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Aiuto in casa a titolo oneroso: tra lavoro domestico e collocamento "alla pari"

Nota a Corte Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 21 dicembre 2010, n. 25859
Italian Abstract

L’autore analizza la sentenza n. 25859 del 21 dicembre 2010 della Corte di Cassazione, sezione lavoro con la quale si ribadisce il principio di diritto secondo cui: “Lo scambio di prestazioni di lavoro domestico rese da una straniera estranea alla famiglia, contro vitto, alloggio e retribuzione sia pur di modesta entità dà luogo a un rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto c.d. alla pari, richiesti dalla Legge n. 304/1973”.

English Abstract

The author analyses the judgment n.25859/2010 of the Italian Supreme Court in which it is stated a consolidated rule: "The au pair relationship (L. 304/1973) must be demonstrated by the host family otherwise the relationship is considered a subordinate domestic employment".

Il lavoro domestico rappresenta il più tipico dei rapporti di lavoro subordinato non inerente all’esercizio dell’impresa.

Esso si caratterizza per l’espletamento di un’attività finalizzata al soddisfacimento dei bisogni familiari o personali del datore di lavoro.

La sua disciplina si rinviene nel codice civile (artt. 2240 – 2246) e poi nella Legge 2 aprile 1958 n. 339; quest’ultima, però è applicabile ai soli prestatori impegnati in modo continuo e prevalente per almeno quattro ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro.

Particolari problemi di qualificazione si pongono in caso di prestazioni di lavoro domestico rese da persone estranee alla famiglia e di altra nazionalità, in cambio di vitto, alloggio e retribuzione pecuniaria.

In questi casi, la disciplina del lavoro domestico potrebbe collidere con quella del rapporto c.d. alla pari di cui alla Legge n.304 del 18 maggio 1973.

Il collocamento alla pari disciplinato dalla Legge n. 304 del 1973 con la quale l’Italia ha ratificato l’Accordo Europeo del Consiglio di Europa sul collocamento alla pari adottato a Strasburgo nel 1969, consiste nell’accoglimento temporaneo all’interno di una famiglia, in cambio di alcune prestazioni domestiche, di giovani stranieri venuti allo scopo di incrementare le loro conoscenze linguistiche, la loro cultura generale e una migliore conoscenza del paese ospitante; esso dunque ha finalità prevalentemente culturali e solo indirettamente lavorative.

Si capisce pertanto come il lavoro c.d. alla pari non sia di regola assimilabile al lavoro domestico poiché è un rapporto che sorge tra le parti esclusivamente in chiave umanitaria, ciò spiega le notevoli differenze di disciplina in termini di assenza di subordinazione, flessibilità del rapporto, variabilità dell’impegno richiesto e limiti di età.

Tuttavia, esso può essere oggetto di abusi tali da renderlo, di fatto, un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, in questi casi sarà doveroso applicare la disciplina del lavoro domestico.

Sul punto si è di recente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro con sentenza del 21 dicembre 2010 n. 25859.

La sentenza in esame è stata resa a seguito di un ricorso proposto da una giovane lavoratrice straniera, avverso una pronuncia della Corte di Appello di Roma (Sent. N. 210/06) la quale, confermando la sentenza di primo grado, aveva ribadito l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra la ricorrente e una famiglia ospitante.

La lavoratrice con il proprio ricorso lamentava una violazione e falsa applicazione delle regole sull’onere della prova di cui all’art. 2697 codice civile, con riferimento alla Legge 339/1958 sul lavoro domestico e alla Legge 304/1973 sul collocamento alla pari.

Infatti, secondo la ricorrente sarebbe stato onere degli appellati fornire la prova della ricorrenza dei presupposti del lavoro cosiddetto alla pari ex Legge 304/1973.

Inoltre, la stessa lamentava un vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere il giudice di appello escluso il carattere oneroso del rapporto in relazione alla ritenuta modestia del contributo economico offerto alla lavoratrice.

La Suprema Corte ritenendo fondati i motivi proposti, non rinvenendo dalla decisione impugnata i presupposti per la configurabilità di un rapporto c.d. alla pari di cui alla Legge n.304/1973, ha accolto e cassato la sentenza di appello per errore di diritto.

In particolare, la stessa ha ritenuto che la sentenza di appello impugnata fosse in contrasto con il principio di diritto secondo cui:  “Lo scambio di prestazioni di lavoro domestico, rese da una straniera, estranea alla famiglia, contro vitto, alloggio e retribuzione sia pur modesta dà luogo a un rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto cosiddetto alla pari, richiesti dalla Legge n. 304/1973”.

Pertanto, alla luce di tale decisione, si può affermare che spetta alla famiglia ospitante dimostrare che le prestazioni di tipo domestico rese dalla lavoratrice straniera in cambio di ospitalità e di un modesto contributo economico, trovano fondamento in ragioni di tipo umanitario e dunque la sussistenza di tutti i presupposti di un lavoro cosiddetto alla pari, in caso contrario si presume che fra le parti si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato di tipo domestico.

Italian Abstract

L’autore analizza la sentenza n. 25859 del 21 dicembre 2010 della Corte di Cassazione, sezione lavoro con la quale si ribadisce il principio di diritto secondo cui: “Lo scambio di prestazioni di lavoro domestico rese da una straniera estranea alla famiglia, contro vitto, alloggio e retribuzione sia pur di modesta entità dà luogo a un rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto c.d. alla pari, richiesti dalla Legge n. 304/1973”.

English Abstract

The author analyses the judgment n.25859/2010 of the Italian Supreme Court in which it is stated a consolidated rule: "The au pair relationship (L. 304/1973) must be demonstrated by the host family otherwise the relationship is considered a subordinate domestic employment".

Il lavoro domestico rappresenta il più tipico dei rapporti di lavoro subordinato non inerente all’esercizio dell’impresa.

Esso si caratterizza per l’espletamento di un’attività finalizzata al soddisfacimento dei bisogni familiari o personali del datore di lavoro.

La sua disciplina si rinviene nel codice civile (artt. 2240 – 2246) e poi nella Legge 2 aprile 1958 n. 339; quest’ultima, però è applicabile ai soli prestatori impegnati in modo continuo e prevalente per almeno quattro ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro.

Particolari problemi di qualificazione si pongono in caso di prestazioni di lavoro domestico rese da persone estranee alla famiglia e di altra nazionalità, in cambio di vitto, alloggio e retribuzione pecuniaria.

In questi casi, la disciplina del lavoro domestico potrebbe collidere con quella del rapporto c.d. alla pari di cui alla Legge n.304 del 18 maggio 1973.

Il collocamento alla pari disciplinato dalla Legge n. 304 del 1973 con la quale l’Italia ha ratificato l’Accordo Europeo del Consiglio di Europa sul collocamento alla pari adottato a Strasburgo nel 1969, consiste nell’accoglimento temporaneo all’interno di una famiglia, in cambio di alcune prestazioni domestiche, di giovani stranieri venuti allo scopo di incrementare le loro conoscenze linguistiche, la loro cultura generale e una migliore conoscenza del paese ospitante; esso dunque ha finalità prevalentemente culturali e solo indirettamente lavorative.

Si capisce pertanto come il lavoro c.d. alla pari non sia di regola assimilabile al lavoro domestico poiché è un rapporto che sorge tra le parti esclusivamente in chiave umanitaria, ciò spiega le notevoli differenze di disciplina in termini di assenza di subordinazione, flessibilità del rapporto, variabilità dell’impegno richiesto e limiti di età.

Tuttavia, esso può essere oggetto di abusi tali da renderlo, di fatto, un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, in questi casi sarà doveroso applicare la disciplina del lavoro domestico.

Sul punto si è di recente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro con sentenza del 21 dicembre 2010 n. 25859.

La sentenza in esame è stata resa a seguito di un ricorso proposto da una giovane lavoratrice straniera, avverso una pronuncia della Corte di Appello di Roma (Sent. N. 210/06) la quale, confermando la sentenza di primo grado, aveva ribadito l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra la ricorrente e una famiglia ospitante.

La lavoratrice con il proprio ricorso lamentava una violazione e falsa applicazione delle regole sull’onere della prova di cui all’art. 2697 codice civile, con riferimento alla Legge 339/1958 sul lavoro domestico e alla Legge 304/1973 sul collocamento alla pari.

Infatti, secondo la ricorrente sarebbe stato onere degli appellati fornire la prova della ricorrenza dei presupposti del lavoro cosiddetto alla pari ex Legge 304/1973.

Inoltre, la stessa lamentava un vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere il giudice di appello escluso il carattere oneroso del rapporto in relazione alla ritenuta modestia del contributo economico offerto alla lavoratrice.

La Suprema Corte ritenendo fondati i motivi proposti, non rinvenendo dalla decisione impugnata i presupposti per la configurabilità di un rapporto c.d. alla pari di cui alla Legge n.304/1973, ha accolto e cassato la sentenza di appello per errore di diritto.

In particolare, la stessa ha ritenuto che la sentenza di appello impugnata fosse in contrasto con il principio di diritto secondo cui:  “Lo scambio di prestazioni di lavoro domestico, rese da una straniera, estranea alla famiglia, contro vitto, alloggio e retribuzione sia pur modesta dà luogo a un rapporto di lavoro subordinato, ove non risultino tutti gli elementi del rapporto cosiddetto alla pari, richiesti dalla Legge n. 304/1973”.

Pertanto, alla luce di tale decisione, si può affermare che spetta alla famiglia ospitante dimostrare che le prestazioni di tipo domestico rese dalla lavoratrice straniera in cambio di ospitalità e di un modesto contributo economico, trovano fondamento in ragioni di tipo umanitario e dunque la sussistenza di tutti i presupposti di un lavoro cosiddetto alla pari, in caso contrario si presume che fra le parti si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato di tipo domestico.