerenti la sua funzione e il suo servizio e in particolare le disposizioni normative circa il dovere di segreto su tutte le attività riguardanti il servizio di protezione, rivelato alla N. che l’appartamento nella quale essi si stavano trattenendo era adibito alla protezione di collaboratori.

Fatti commessi in (omissis) .

2. Osservava la Corte di appello che le prove della responsabilità dell’imputato derivavano dalle dichiarazioni della N. (rese a seguito della rottura della relazione sentimentale con il C. ), ritenute attendibili nonostante l’astio che l’aveva mossa nei confronti del C. e nonostante alcune incertezze di ricordi, riscontrate da dati obiettivi, e in particolare dalle caratteristiche dell’appartamento di cui alle imputazioni, essendo di nessuna consistenza l’alibi dedotto dall’imputato.

Ricorrevano entrambi i reati, non potendosi dire che quello di abuso di ufficio fosse assorbito in quello di rivelazione di segreti di ufficio, posto che il primo reato era stato integrato non solo dal fatto della rivelazione di segreti di ufficio ma anche dall’uso indebito dell’appartamento.

3. Ricorrono per cassazione l’imputato, a mezzo dei difensori avvocati Patrizio Rovelli e Gian Mario Sechi, che deducono i seguenti motivi.

3.1. Inosservanza dell’art. 194 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in punto di valutazione della attendibilità della N. , che in sede di denuncia aveva dichiarato che il C. solo alcuni giorni dopo la loro permanenza nell’appartamento gli aveva rivelato che si trattava di immobile in uso all’ufficio mentre in dibattimento ha riferito che tale confidenza gli venne fatta in quello stesso contesto, tanto che essa, preoccupata per tale improprio uso, aveva deciso dì non trattenersi ulteriormente in esso. Era sfuggito alla Corte di appello che questa seconda versione era idonea ad allontanare qualunque ipotesi di corresponsabilità della M. ed era comunque scarsamente credibile, non comprendendosi per quale motivo il C. , dopo aver detto alla donna che l’immobile era stato da lui affittato per adibirlo a luogo di comune convivenza, avesse subito dopo sentito l’esigenza di smentirsi e di dirle che in realtà si trattava di appartamento in uso all’amministrazione.

3.2. Inosservanza degli artt. 326, 43 e 47 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di rivelazione di segreti di ufficio, posto che: a) la segretezza e la riservatezza dell’immobile era venuta meno già in data 19 novembre 2004, quando il responsabile del servizio regionale di protezione aveva comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche, anche a seguito del fatto che la compagna di un collaboratore di giustizia lo aveva lasciato abbandonando il programma di protezione; b) la generica dichiarazione che il C. avrebbe reso alla N. secondo cui si trattava di immobile locato dall’Ufficio non comportava alcuna rivelazione di notizie segrete; c) neppure il materiale accesso all’immobile poteva integrare la rivelazione; d) sotto il profilo psicologico, poi, il C. ben poteva ritenere, per errore di fatto, che l’immobile avesse perso la destinazione ad uso di alloggio di collaboratori data la comunicazione formale fatta dal dirigente dell’Ufficio di cui sopra e considerato l’abbandono del programma di protezione dei precedenti inquilini.

3.3. Inosservanza dell’art. 323 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di abuso di ufficio, posto che: a) il reato, per il suo carattere di residualità, non può concorrere con quello di rivelazione di segreti di ufficio, tanto più che per ritenere integrate entrambe le fattispecie la Corte di appello hanno fatto riferimento alle identiche condotte (comunicazione verbale e condotta materiale); e in ogni caso nel caso in esame l’uso dell’appartamento sarebbe consistito in una permanenza di quindici-venti minuti, senza utilizzo di acqua o elettricità, essendo allora le utenze state distaccate; b) non sussisteva la violazione della norma richiamata, perché questa se aveva un collegamento con la rivelazione di segreto di ufficio non lo aveva con il vantaggio patrimoniale derivante dall’abuso di ufficio; c) era insussistente un vantaggio patrimoniale ingiusto, trattandosi di un uso dell’appartamento limitato a pochi minuti, né era stata offerta motivazione sul requisito della cd. doppia ingiustizia; d) il C. non aveva agito nell’ambito delle sue funzioni o del suo servizio, non valendo a tal fine che egli avesse la materiale disponibilità delle chiavi dell’appartamento; e) non sussisteva il dolo intenzionale, come sostenutosi nell’atto di appello sulla base di rilievi cui non è stata data alcuna risposta, in particolare rimarcandosi che il C. ben poteva ritenere, per ciò che si è detto, che l’immobile non fosse più utilizzabile a fini istituzionali.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, in tutti i suoi aspetti, appare infondato.

2. Va premesso che, come d’altra parte si riconosce nel ricorso, la Corte di cassazione non ha il compito di stabilire se un teste sia attendibile, dovendo solo accertare se la relativa valutazione del giudice di merito sia adeguata e rispondente alle regole della logica e del diritto.

Nel caso in esame non sono apprezzabili vizi argomentativi di sorta.

3. Quanto alla contestazione di cui al capo A), non appare controvertibile che il C. abbia condotto la N. , con la quale aveva una relazione sentimentale, nell’appartamento di via (omissis) .

Tale appartamento era di appartenenza dell’amministrazione, e certamente il C. non ne aveva la disponibilità per usi privati.

Egli, in ragione del suo servizio (quale appartenente al Nucleo Operativo Protezione per la Sardegna), era in grado di procurarsi le chiavi dell’appartamento, e tanto basta per ricondurre questa condotta al paradigma dell’abuso di ufficio.

L’indebito utilizzo dello stesso ha infatti procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale per il C. , atteso che egli, per il suo incontro intimo con la M. , ha usufruito gratuitamente, sia pure per un limitato spazio temporale, dei relativi locali, nulla rilevando, in particolare, che la breve permanenza non abbia comportato consumi di acqua o elettricità, né che le relative utenze fossero distaccate.

Sussiste all’evidenza il requisito della doppia ingiustizia: il C. non poteva utilizzare l’immobile per usi estranei a quelli per i quali esso era adibito; e in concreto tale uso ha soddisfatto interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale, dato che, diversamente, per dare corso all’incontro intimo egli avrebbe dovuto impegnare una casa privata o, più verosimilmente, un locale a pagamento, quale ad esempio una camera di albergo.

4. Bene è stata ritenuta la configurabilità dell’ulteriore reato di cui all’art. 326 cod. pen..

Non viene in questione la clausola di consunzione di cui all’art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all’art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio.

Viene invece in questione il principio della non assoggettabilità a duplice sanzione penale di una condotta derivante da un unico abuso di funzioni (v. tra le altre, proprio in tema di rapporti tra abuso di ufficio e rivelazione di segreti di ufficio, Sez. 6, n. 7960 del 09/06/1997, Palumbo, Rv. 209757).

Ma, al riguardo, va osservato che non ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose.

Infatti, il C. , dopo avere condotto la N. nell’appartamento, le comunicò che si trattava di immobile destinato alla protezione di collaboratori; si tratta dunque di due distinte e successive condotte, riconducibili ciascuna alle ipotesi criminose contestate (vedi, per analoga fattispecie, Sez. 5, n. 1491 del 15/11/2005, dep. 2006, Cavallari, Rv. 233044).

Non rileva che l’ufficio regionale di Cagliari abbia comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche funzionali, dato che a tale comunicazione non era stato dato riscontro con formale provvedimento ministeriale, di competenza esclusiva della commissione centrale di protezione; che anzi successivamente ai fatti di causa lo stesso appartamento venne adibito ad alloggio di altro collaboratore di giustizia. Né può ragionevolmente sostenersi che il C. abbia in buona fede ritenuto che tale destinazione fosse venuta meno prima ancora del formale provvedimento dell’organo centrale.

5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali