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Ancora sulla class action pubblica: efficienza dell’amministrazione e ruolo dell’avvocato

Appunti per la relazione tenuta al convegno: "La class action contro la PA-efficienza dell’amministrazione e ruolo dell’avvocato pubblico e privato", Roma, 15 ottobre 2010, TAR del Lazio
Mi tocca un compito assai difficile: fungere da spartiacque fra “dottrina” e “avvocatura”, poiché intervengo dopo “Curia” (Cons. Toschei, giudice del TAR Lazio) e “Università” (prof. Police).

Anticipo subito -consapevole di una certa sfacciataggine- di essere in disaccordo con molteplici affermazioni sin qui svolte, soprattutto in relazione alle motivazioni addotte sull’espunzione dal Codice del processo amministrativo della disciplina della class action pubblica, alle ragioni in materia di “giurisdizione di merito” in materia, nonché sulla definizione di “gogna” per i pubblici dipendenti attribuita alle disposizioni in parola.

Faccio parte dell’avvocatura pubblica e in particolare dell’Ente locale (Comune), che sul piano formale costituisce un unicum con il libero foro, ma nella sostanza mantiene una differenza ragguardevole: mentre l’avvocato “libero” agisce nell’interesse esclusivo del proprio cliente, l’avvocato-dipendente agisce nell’interesse del “Comune-clinete”, ma nella più ampia ottiva dell’interesse pubblico. E nella difesa dell’interesse pubblico, l’Ente non è detto che abbia sempre ragione, che sia sempre nel giusto. Spetta dunque all’avvocato pubblico un forte ruolo connesso all’efficienza ed all’efficacia dell’azione amministrativa. Per l’avvocato pubblico, a mio modesto avviso, è fondamentale conoscere il d.lgs. 198/2009. E’ fondamentale sapere che esiste uno strumento pre contenzioso di composizione di conflitti che assegna un contemporaneo prestigio all’Ente, ai cittadini-clienti ed ai dipendenti.

Ciò detto, dissento anche da chi mi ha preceduto in relazione all’immediata operatività o meno di questo decreto, alla necessità paventata di decreti attuativi, poiché già adesso, in armonia con quanto precisa il Ministro Bruetta, in prima linea nell’attuazione immediata della class action pubblica ci sono i Comuni, ovvero le istituzioni in più diretto rapporto con i cittadini. Qualche esempio? Si pensi al mancato rispetto di termini per l’adozione di atti amministrativi generali obbligatori, quali sono gli atti di programmazione in materia di piani per le opere pubbliche (la cui mancata adozione blocca l’attività infrastrutturale dell’Ente con lesione degli interessi legittimi di imprese e cittadini), oppure i piani per l’edilizia popolare per la costruzione di nuovi alloggi, o ancora i piani per le attività commerciali.

Poiché di questo parliamo, e mi piace sottolinearlo con forza: si tratta di un’azione, quella del d.lgs. 198/2009, che non deve valutare la conformità a legge, ma deve controllare il rispetto degli standards.

Cerchiamo tutti insieme di cogliere questo aspetto, poiché è dirimente, è sostanziale.

Volendo, poi, entrare nel vivo dell’azione di classe contro la pubblica amministrazione, anche per fornire spiegazioni al disaccordo che mi permetto di esprimere verso le tesi di un relatore molto più titolato della sottoscritta, non si può non osservare come essa si presenti come una costruzione davvero singolare.

In che senso? Desidero condividere con voi alcune riflessioni sulle quali ho avuto modo di soffermarmi, anche per il fatto di aver già promosso e curato un Convegno analogo nella mia città il 7 maggio scorso, al fine di tentare di darvi risposta: con questa azione siamo davvero in presenza di vere liti tra privati e pubblici poteri? Siamo veramente nel campo della giurisdizione contenziosa? Non siamo per caso nel campo di un tentativo diverso? Cioè della ricostituzione di un più moderno e responsabile rapporto fra P.A. e cittadini?

Prendiamo in considerazione alcuni elementi che sono stati trattati nelle eccellenti relazioni che mi hanno preceduto, ponendo tuttavia l’accento su una considerazione preliminare: l’azione è stata introdotta come ricordato dall’art. 4 della legge Brunetta, che -è bene sottolineare- non contiene disposizioni relative alla giustizia amministrativa, ma norme sulla valutazione, sulla trasparenza e sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni.

A mio modo di vedere questo dato è un pilastro imprescindibile: minarlo farebbe crollare l’intera costruzione, così come obliterarlo per ricondurre il tutto ad un’ottica giurisdizionale. Se mai giustiziale.

Se a ciò si aggiunge che il giudizio è preceduto da una complessa e articolata fase preprocessuale, attentamente regolamentata, che il giudizio non può essere attivato se pende una indagine dell’Antitrust o di una altra autorità indipendente, o se pende una azione di classe o una azione inibitoria “privata” secondo il Codice del consumo, che il giudice, nel valutare l’esistenza della lesione, deve tenere conto delle risorse strumentali, finanziarie e umane a disposizione delle amministrazioni interessate, che a differenza dell’azione di classe prevista dal Codice del consumo, la class action contro la p.a. non consente il risarcimento dei danni subiti, “salvi i rimedi ordinari”, ne deriva che chiamarla “class action” risulta quasi improprio, visto che la class action “tipica”, quella civilistica per intenderci, mira proprio al risarcimento dei danni quale protezione del consumatore rispetto a squilibri di posizioni sul mercato.

Il punto che mi trova in totale disaccordo su parte delle ricostruzioni che mi hanno preceduto, che pure valuto con rispetto ed interesse (anche perchè potrei essere in errore io), è quello che riguarda la c.d. “giurisdizione di merito”, sostenuta con decisione nel precedente intervento.

Il mio pensiero è che invece tra legge delega e decreto delegato si è ponderatamente ritenuto conferme allo spirito del d.lgs. 198 il non sottoporre la tutela in parola alla giurisdizione di merito, non per svista tra provvedimenti, si badi bene, bensì per evitare che la class action pubblica potesse essere distratta dal ruolo primario di “azione di sollecito al miglioramento della PA” a quello di fictio litis per mirare a risarcimenti economici.

D’altra parte questa riforma è stata predisposta negli uffici del Dipartimento della funzione pubblica, non dai tecnici di via Arenula: si chiama “Brunetta”, non “Alfano”! Già la genesi del provvedimento dovrebbe essere emblematica, in particolare per noi, addetti ai lavori.

Il Cons. Toschei ha aperto il suo intervento con un interrogativo: sentivamo il bisogno nell’ordinamento giurisdizionale della class action pubblica?

Così impostato il ragionamento si potrebbe effettivamente argomentare che il sistema processuale amministrativo garantisce (garantiva) già oggi l’accesso diretto al giudice, senza che fosse più necessario avviare defatiganti ricorsi amministrativi interni o attivare sistemi di diffida e messa in mora. Ma allora, perché il legislatore avrebbe dovuto riproporre questi intralci con il d.lgs. 198, adempimenti prodromici che peraltro, nella prassi, si sono sempre dimostrati inutili?

Sempre per tentare di seguire il ragionamento della “curia”, viene da domandarsi: il diritto di agire in giudizio, previsto dall’articolo 24 della Costituzione a tutela di diritti e interessi individuali, può essere condizionato dall’esistenza di un’indagine amministrativa in corso? Nessuno di noi lo crede. Poiché ben sappiamo che se un’impresa vuole agire contro altre imprese concorrenti che hanno costituito un cartello per estrometterla dal mercato, essa non deve certo aspettare che si pronunci l’Antitrust. Allo stesso modo, se un lavoratore vuole ottenere il pagamento dei contributi previdenziali che gli spettano, non deve attendere che l’I.n.p.s. sanzioni il suo datore di lavoro. Ebbene, come mai allora questo limite è invece previsto dal decreto Brunetta per la class action pubblica (l. 150/2009, art. 4; d.lgs. 198/2009, art. 2, comma 1).

Ma non è tutto. Se un cittadino chiede che si ponga rimedio ad un torto subito, il dirigente può forse difendersi accampando difficoltà finanziarie, o scarsità di mezzi o di risorse umane? Ancora una volta la risposta non può che essere negativa, non foss’altro perchè anche la giurisprudenza in casi analizzati del genere ha condannato comunque la P.A. Sul presupposto che la certezza el diritto e dei diritti ne sarebbe definitivamente compromessa. Eppoi, gli stessi principi del giusto processo garantiscono oggi ai privati il diritto di ottenere piena e completa tutela dei propri diritti e interessi, in unico processo: se viene impugnato un provvedimento amministrativo, il giudice può annullare l’atto e condannare al risarcimento del danno senza che sia necessario rivolgersi al giudice ordinario, né istruire due giudizi separati, con evidenti ritardi e maggiori spese a carico degli interessati.

Perchè mai allora, secondo la legge Brunetta, il ricorrente non può ottenere il risarcimento del danno subito e dimostrato nell’azione di classe, ma deve, semmai, instaurare un diverso giudizio, secondo i canoni “ordinari”? Se questa fosse l’intenzione della legge, dove vanno a finire i principi enucleati dalla “rivoluzionaria” sentenza n. 500/1999 della Cassazione? E quelli relativi il principio di concentrazione del processo? E, infine, se l’azione di classe fosse un vero rimedio giurisdizionale, reggerebbe ad un controllo di costituzionalità?

Ecco perchè a mio avviso ci troviamo davvero dinanzi a qualcosa di diverso.

Ecco perchè ritengo che la class action contro la p.a., non sia uno strumento per rimediare ad un torto subito. La logica sanzionatoria le è completamente estranea.

Credo con convinzione che essa persegua finalità diverse: il mio modestissimo punto di vista è che troviamo innanzi ad uno strumento duttile, agile, per migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, nell’interesse della pubblica amministrazione e, com’è logico, della collettività.

Penso dunque che sia un’azione affidata ad un giudice, ma non è un processo.

Sono convinta che questo è il motivo dell’espunzione della disciplina del d.lgs. 198 dal nuovo Codice del processo amministrativo. Non perchè “non piaceva ai giudici amministrativi”, come sostenuto da chi mi ha preceduto, ma semplicemente perchè col processo amministrativo non c’entra nulla. A volte basta ragionare semplice.

Perché, sia chiaro, il decreto 198 del 2009, non mi pare proprio intervenga ad ampliare le tutele individuali. Se un cittadino vanta un diritto o un interesse legittimo “diretto, concreto e attuale” (come richiesto dal decreto) all’emanazione di un atto, singolare o generale che sia, già oggi può fruire di un processo snello ed efficace, qual è il rito sul silenzio, che come tutti sappiamo funziona e funziona bene. Contro l’omissione di atti di vigilanza, controllo o sanzione, possono attivarsi, secondo i casi, il rito sul silenzio, l’impugnazione del provvedimento negativo tacito, o, addirittura, azioni risarcitorie civili, se ne conseguono lesioni di diritti soggettivi pieni.

Se un concessionario di servizi pubblici non rispetta le carte dei servizi o gli oneri imposti col contratto di servizio, i cittadini e le associazioni dei consumatori possono già da tempo agire a tutela dei loro interessi collettivi, tramite l’azione inibitoria, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo (prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 198 il Tar Lecce già aveva condannato una società di trasporti pubblici locali di Otranto ad adeguare il servizio agli standard di sicurezza, di puntualità, di corretta informazione, di adeguatezza rispetto alle esigenze degli utenti. E ciò senza bisogno della c.d. class action pubblica, ma con gli ordinari istituti processuali).

Sono fermamente convinta, in armonia con quanto sostenuto dal relatore in Commissione Giustizia del provvedimento in esame, che per leggere la reale innovazione contenuta nel d.lgs. 198/2009 occorre abbandonare la logica della contrapposizione di interessi tra parti private e parti pubbliche, tipica dei procedimenti contenziosi. Bisogna, invece, leggere l’azione di classe pubblica in ottica collaborativa; come uno strumento tramite il quale i cittadini e, in particolare, le associazioni dei consumatori, cooperano con i pubblici poteri al fine di instaurare meccanismi virtuosi di autocorrezione senza perseguire, neanche indirettamente, finalità di lucro o di ristoro.

E allora, per capire veramente a fondo la ratio dell’istituto, cercherò di collocarlo nel solco delle riforme che lo hanno preceduto, che non sono le recentissime riforme del processo amministrativo, bensì quelle relative all’organizzazione amministrativa. E occorre risalire almeno all’inizio degli anni ‘90. Anche questo dovrebbe dare indicazioni specifiche dell’ambito ordinamentale in cui ci si colloca.

Sino all’inizio degli anni ‘90, il sistema amministrativo italiano era ancora imbrigliato nelle vecchie logiche burocratiche figurativamente definite “fiume carsico” della P.A., permeate dalla regola del segreto d’ufficio quale modus agendi tipico. Tutto si basava su un riparto di competenze rigidamente legalistico, su responsabilità magmatiche e spesso inafferrabili. Tutto ciò, unito all’inefficienza, all’opacità dell’azione amministrativa, ai costi fuori controllo per il personale e i servizi, aveva creato una situazione di diffuso malcontento e sfiducia nei cittadini. Il legislatore dell’epoca, si rivolse, allora, ai modelli di gestione amministrativa che andavano affermandosi per lo più nel mondo anglosassone, notoriamente più snello e leggero, in cui spiccava chiara la divisione delle competenze tra uffici, la distinzione di ruoli e funzioni tra “politica” e “amministrazione”.Si sentì il bisogno di introdurre nella P.A. i modelli tipici di organizzazione e gestione aziendale, di regolazione consensuale e contrattuale dei rapporti fra pubblico e privato, di responsabilizzare fortemente i vertici amministrativi, dotandoli per la prima volta di un “nome” e “cognome”. A coronamento di questo processo non poteva mancare la riforma dei controlli,sino a quel momento utilizzati più come “freno a mano” costantemente tirato che come utilità. Ecco allora la legge del 1994, che nel superare il vecchio e generalizzato controllo preventivo di legittimità, introduce controlli successivi di gestione. Il parametro del controllo si sposta dalla sola “legalità” dell’azione amministrativa, alla sua efficienza, alla sua efficacia, alla sua economicità. Il d.lgs. 29/1993, a sua volta, interviene ponendo “virtualmente” fine all’anonimato nei processi produttivi pubblici, richiedendo la fissazione di obiettivi, priorità, piani d’azione; si cerca di introdurre la fissazione di precisi standards e timing per ogni procedimento, al fine di poterne verificare l’attuazione e, conseguentemente, punire i dirigenti incapaci o indolenti che non siano in grado di attuare le politiche governative ovvero, al contrario, premiare i funzionari virtuosi. Poi, alla soglia del nuovo millennio, coi d.lgs. 286/1999 e 267/2000, si impone a ogni amministrazione di istituire organismi di controllo interno, per la valutazione strategica, la valutazione della dirigenza, il controllo di gestione.

Un grande slancio riformatore. Pari solo a quello cui assistiamo oggi. Le potenzialità per modernizzare e rendere efficiente la P.A. dunque erano state scritte sin da allora. Dunque, cosa è accaduto?

Peccato che a tanto lavoro normativo si siano contrapposti i tempi lunghi della burocrazia, l’andamento inerziale delle grandi strutture organizzative, o per dirla col relatore del decreto, si siano levate forti e chiare le c.d. “voci di dentro” della P.A..

Quali sono queste allegoriche “voci di dentro”? Cosa intendeva con tale locuzione il relatore del progetto di legge? In poche parole, è noto a tutti che i sindacati hanno fatto muro, spesso ideologicamente, contro la logica dell’efficienza, preferendo la logica dell’uniformità; dal canto loro i dirigenti pubblici, che avrebbero avuto una grande leva nelle loro mani, non hanno avuto (voluto?) la forza di sfruttare il sistema di incentivi alla produttività per motivare il proprio personale, sicché, ad esempio, la “retribuzione di risultato” è stata distribuita a pioggia, con buona pace per il merito; le decisioni sull’organizzazione degli uffici shanno continuato e continuano ad essere assunte -almeno molto spesso è così anche oggi- con logiche consociative e concertative, che non vanno certo nell’interesse degli utenti/clienti e dei contribuenti (basta pensare che i dipendenti non vengono assegnati il più delle volte sull’effettiva professionalità, ma su logiche kafkiane mortificanti); ovviamente, se vogliamo essere realisti, tali motivi hanno come conseguenza che la spesa è rimasta elevata, ma soprattutto, ad essa non corrisponde l’efficienza e la qualità.

In questo panorama, che non vuole essere disfattista quanto piuttosto una fotografia scattata con l’autoscatto, la legge Brunetta -sia pure con qualche eccesso- credo (volesse avere ed) abbia il pregio, a mio parere, di tendere a recuperare lo spirito più autentico di quella riforma. E per fare questo, concepisce un sistema articolato, ma coerente, di correttivi, a partire dalla legge delega, d.lgs. 150/2009. Se così non fosse (e dunque credo davvero sia così), non si spiegherebbero molti tratti emblematici, quali, anzitutto, l’ampliamento dei poteri della dirigenza o il rafforzamento della responsabilità, oppure il forte accento sull’etica del servizio pubblico e del pubblico impiego come “servizio al pubblico”; o ancora cercare di contenere il ruolo straripante del sindacalismo pubblico, che perso il suo autentico spirito valoriale, è oggi connotato più da sensazionalismi che da effettiva cura dei diritti dei lavoratori; ma soprattutto, non si comprenderebbe il motivo della volontà di misurare e controllare la performance delle PA, secondo lo spirito filosofico che regge l’economia, ed in base al quale “ciò che non misura non esiste”. E’ solo basandosi su dati oggettivi di valutazione delle performances delle singole amministrazioni è possibile orientarne l’azione, correggerne le deficienze, esaltare e diffondere le eccellenze.

La legge, a tal fine, non manca di prevedere strumenti di incentivo/disincentivo. In primo luogo, la distribuzione dei premi, ai singoli, ai gruppi di lavoro, alle stesse P.A. In secondo luogo (forse in ordine di importanza il primo), la pubblicazione all’esterno e ai cittadini dei risultati gestionali: è la sanzione morale del naming and shaming (additare e accusare) rivolto alle amministrazioni inefficienti, e per esse ai dipendenti indolenti per consentire il controllo diffuso dell’opinione pubblica. Una sorta di moral suasion che si riflette, anche economicamente, oltre che sulla responsabilità amministrativa e contabile, sul soggetto shamed.

Ma cosa accade se, nonostante questi accorgimenti, le pubbliche amministrazioni restano ancora refrattarie al cambiamento? Se, in altri termini, le competenti autorità non attivano i meccanismi di verifica e autocorrezione delle inefficienze, pure imposti dalla legge?

Ecco allora che, come strumento ultimativo di salvaguardia, il d.lgs. 198/2009 consente agli stessi clienti della P.A., tramite una sorta di azione popolare sui generis, di imporre alle pubbliche amministrazioni di rispettare gli standard, degli obiettivi, e degli impegni che esse stesse si sono dati e hanno assunto. E qui dimora uno degli altri punti di dissenso che ho manifestato all’inizio con chi mi ha preceduto, poiché in questa azione di supplenza non c’è spazio per una contrapposizione tra gli interessi collettivi dei cittadini ricorrenti e gli interessi pubblici perseguiti dall’amministrazione (formalmente) resistente.

E se così è, se colgo nel segno, ecco allora che tutti i tasselli del puzzle tornerebbero al loro posto. Così, la “diffida” prevista dall’art. 3 del decreto non sarebbe un inutile intralcio alla tutela giurisdizionale, come ritenuto da chi oggi vi ha dato questa lettura, pure egregia, ma uno strumento che si inserisce nella logica del sistema creato dal legislatore, secondo cui, a mio modesto avviso, il controllo giurisdizionale, comunque costoso, deve restare l’extrema ratio. Questo, nella mia personale lettura, proprio perchè si vuole offrire ancora un’occasione alle Amministrazioni per prendere coscienza degli episodi di maladministration e per mettervi rimedio, responsabilizzando i funzionari competenti e informandone gli interessati.

Allo stesso modo, anche l’interruzione del processo in presenza di procedimenti di autorità di regolazione torna coerente: se esiste un pubblico potere che si sta occupando del problema, e che può fruire di ampi poteri di indagine dall’interno con competenze specifiche nel settore, perchè mai i cittadini dovrebbero duplicare questa attività di controllo: il risultato finale cui essi tendono può essere già conseguito autonomamente dal sistema amministrativo, senza necessità di investire della questione un ordinamento terzo, cioè l’ordinamento giudiziario.

Stesso discorso per la previsione dell’estinzione del processo in pendenza di una azione ex artt. 140 o 140 bis del codice del consumo: se oramai è stata instaurata una azione contenziosa (come sicuramente sono le azioni inibitorie e di classe private), vuol dire che non ci può più essere spazio per soluzioni cooperative e volte all’autocorrezione (come invece desidero sottolineare con forza mi pare sia l’azione di classe pubblica).

Un altro punto ancora di divergenza con le precedenti tesi esposte, riguarda la spiegazione resa alla previsione secondo cui il giudice debba tenere conto delle risorse economiche e finanziarie in cui versano le amministrazioni e i concessionari. Io la leggo così: la previsione del decreto Brunetta non incardina il problema sull’inefficienza delle diverse P.A. sic et simpliciter, ma, se mai, sul fatto di avere fissato degli obiettivi troppo ambiziosi.

Parliamoci chiaro, la P.A. non è una “cassa continua” da cui prelevare. Diventa allora inutile chiedere il rispetto di obiettivi, termini o standards: in mancanza di risorse, poco potrebbe fare anche l’eventuale commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza. E se ho colto correttamente la ratio dell’impianto normativo in esame, più che il giudice amministrativo possono le P.A.: le amministrazioni, misurando la propria attività, nei successivi cicli di gestione della performance, dovranno aver cura di rimodulare gli obiettivi in modo più realistico. Come una buona madre di famiglia: gli acquisti li programma guardando dentro al proprio portafogli. Banale? Forse. Però realistico.

Da ultimo. Se la logica del decreto Brunetta è quella della cooperazione e non della lite, non può esserci spazio per sentenze di condanna al risarcimento. Chi ha subito un danno, deve percorrere altre strade. E non c’è violazione del principio della concentrazione: rimango fermamente convinta che la class action pubblica e l’azione per il risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi hanno fondamenti e finalità del tutto differenti.

Vado a volo d’aquila sulle conclusioni. Dobbiamo -in primis noi avvocati pubblici chiamati a tutelare l’Ente con l’occhio vigile all’interesse pubblico- metterci a disposizione dell’interesse pubblico, cioè dei “clienti” del nostro “cliente”. Dobbiamo poi cogliere tutti insieme un dato dirimente e comprendere ciò a cui mira la class action pubblica: la responsabilizzazione di tutte le parti in causa. Le amministrazioni, certamente, ma anche, gli utenti, le associazioni dei consumatori, i loro avvocati e gli stessi giudici. Forse pecco di presunzione se mi permetto di sostenere che se tutti sapranno comprendere la logica, le potenzialità, ma anche i limiti di questo strumento, esso potrà realmente costituire un eccellente volano di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni, tramite il controllo diffuso e la condivisione degli obiettivi con i cittadini/clienti. In caso opposto, ovvero se le associazioni dei consumatori cercheranno di sfruttare la class action pubblica con finalità sensazionalistiche e di autopromozione (come già sembra accadere vedendo le azioni ad oggi promosse ed a nulla approdate), se le amministrazioni continueranno le insane abitudini di opporre uno sterile atteggiamento di chiusura e sospetto, se i cittadini vivranno l’azione come strumento per innalzare il livello del contenzioso, se gli avvocati vi vedranno solo l’ennesimo, inutile, e ripetitivo rito processuale speciale, magari utile per la “cassetta” e se, infine, i giudici terranno un approccio eccessivamente legalistico e formalistico, be’, allora la class action pubblica resterà uno sterile esercizio di legistica. Io credo sia di più, molto di più.

Ringrazio tutti.

Mi tocca un compito assai difficile: fungere da spartiacque fra “dottrina” e “avvocatura”, poiché intervengo dopo “Curia” (Cons. Toschei, giudice del TAR Lazio) e “Università” (prof. Police).

Anticipo subito -consapevole di una certa sfacciataggine- di essere in disaccordo con molteplici affermazioni sin qui svolte, soprattutto in relazione alle motivazioni addotte sull’espunzione dal Codice del processo amministrativo della disciplina della class action pubblica, alle ragioni in materia di “giurisdizione di merito” in materia, nonché sulla definizione di “gogna” per i pubblici dipendenti attribuita alle disposizioni in parola.

Faccio parte dell’avvocatura pubblica e in particolare dell’Ente locale (Comune), che sul piano formale costituisce un unicum con il libero foro, ma nella sostanza mantiene una differenza ragguardevole: mentre l’avvocato “libero” agisce nell’interesse esclusivo del proprio cliente, l’avvocato-dipendente agisce nell’interesse del “Comune-clinete”, ma nella più ampia ottiva dell’interesse pubblico. E nella difesa dell’interesse pubblico, l’Ente non è detto che abbia sempre ragione, che sia sempre nel giusto. Spetta dunque all’avvocato pubblico un forte ruolo connesso all’efficienza ed all’efficacia dell’azione amministrativa. Per l’avvocato pubblico, a mio modesto avviso, è fondamentale conoscere il d.lgs. 198/2009. E’ fondamentale sapere che esiste uno strumento pre contenzioso di composizione di conflitti che assegna un contemporaneo prestigio all’Ente, ai cittadini-clienti ed ai dipendenti.

Ciò detto, dissento anche da chi mi ha preceduto in relazione all’immediata operatività o meno di questo decreto, alla necessità paventata di decreti attuativi, poiché già adesso, in armonia con quanto precisa il Ministro Bruetta, in prima linea nell’attuazione immediata della class action pubblica ci sono i Comuni, ovvero le istituzioni in più diretto rapporto con i cittadini. Qualche esempio? Si pensi al mancato rispetto di termini per l’adozione di atti amministrativi generali obbligatori, quali sono gli atti di programmazione in materia di piani per le opere pubbliche (la cui mancata adozione blocca l’attività infrastrutturale dell’Ente con lesione degli interessi legittimi di imprese e cittadini), oppure i piani per l’edilizia popolare per la costruzione di nuovi alloggi, o ancora i piani per le attività commerciali.

Poiché di questo parliamo, e mi piace sottolinearlo con forza: si tratta di un’azione, quella del d.lgs. 198/2009, che non deve valutare la conformità a legge, ma deve controllare il rispetto degli standards.

Cerchiamo tutti insieme di cogliere questo aspetto, poiché è dirimente, è sostanziale.

Volendo, poi, entrare nel vivo dell’azione di classe contro la pubblica amministrazione, anche per fornire spiegazioni al disaccordo che mi permetto di esprimere verso le tesi di un relatore molto più titolato della sottoscritta, non si può non osservare come essa si presenti come una costruzione davvero singolare.

In che senso? Desidero condividere con voi alcune riflessioni sulle quali ho avuto modo di soffermarmi, anche per il fatto di aver già promosso e curato un Convegno analogo nella mia città il 7 maggio scorso, al fine di tentare di darvi risposta: con questa azione siamo davvero in presenza di vere liti tra privati e pubblici poteri? Siamo veramente nel campo della giurisdizione contenziosa? Non siamo per caso nel campo di un tentativo diverso? Cioè della ricostituzione di un più moderno e responsabile rapporto fra P.A. e cittadini?

Prendiamo in considerazione alcuni elementi che sono stati trattati nelle eccellenti relazioni che mi hanno preceduto, ponendo tuttavia l’accento su una considerazione preliminare: l’azione è stata introdotta come ricordato dall’art. 4 della legge Brunetta, che -è bene sottolineare- non contiene disposizioni relative alla giustizia amministrativa, ma norme sulla valutazione, sulla trasparenza e sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni.

A mio modo di vedere questo dato è un pilastro imprescindibile: minarlo farebbe crollare l’intera costruzione, così come obliterarlo per ricondurre il tutto ad un’ottica giurisdizionale. Se mai giustiziale.

Se a ciò si aggiunge che il giudizio è preceduto da una complessa e articolata fase preprocessuale, attentamente regolamentata, che il giudizio non può essere attivato se pende una indagine dell’Antitrust o di una altra autorità indipendente, o se pende una azione di classe o una azione inibitoria “privata” secondo il Codice del consumo, che il giudice, nel valutare l’esistenza della lesione, deve tenere conto delle risorse strumentali, finanziarie e umane a disposizione delle amministrazioni interessate, che a differenza dell’azione di classe prevista dal Codice del consumo, la class action contro la p.a. non consente il risarcimento dei danni subiti, “salvi i rimedi ordinari”, ne deriva che chiamarla “class action” risulta quasi improprio, visto che la class action “tipica”, quella civilistica per intenderci, mira proprio al risarcimento dei danni quale protezione del consumatore rispetto a squilibri di posizioni sul mercato.

Il punto che mi trova in totale disaccordo su parte delle ricostruzioni che mi hanno preceduto, che pure valuto con rispetto ed interesse (anche perchè potrei essere in errore io), è quello che riguarda la c.d. “giurisdizione di merito”, sostenuta con decisione nel precedente intervento.

Il mio pensiero è che invece tra legge delega e decreto delegato si è ponderatamente ritenuto conferme allo spirito del d.lgs. 198 il non sottoporre la tutela in parola alla giurisdizione di merito, non per svista tra provvedimenti, si badi bene, bensì per evitare che la class action pubblica potesse essere distratta dal ruolo primario di “azione di sollecito al miglioramento della PA” a quello di fictio litis per mirare a risarcimenti economici.

D’altra parte questa riforma è stata predisposta negli uffici del Dipartimento della funzione pubblica, non dai tecnici di via Arenula: si chiama “Brunetta”, non “Alfano”! Già la genesi del provvedimento dovrebbe essere emblematica, in particolare per noi, addetti ai lavori.

Il Cons. Toschei ha aperto il suo intervento con un interrogativo: sentivamo il bisogno nell’ordinamento giurisdizionale della class action pubblica?

Così impostato il ragionamento si potrebbe effettivamente argomentare che il sistema processuale amministrativo garantisce (garantiva) già oggi l’accesso diretto al giudice, senza che fosse più necessario avviare defatiganti ricorsi amministrativi interni o attivare sistemi di diffida e messa in mora. Ma allora, perché il legislatore avrebbe dovuto riproporre questi intralci con il d.lgs. 198, adempimenti prodromici che peraltro, nella prassi, si sono sempre dimostrati inutili?

Sempre per tentare di seguire il ragionamento della “curia”, viene da domandarsi: il diritto di agire in giudizio, previsto dall’articolo 24 della Costituzione a tutela di diritti e interessi individuali, può essere condizionato dall’esistenza di un’indagine amministrativa in corso? Nessuno di noi lo crede. Poiché ben sappiamo che se un’impresa vuole agire contro altre imprese concorrenti che hanno costituito un cartello per estrometterla dal mercato, essa non deve certo aspettare che si pronunci l’Antitrust. Allo stesso modo, se un lavoratore vuole ottenere il pagamento dei contributi previdenziali che gli spettano, non deve attendere che l’I.n.p.s. sanzioni il suo datore di lavoro. Ebbene, come mai allora questo limite è invece previsto dal decreto Brunetta per la class action pubblica (l. 150/2009, art. 4; d.lgs. 198/2009, art. 2, comma 1).

Ma non è tutto. Se un cittadino chiede che si ponga rimedio ad un torto subito, il dirigente può forse difendersi accampando difficoltà finanziarie, o scarsità di mezzi o di risorse umane? Ancora una volta la risposta non può che essere negativa, non foss’altro perchè anche la giurisprudenza in casi analizzati del genere ha condannato comunque la P.A. Sul presupposto che la certezza el diritto e dei diritti ne sarebbe definitivamente compromessa. Eppoi, gli stessi principi del giusto processo garantiscono oggi ai privati il diritto di ottenere piena e completa tutela dei propri diritti e interessi, in unico processo: se viene impugnato un provvedimento amministrativo, il giudice può annullare l’atto e condannare al risarcimento del danno senza che sia necessario rivolgersi al giudice ordinario, né istruire due giudizi separati, con evidenti ritardi e maggiori spese a carico degli interessati.

Perchè mai allora, secondo la legge Brunetta, il ricorrente non può ottenere il risarcimento del danno subito e dimostrato nell’azione di classe, ma deve, semmai, instaurare un diverso giudizio, secondo i canoni “ordinari”? Se questa fosse l’intenzione della legge, dove vanno a finire i principi enucleati dalla “rivoluzionaria” sentenza n. 500/1999 della Cassazione? E quelli relativi il principio di concentrazione del processo? E, infine, se l’azione di classe fosse un vero rimedio giurisdizionale, reggerebbe ad un controllo di costituzionalità?

Ecco perchè a mio avviso ci troviamo davvero dinanzi a qualcosa di diverso.

Ecco perchè ritengo che la class action contro la p.a., non sia uno strumento per rimediare ad un torto subito. La logica sanzionatoria le è completamente estranea.

Credo con convinzione che essa persegua finalità diverse: il mio modestissimo punto di vista è che troviamo innanzi ad uno strumento duttile, agile, per migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, nell’interesse della pubblica amministrazione e, com’è logico, della collettività.

Penso dunque che sia un’azione affidata ad un giudice, ma non è un processo.

Sono convinta che questo è il motivo dell’espunzione della disciplina del d.lgs. 198 dal nuovo Codice del processo amministrativo. Non perchè “non piaceva ai giudici amministrativi”, come sostenuto da chi mi ha preceduto, ma semplicemente perchè col processo amministrativo non c’entra nulla. A volte basta ragionare semplice.

Perché, sia chiaro, il decreto 198 del 2009, non mi pare proprio intervenga ad ampliare le tutele individuali. Se un cittadino vanta un diritto o un interesse legittimo “diretto, concreto e attuale” (come richiesto dal decreto) all’emanazione di un atto, singolare o generale che sia, già oggi può fruire di un processo snello ed efficace, qual è il rito sul silenzio, che come tutti sappiamo funziona e funziona bene. Contro l’omissione di atti di vigilanza, controllo o sanzione, possono attivarsi, secondo i casi, il rito sul silenzio, l’impugnazione del provvedimento negativo tacito, o, addirittura, azioni risarcitorie civili, se ne conseguono lesioni di diritti soggettivi pieni.

Se un concessionario di servizi pubblici non rispetta le carte dei servizi o gli oneri imposti col contratto di servizio, i cittadini e le associazioni dei consumatori possono già da tempo agire a tutela dei loro interessi collettivi, tramite l’azione inibitoria, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo (prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 198 il Tar Lecce già aveva condannato una società di trasporti pubblici locali di Otranto ad adeguare il servizio agli standard di sicurezza, di puntualità, di corretta informazione, di adeguatezza rispetto alle esigenze degli utenti. E ciò senza bisogno della c.d. class action pubblica, ma con gli ordinari istituti processuali).

Sono fermamente convinta, in armonia con quanto sostenuto dal relatore in Commissione Giustizia del provvedimento in esame, che per leggere la reale innovazione contenuta nel d.lgs. 198/2009 occorre abbandonare la logica della contrapposizione di interessi tra parti private e parti pubbliche, tipica dei procedimenti contenziosi. Bisogna, invece, leggere l’azione di classe pubblica in ottica collaborativa; come uno strumento tramite il quale i cittadini e, in particolare, le associazioni dei consumatori, cooperano con i pubblici poteri al fine di instaurare meccanismi virtuosi di autocorrezione senza perseguire, neanche indirettamente, finalità di lucro o di ristoro.

E allora, per capire veramente a fondo la ratio dell’istituto, cercherò di collocarlo nel solco delle riforme che lo hanno preceduto, che non sono le recentissime riforme del processo amministrativo, bensì quelle relative all’organizzazione amministrativa. E occorre risalire almeno all’inizio degli anni ‘90. Anche questo dovrebbe dare indicazioni specifiche dell’ambito ordinamentale in cui ci si colloca.

Sino all’inizio degli anni ‘90, il sistema amministrativo italiano era ancora imbrigliato nelle vecchie logiche burocratiche figurativamente definite “fiume carsico” della P.A., permeate dalla regola del segreto d’ufficio quale modus agendi tipico. Tutto si basava su un riparto di competenze rigidamente legalistico, su responsabilità magmatiche e spesso inafferrabili. Tutto ciò, unito all’inefficienza, all’opacità dell’azione amministrativa, ai costi fuori controllo per il personale e i servizi, aveva creato una situazione di diffuso malcontento e sfiducia nei cittadini. Il legislatore dell’epoca, si rivolse, allora, ai modelli di gestione amministrativa che andavano affermandosi per lo più nel mondo anglosassone, notoriamente più snello e leggero, in cui spiccava chiara la divisione delle competenze tra uffici, la distinzione di ruoli e funzioni tra “politica” e “amministrazione”.Si sentì il bisogno di introdurre nella P.A. i modelli tipici di organizzazione e gestione aziendale, di regolazione consensuale e contrattuale dei rapporti fra pubblico e privato, di responsabilizzare fortemente i vertici amministrativi, dotandoli per la prima volta di un “nome” e “cognome”. A coronamento di questo processo non poteva mancare la riforma dei controlli,sino a quel momento utilizzati più come “freno a mano” costantemente tirato che come utilità. Ecco allora la legge del 1994, che nel superare il vecchio e generalizzato controllo preventivo di legittimità, introduce controlli successivi di gestione. Il parametro del controllo si sposta dalla sola “legalità” dell’azione amministrativa, alla sua efficienza, alla sua efficacia, alla sua economicità. Il d.lgs. 29/1993, a sua volta, interviene ponendo “virtualmente” fine all’anonimato nei processi produttivi pubblici, richiedendo la fissazione di obiettivi, priorità, piani d’azione; si cerca di introdurre la fissazione di precisi standards e timing per ogni procedimento, al fine di poterne verificare l’attuazione e, conseguentemente, punire i dirigenti incapaci o indolenti che non siano in grado di attuare le politiche governative ovvero, al contrario, premiare i funzionari virtuosi. Poi, alla soglia del nuovo millennio, coi d.lgs. 286/1999 e 267/2000, si impone a ogni amministrazione di istituire organismi di controllo interno, per la valutazione strategica, la valutazione della dirigenza, il controllo di gestione.

Un grande slancio riformatore. Pari solo a quello cui assistiamo oggi. Le potenzialità per modernizzare e rendere efficiente la P.A. dunque erano state scritte sin da allora. Dunque, cosa è accaduto?

Peccato che a tanto lavoro normativo si siano contrapposti i tempi lunghi della burocrazia, l’andamento inerziale delle grandi strutture organizzative, o per dirla col relatore del decreto, si siano levate forti e chiare le c.d. “voci di dentro” della P.A..

Quali sono queste allegoriche “voci di dentro”? Cosa intendeva con tale locuzione il relatore del progetto di legge? In poche parole, è noto a tutti che i sindacati hanno fatto muro, spesso ideologicamente, contro la logica dell’efficienza, preferendo la logica dell’uniformità; dal canto loro i dirigenti pubblici, che avrebbero avuto una grande leva nelle loro mani, non hanno avuto (voluto?) la forza di sfruttare il sistema di incentivi alla produttività per motivare il proprio personale, sicché, ad esempio, la “retribuzione di risultato” è stata distribuita a pioggia, con buona pace per il merito; le decisioni sull’organizzazione degli uffici shanno continuato e continuano ad essere assunte -almeno molto spesso è così anche oggi- con logiche consociative e concertative, che non vanno certo nell’interesse degli utenti/clienti e dei contribuenti (basta pensare che i dipendenti non vengono assegnati il più delle volte sull’effettiva professionalità, ma su logiche kafkiane mortificanti); ovviamente, se vogliamo essere realisti, tali motivi hanno come conseguenza che la spesa è rimasta elevata, ma soprattutto, ad essa non corrisponde l’efficienza e la qualità.

In questo panorama, che non vuole essere disfattista quanto piuttosto una fotografia scattata con l’autoscatto, la legge Brunetta -sia pure con qualche eccesso- credo (volesse avere ed) abbia il pregio, a mio parere, di tendere a recuperare lo spirito più autentico di quella riforma. E per fare questo, concepisce un sistema articolato, ma coerente, di correttivi, a partire dalla legge delega, d.lgs. 150/2009. Se così non fosse (e dunque credo davvero sia così), non si spiegherebbero molti tratti emblematici, quali, anzitutto, l’ampliamento dei poteri della dirigenza o il rafforzamento della responsabilità, oppure il forte accento sull’etica del servizio pubblico e del pubblico impiego come “servizio al pubblico”; o ancora cercare di contenere il ruolo straripante del sindacalismo pubblico, che perso il suo autentico spirito valoriale, è oggi connotato più da sensazionalismi che da effettiva cura dei diritti dei lavoratori; ma soprattutto, non si comprenderebbe il motivo della volontà di misurare e controllare la performance delle PA, secondo lo spirito filosofico che regge l’economia, ed in base al quale “ciò che non misura non esiste”. E’ solo basandosi su dati oggettivi di valutazione delle performances delle singole amministrazioni è possibile orientarne l’azione, correggerne le deficienze, esaltare e diffondere le eccellenze.

La legge, a tal fine, non manca di prevedere strumenti di incentivo/disincentivo. In primo luogo, la distribuzione dei premi, ai singoli, ai gruppi di lavoro, alle stesse P.A. In secondo luogo (forse in ordine di importanza il primo), la pubblicazione all’esterno e ai cittadini dei risultati gestionali: è la sanzione morale del naming and shaming (additare e accusare) rivolto alle amministrazioni inefficienti, e per esse ai dipendenti indolenti per consentire il controllo diffuso dell’opinione pubblica. Una sorta di moral suasion che si riflette, anche economicamente, oltre che sulla responsabilità amministrativa e contabile, sul soggetto shamed.

Ma cosa accade se, nonostante questi accorgimenti, le pubbliche amministrazioni restano ancora refrattarie al cambiamento? Se, in altri termini, le competenti autorità non attivano i meccanismi di verifica e autocorrezione delle inefficienze, pure imposti dalla legge?

Ecco allora che, come strumento ultimativo di salvaguardia, il d.lgs. 198/2009 consente agli stessi clienti della P.A., tramite una sorta di azione popolare sui generis, di imporre alle pubbliche amministrazioni di rispettare gli standard, degli obiettivi, e degli impegni che esse stesse si sono dati e hanno assunto. E qui dimora uno degli altri punti di dissenso che ho manifestato all’inizio con chi mi ha preceduto, poiché in questa azione di supplenza non c’è spazio per una contrapposizione tra gli interessi collettivi dei cittadini ricorrenti e gli interessi pubblici perseguiti dall’amministrazione (formalmente) resistente.

E se così è, se colgo nel segno, ecco allora che tutti i tasselli del puzzle tornerebbero al loro posto. Così, la “diffida” prevista dall’art. 3 del decreto non sarebbe un inutile intralcio alla tutela giurisdizionale, come ritenuto da chi oggi vi ha dato questa lettura, pure egregia, ma uno strumento che si inserisce nella logica del sistema creato dal legislatore, secondo cui, a mio modesto avviso, il controllo giurisdizionale, comunque costoso, deve restare l’extrema ratio. Questo, nella mia personale lettura, proprio perchè si vuole offrire ancora un’occasione alle Amministrazioni per prendere coscienza degli episodi di maladministration e per mettervi rimedio, responsabilizzando i funzionari competenti e informandone gli interessati.

Allo stesso modo, anche l’interruzione del processo in presenza di procedimenti di autorità di regolazione torna coerente: se esiste un pubblico potere che si sta occupando del problema, e che può fruire di ampi poteri di indagine dall’interno con competenze specifiche nel settore, perchè mai i cittadini dovrebbero duplicare questa attività di controllo: il risultato finale cui essi tendono può essere già conseguito autonomamente dal sistema amministrativo, senza necessità di investire della questione un ordinamento terzo, cioè l’ordinamento giudiziario.

Stesso discorso per la previsione dell’estinzione del processo in pendenza di una azione ex artt. 140 o 140 bis del codice del consumo: se oramai è stata instaurata una azione contenziosa (come sicuramente sono le azioni inibitorie e di classe private), vuol dire che non ci può più essere spazio per soluzioni cooperative e volte all’autocorrezione (come invece desidero sottolineare con forza mi pare sia l’azione di classe pubblica).

Un altro punto ancora di divergenza con le precedenti tesi esposte, riguarda la spiegazione resa alla previsione secondo cui il giudice debba tenere conto delle risorse economiche e finanziarie in cui versano le amministrazioni e i concessionari. Io la leggo così: la previsione del decreto Brunetta non incardina il problema sull’inefficienza delle diverse P.A. sic et simpliciter, ma, se mai, sul fatto di avere fissato degli obiettivi troppo ambiziosi.

Parliamoci chiaro, la P.A. non è una “cassa continua” da cui prelevare. Diventa allora inutile chiedere il rispetto di obiettivi, termini o standards: in mancanza di risorse, poco potrebbe fare anche l’eventuale commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza. E se ho colto correttamente la ratio dell’impianto normativo in esame, più che il giudice amministrativo possono le P.A.: le amministrazioni, misurando la propria attività, nei successivi cicli di gestione della performance, dovranno aver cura di rimodulare gli obiettivi in modo più realistico. Come una buona madre di famiglia: gli acquisti li programma guardando dentro al proprio portafogli. Banale? Forse. Però realistico.

Da ultimo. Se la logica del decreto Brunetta è quella della cooperazione e non della lite, non può esserci spazio per sentenze di condanna al risarcimento. Chi ha subito un danno, deve percorrere altre strade. E non c’è violazione del principio della concentrazione: rimango fermamente convinta che la class action pubblica e l’azione per il risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi hanno fondamenti e finalità del tutto differenti.

Vado a volo d’aquila sulle conclusioni. Dobbiamo -in primis noi avvocati pubblici chiamati a tutelare l’Ente con l’occhio vigile all’interesse pubblico- metterci a disposizione dell’interesse pubblico, cioè dei “clienti” del nostro “cliente”. Dobbiamo poi cogliere tutti insieme un dato dirimente e comprendere ciò a cui mira la class action pubblica: la responsabilizzazione di tutte le parti in causa. Le amministrazioni, certamente, ma anche, gli utenti, le associazioni dei consumatori, i loro avvocati e gli stessi giudici. Forse pecco di presunzione se mi permetto di sostenere che se tutti sapranno comprendere la logica, le potenzialità, ma anche i limiti di questo strumento, esso potrà realmente costituire un eccellente volano di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni, tramite il controllo diffuso e la condivisione degli obiettivi con i cittadini/clienti. In caso opposto, ovvero se le associazioni dei consumatori cercheranno di sfruttare la class action pubblica con finalità sensazionalistiche e di autopromozione (come già sembra accadere vedendo le azioni ad oggi promosse ed a nulla approdate), se le amministrazioni continueranno le insane abitudini di opporre uno sterile atteggiamento di chiusura e sospetto, se i cittadini vivranno l’azione come strumento per innalzare il livello del contenzioso, se gli avvocati vi vedranno solo l’ennesimo, inutile, e ripetitivo rito processuale speciale, magari utile per la “cassetta” e se, infine, i giudici terranno un approccio eccessivamente legalistico e formalistico, be’, allora la class action pubblica resterà uno sterile esercizio di legistica. Io credo sia di più, molto di più.

Ringrazio tutti.