L’opportunità di codificare la fattispecie di stalking occupazionale
L’opportunità di codificare la fattispecie di stalking occupazionale
Premessa
Lo stalking occupazionale è un peculiare fenomeno persecutorio, che potrebbe essere definito come una species del più ampio genus di stalking. In termini giuridici, dunque, ci si riferisce al reato di atti persecutori disciplinato all’art. 612 bis del Codice penale. La particolarità della fattispecie in esame consiste nel fatto che l’attività persecutoria origina all’interno del luogo di lavoro dello stalker e della vittima, per poi proseguire e degenerare nella vita privata di quest’ultima. Si tratta di una fattispecie di origine giurisprudenziale di cui si è occupata, con particolare riguardo, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte.
Lo stalking occupazionale, inoltre, rientra tra le categorie di conflittualità lavorativa ed è stato definito da massimi esperti quali, ad esempio, lo psicologo Harald Ege, la forma di persecuzione più grave in assoluto che può svilupparsi in contesti lavorativi.
Tale fenomeno, peraltro, è in costante crescita: negli ultimi anni, infatti, si è registrato un preoccupante aumento di casi. La Quinta sezione penale della Corte di Cassazione, invero, già nel 2020 con la sentenza n. 13450/2022 aveva definito condotte integranti la fattispecie in esame come “fatti gravi che destano allarme sociale”.
Quando si configura dunque lo stalking occupazionale? Per rispondere al quesito è necessario premettere che tale attività persecutoria non è attualmente codificata, e proprio per tale motivo, sono emerse varie problematiche, di cui si dirà a breve. È tuttavia possibile individuare gli elementi tipici del fenomeno attraverso lo studio di sentenze della Cassazione, specialmente della Quinta sezione penale e del reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.
Come si è detto, invero, lo stalking occupazionale è una species del c.d. stalking, disciplinato all’art. 612 bis c.p. In quanto tale, pertanto, ai fini dell’integrazione della fattispecie de quo, devono sussistere i medesimi requisiti, oggettivi e soggettivi, del reato di atti persecutori. Un classico esempio di stalking occupazionale è stato descritto proprio dalla Suprema Corte, Sezione quinta penale, con la sentenza 12827/2022. Nel caso di specie, infatti, gli Ermellini ha rigettato il ricorso in Cassazione proposto da un imprenditore avverso la sentenza della Corte d’appello con cui veniva condannato per il reato di atti persecutori aggravato. Egli aveva posto in essere condotte reiterate di minaccia e denigratorie nei confronti di alcune dipendenti, anche inviando alle stesse infondate contestazioni di addebiti disciplinari, ingenerando così nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e costringendole, di conseguenza, ad alterare le loro abitudini di vita.
Problema giuridico
Dopo aver definito cosa si intende per stalking occupazionale è opportuno trattare ora il grande problema ad esso associato: l’assenza di normazione. Come già anticipato supra, infatti, il fenomeno in esame non è attualmente codificato. Inevitabilmente, dunque, è emerso un preoccupante vuoto di tutela per le vittime. Vi è poi una seconda questione, parimenti importante ed effetto collaterale della mancanza di riferimenti normativi dello stalking occupazionale: l’incertezza del diritto.
Analizzando la giurisprudenza recente della Suprema Corte in tema di condotte persecutorie insorte in ambito lavorativo, invero, ci si rende conto di come diverse Sezioni applichino, di volta in volta, distinte fattispecie. In particolare, la Sez. Quinta tende a qualificare tali condotte nell’alveo del reato di cui all’art. 612 bis c.p.; la Sez. Sesta, invece, generalmente le ingloba nella fattispecie di maltrattamenti contro familiari o conviventi ex art. 572 c.p. Questa soluzione, tuttavia, presenta non poche criticità, atteso che il delitto citato richiede il requisito della para-familiarità e, quindi, limita fortemente l’ambito di applicazione dello stesso. Recentemente, infatti, la stessa Sesta sezione ha rilevato questo limite intrinseco, aprendo invece alla possibilità di punire condotte persecutorie sul luogo di lavoro tramite il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p.
Un autorevole giurista, il magistrato Raffaele Guariniello, peraltro, ha addirittura definito tale divergenza tra le Sezioni della Suprema Corte come uno “scontro silenzioso” ed ha più volte evidenziato tale problematicità, auspicando quanto prima un intervento normativo.
La non unanimità interpretativa all’interno del Supremo Consesso sul punto, dunque, ha causato non poche incertezze per quanto riguarda il principio di certezza del diritto e di omogeneità di tutela in casi dello stesso tipo.
L’aleatorietà del contesto attuale, peraltro, è ben rappresentata da una recente sentenza della Sezione Quinta penale della Cassazione, la n. 4567/2024. Gli Ermellini, con tale decisum, infatti, hanno qualificato condotte persecutorie e vessatorie poste in essere da un titolare di una società nei confronti di alcuni dipendenti come reato di violenza privata, ex art. 610 del Codice penale. La ragione sarebbe da ricercarsi nel fatto che l’imputato aveva determinato nelle persone offese l’insorgere di un quid pluris rispetto alle minacce e alle violenze contestate, consistente nel condizionamento pro-futuro delle loro azioni. È bene sottolineare che le condotte poste in essere dall’imputato nel corso dei vari gradi di giudizio sono state riqualificate ben tre volte. In un primo momento, infatti, era stato contestato al prevenuto il reto di maltrattamenti ai sensi dell’art. 572 c.p., in un secondo momento riqualificato in 612 bis (stalking occupazionale) e infine in violenza privata ex art. 610 c.p.
È di tutta evidenza, dunque, che vi sia la necessità di risolvere tale situazione. È altresì lampante che un intervento legislativo in tema di stalking occupazionale sia tanto auspicabile quanto necessario. Anche in dottrina, ormai, si sta rafforzando sempre di più tale convinzione. Una codifica dello stalking occupazionale, inoltre, permetterebbe all’Italia di parificarsi ad altri Stati europei, che si sono già mossi in tal senso. Basti pensare alla Francia e all’art. 222-333-22 del Code Pénal, che punisce proprio “chi molesta una persona attraverso comportamenti ripetuti aventi per oggetto o effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibili di alterare la sua saluta fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale”.
Un altro modello di riferimento, a parere di chi scrive, è rappresentato dalla Repubblica di San Marino. L’art. 181 bis del Codice penale sanmarinese disciplina, infatti, il reato di atti persecutori e prevede un aumento di pena nel caso in cui l’attività persecutoria avvenga nel luogo di lavoro (stalking occupazionale).
Giova precisare, infine, che nelle scorse legislature sono stati presentati più volte disegni di legge con il fine di introdurre una apposita fattispecie di stalking occupazionale, attraverso l’introduzione dell’art. 612-ter nel Codice penale.
Possibili soluzioni
Dopo aver analizzato le problematiche derivanti dall’assenza di una disciplina normativa di stalking occupazionale e dopo aver appurato che un intervento legislativo sul punto si è reso ormai necessario, è d’obbligo porsi la seguente domanda: quali sono le possibili soluzioni?
Vi sono sostanzialmente due alternative: o si introduce un’autonoma fattispecie di reato di stalking occupazionale, oppure si attribuisce rilevanza penale al contesto lavorativo disciplinando il fenomeno in esame come circostanza aggravante del reato di atti persecutori ex art. 612 bis. In dottrina vi è chi sostiene l’una e chi l’altra tesi, forse la seconda ipotesi appare più condivisibile.
Lo stalking occupazionale, infatti, è comunque una forma di persecuzione che, si ribadisce, presenta la stessa struttura del reato di atti persecutori. Da questo punto di vista, dunque, introdurlo come autonoma fattispecie potrebbe essere superfluo. Diversamente, invece, è del tutto assente, nel nostro Codice penale, il riferimento al contesto lavorativo. In questo senso, quindi, come già sottolineato da alcuni giuristi, la specificità e l’importanza del settore richiede quanto meno l’introduzione di una circostanza aggravante del reato di atti persecutori.
Ciò posto, quali vantaggi comporterebbe una previsione normativa dello stalking occupazionale? Innanzitutto, attraverso tale fattispecie potrebbe assumere rilevanza penale il mobbing, fenomeno molto diffuso e su cui da tempo si discute. Sempre più insistentemente, infatti, sia giurisprudenza che dottrina hanno aperto alla possibilità di poter punire condotte mobbizzanti attraverso il reato di atti persecutori. Si pensi ad esempio alla sentenza n. 31273/2020 della Quinta sezione penale della Cassazione, con cui i Giudici hanno dato origine all’ormai consolidato orientamento in base al quale lo stalking integra il mobbing laddove tali condotte siano idonee a provocare nella vittima uno degli eventi alternativamente previsti dall’art. 612 bis c.p.
Ancora, la codificazione dello stalking occupazionale potrebbe rappresentare un punto di svolta nel contrasto a tutte le forme di violenza e molestia nei luoghi di lavoro. Attualmente, infatti, il quadro normativo sul punto appare ancora frammentato e inefficace. È invero costituito da normative, Convenzioni, Raccomandazioni e disegni di legge puntualmente disattesi.
Infine, la previsione normativa della fattispecie de quo permetterebbe una volta per tutte di risolvere il conflitto attualmente in atto tra alcune sezioni della Cassazione penale sul punto.
In conclusione, quindi, se da un lato l’ipotesi di codificare lo stalking occupazionale presenta questioni tecniche da risolvere, dall’altro fornirebbe un importante strumento di tutela per tutti coloro che hanno subìto e continuano a subire condotte persecutorie nei luoghi di lavoro.