Per l’abuso d’ufficio il legislatore ha realizzato una abrogatio sine abolitione

Per l’abuso d’ufficio il legislatore ha realizzato una abrogatio sine abolitione: Cass. Sez. VI pen. n. 4520/2025 (sentenza Felicita)
La Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4520 del 4 febbraio 2025, si è pronunciata sui rapporti tra i reati di indebita destinazione di denaro o di cose mobili (art. 314-bis C.p.), peculato (art. 314 C.p.) e abuso di ufficio (art. 323 C.p., abrogato).
Il caso
Con la sentenza di primo grado del 13 gennaio 2022 il Tribunale di Roma ha dichiarato due imputati colpevoli: il primo dei reati di abuso di ufficio e corruzione propria, il secondo dei reati di abuso d’ufficio, corruzione propria e peculato, condannandoli, rispettivamente, a una pena di quattro e otto anni di reclusione.
La sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Roma ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, assolvendo un imputato da uno dei reati di peculato contestati, dichiarando l’estinzione di un altro reato per l’avvenuta prescrizione e rideterminando la pena inflitta. La Corte di appello ha confermato nel resto la sentenza impugnata.
Gli imputati hanno quindi proposto ricorso in Cassazione. Gli avvocati hanno dedotto diversi motivi di gravame, dei quali risultano particolarmente significativi ai fini dell’analisi dei principi sviluppati dalla Suprema Corte: a) l’inosservanza della legge penale e la mancanza della motivazione in ordine alla richiesta di riqualificazione del delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio nel delitto di corruzione per l’esercizio della funzione, b) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine ai delitti di peculato, c) il motivo aggiunto relativo all’applicazione dell’art. 314-bis C.p per le condotte di peculato contestate, e la relativa determinazione della non punibilità per la sopravvenuta abolitio criminis.
La questione
La Suprema Corte, anzitutto, si è pronunciata sul rapporto tra il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione pubblica ex art. 318 del C.p. e il delitto di corruzione propria ex art. 319 C.p., quindi sulla concezione giurisprudenziale delle nozioni di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio (artt. 357 e 358 C.p.) e infine sul rapporto tra il reato di peculato (art. 314 C.p.), l’abrogato reato di abuso d’ufficio (art. 323 C.p.) e il nuovo reato di indebita destinazione di denaro o di cose mobili (art. 314-bis C.p.).
La soluzione
In primo luogo, la Corte di legittimità ha affermato che il reato di corruzione per l’esercizio della funzione pubblica di cui all’art. 318 C.p. si differenzia dal reato di corruzione propria di cui al successivo art. 319 C.p., per la natura di reato di pericolo. Il reato di corruzione per l’esercizio della funzione pubblica, infatti, sanziona penalmente «la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l’individuazione del compimento di uno specifico atto d’ufficio». Secondo la Corte, è sussumibile nella previsione dell’art. 318 C.p., e non nella fattispecie più severamente punita dall’art. 319 C.p., lo stabile asservimento del pubblico ufficiale a interessi personali e di terzi, attraverso l’impegno a compiere o a omettere una serie di atti ricollegabili alla funzione esercitata. Solo nel caso di compimento di atti contrari ai doveri di ufficio si avrebbe perciò l’integrazione della fattispecie di corruzione propria prevista dall’art. 319 C.p.. La Corte ha quindi precisato che è orientamento costante della giurisprudenza di legittimità ricondurre il momento perfezionativo del delitto di corruzione alternativamente nella accettazione della promessa ovvero nella dazione, identificata nella ricezione dell’utilità. Qualora alla promessa segua la dazione – ricezione dell’utilità, secondo il Supremo Consesso il momento consumativo è da individuarsi nella seconda e ultima condotta.
Nell’analisi dei contestati delitti di peculato, la Corte ha affermato che il legislatore ha delineato le nozioni di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, ex artt. 357 e 358 C.p., secondo una «concezione oggettivo-funzionale». Tale concezione ha inteso superare la disciplina antecedente alla legge n. 86 del 1990, che riferiva le nozioni al “rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione”. L’attuale formulazione degli artt. 357 e 358 C.p. prevede che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio «svolga in concreto attività tipiche dell’attività pubblica, che può manifestarsi nelle forme della pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, prescindendo dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con l’ente». Testualmente, la Corte riconosce che «ai fini del riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale “agli effetti della legge penale”, non deve aversi riguardo alla natura dell’ente da cui lo stesso dipende, né alla tipologia del relativo rapporto di impiego, né ancora all’esistenza di un formale rapporto con lo Stato pubblico, ma deve valutarsi esclusivamente la natura dell’attività effettivamente espletata dall’agente, ancorché lo stesso sia un soggetto “privato”».
Pertanto, dalla riforma del ’90, le qualificazioni di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio prescindono da qualsiasi rapporto di impiego con lo Stato o altro ente pubblico.
È, comunque, escluso l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio quando l’attività svolta dal soggetto è regolata in forma privatistica, anche se ne è parte «una persona giuridica pubblica o una società partecipata quasi totalitariamente da un ente pubblico».
Infine, la Corte si è pronunciata sul nuovo reato di indebita destinazione di cui all’art. 314-bis C.p., introdotto dal decreto legge 4 luglio 2024, convertito dalla legge 8 agosto 2024, n. 112.
Per la Sesta sezione penale della Cassazione, la nuova fattispecie criminosa presenta, sul piano del fatto tipico oggettivo, il medesimo oggetto materiale del peculato: il soggetto attivo del reato – il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio –, infatti, per ragione del suo ufficio o servizio, deve avere il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui. Al contempo, la fattispecie presenta elementi dell’abuso d’ufficio: sul piano oggettivo, infatti, la condotta di destinazione del bene ad uso diverso deve contrastare, così com’era per l’abrogato art. 323 C.p., con specifiche disposizioni di legge o con atti aventi forza di legge dai quali non residuino margini di discrezionalità. Corrispondenti alla fattispecie dell’abuso d’ufficio sono, inoltre, l’evento del reato, individuato in un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri, in alternativa all’altrui danno ingiusto, e l’elemento soggettivo del dolo intenzionale.
La Corte si è quindi soffermata sull’evoluzione legislativa del peculato ex art. 314 C.p.: nella versione originaria del Codice del 1930 era previsto che il delitto potesse essere commesso in due forme alternative: l’appropriazione e la distrazione. Con la legge n. 86 del 1990, tuttavia, il legislatore ha espunto dall’art. 314 C.p. il riferimento alla distrazione a profitto proprio o di altri, al fine di sussumere le condotte nella fattispecie dell’abuso di ufficio.
Le Sezioni unite Vattani, tuttavia, hanno rilevato che l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 C.p. non ha determinato puramente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nella fattispecie di abuso di ufficio. Qualora, infatti, la distrazione del denaro o di cosa mobile altrui comporti il soddisfacimento di interessi privati viene comunque integrato il delitto di peculato.
La condotta distrattiva, quindi, può rilevare come abuso d’ufficio quando la destinazione del bene mantenga la propria natura pubblica senza favorire interessi estranei alla pubblica amministrazione.
Tanto premesso, la fattispecie di indebita destinazione ex art. 314-bis ricorre una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 314 C.p., come si evince dalla clausola di riserva “fuori dai casi previsti dall’art. 314”. Le condotte distrattive di peculato, pertanto, rimangono punibili ai sensi dell’art. 314 C.p.
Al contempo, la nuova fattispecie ex art. 314-bis C.p. punisce le condotte di indebita destinazione di denaro o cose mobili ritenute, prima che venisse abrogato, quali condotte proprie dell’abuso di ufficio.
È quindi una fattispecie che punisce le condotte di “abuso distrattivo” di fondi pubblici, finora sussunte nell’art. 323 C.p.
Con riferimento all’art. 323 C.p. non si è dunque verificata una abolitio criminis, ma una abrogatio sine abolitione: mantengono infatti rilevanza penale ai sensi del nuovo art. 314-bis le condotte di indebita destinazione che prima integravano l’abuso distrattivo di ufficio.
Così afferma la Suprema Corte: «Il legislatore, rispetto alle condotte di indebita destinazione punibili dalla disciplina previgente come abuso (distrattivo) d’ufficio, ha, tuttavia, inteso realizzare un’abrogatio sine abolitione parziale, rendendo non più punibili le condotte che non abbiano comportato violazioni di specifiche violazioni di legge o disposizioni che lasciano residuare margini di discrezionalità del pubblico agente»