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Arbitrato - Cassazione Civile: arbitrato rituale o irrituale, questione di competenza o di merito?

La questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un’altra, per arbitrato irrituale, intercorrente tra le stesse parti, non integra una questione di “competenza”, bensì di merito, la cui soluzione richiede l’interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici dettati per l’interpretazione dei contratti.

Lo ha stabilito la Cassazione che, nel caso in esame, era chiamata a statuire con riferimento a due società che, nella complessiva sistemazione dei rapporti contrattuali, avevano, da un lato, sottoscritto una clausola compromissioria per arbitrato rituale di diritto nell’accordo quadro in merito agli accordi attuativi e, dall’altro, riguardo alla cessione del ramo d’azienda, una specifica clausola per arbitrato irrituale secondo equità, in riferimento ai “rapporti gestionali di dare-avere”.

In seguito a un lodo arbitrale dove, di fronte a una duplice domanda riconvenzionale di parte convenuta, il Collegio disponeva solo nel merito della prima, dichiarandosi incompetente per la seconda, in quanto rientrante nel “dare-avere gestionale” e pertanto da definirsi tramite arbitrato irrituale, la questione veniva portata all’attenzione della Corte d’Appello. Quest’ultima a sua volta dichiarava che entrambe le domande avrebbero dovuto trovare soluzione nell’ambito dell’arbitrato irrituale poichè entrambe concernenti “rapporti gestionali di dare-avere”, per la definizione dei quali le parti avrebbero stabilito tale specifico strumento di risoluzione.

Veniva proposto ricorso per Cassazione, ma la Corte di ultima istanza valutava il ricorso infondato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, sostenendo che i tre motivi di ricorso dovevano essere esaminati congiuntamente, poichè attinenti all’identico problema costituito dalla sindacabilità, da parte del giudice dell’impugnazione del lodo, del contenuto della clausola compromissoria, allo scopo di verificare la sussistenza della potestà arbitrale e dei suoi confini.

Secondo la Cassazione, non si tratta infatti di una questione di competenza, nelle cui forme si atteggia e si configura il conflitto tra arbitri rituali e giudici statali comuni, ma della corretta delimitazione del complesso delle clausole compromissorie negoziate dalle parti. Una tale questione non è stata investita da overruling in materia processuale e così si pone come una questione di merito che, come tale, esclude che il giudice di legittimità, quale giudice del fatto processuale, possa esaminare, anche d’ufficio, le clausole compromissorie per stabilire quale sia il giudice competente a decidere della controversia in atto.

Pertanto il ricorso va respinto in parte sulla base del seguente principio di diritto:

In tema di arbitrato, anche a seguito dell’ordinanza delle Sez. Unite n. 24153 del 2013, la questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un’altra, intercorrente tra le stesse parti, per arbitrato irrituale, non integra una questione di “competenza”, bensì una questione di merito, la cui soluzione richiede l’interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici, dettati per l’interpretazione dei contratti.

In secondo luogo, in merito alla censura sollevata dal ricorrente dell’interpretazione data dalla Corte territoriale alla nozione di “rapporti gestionali”, la Suprema Corte sostiene che: “In tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’“iter” logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto oppure nel caso di violazione di norme ermeneutiche.”

Nella specie, infatti, il giudice di merito aderiva ad una nozione più ampia dei “rapporti gestionali” rispetto a quella affermatao dalla ricorrente, senza che il risultato interpretativo, pur opinabile, potesse dirsi irrazionale e la motivazione che ne dava conto potesse dirsi inadeguata.

(Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, Sentenza 8 marzo 2016, n. 4526)

La questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un’altra, per arbitrato irrituale, intercorrente tra le stesse parti, non integra una questione di “competenza”, bensì di merito, la cui soluzione richiede l’interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici dettati per l’interpretazione dei contratti.

Lo ha stabilito la Cassazione che, nel caso in esame, era chiamata a statuire con riferimento a due società che, nella complessiva sistemazione dei rapporti contrattuali, avevano, da un lato, sottoscritto una clausola compromissioria per arbitrato rituale di diritto nell’accordo quadro in merito agli accordi attuativi e, dall’altro, riguardo alla cessione del ramo d’azienda, una specifica clausola per arbitrato irrituale secondo equità, in riferimento ai “rapporti gestionali di dare-avere”.

In seguito a un lodo arbitrale dove, di fronte a una duplice domanda riconvenzionale di parte convenuta, il Collegio disponeva solo nel merito della prima, dichiarandosi incompetente per la seconda, in quanto rientrante nel “dare-avere gestionale” e pertanto da definirsi tramite arbitrato irrituale, la questione veniva portata all’attenzione della Corte d’Appello. Quest’ultima a sua volta dichiarava che entrambe le domande avrebbero dovuto trovare soluzione nell’ambito dell’arbitrato irrituale poichè entrambe concernenti “rapporti gestionali di dare-avere”, per la definizione dei quali le parti avrebbero stabilito tale specifico strumento di risoluzione.

Veniva proposto ricorso per Cassazione, ma la Corte di ultima istanza valutava il ricorso infondato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, sostenendo che i tre motivi di ricorso dovevano essere esaminati congiuntamente, poichè attinenti all’identico problema costituito dalla sindacabilità, da parte del giudice dell’impugnazione del lodo, del contenuto della clausola compromissoria, allo scopo di verificare la sussistenza della potestà arbitrale e dei suoi confini.

Secondo la Cassazione, non si tratta infatti di una questione di competenza, nelle cui forme si atteggia e si configura il conflitto tra arbitri rituali e giudici statali comuni, ma della corretta delimitazione del complesso delle clausole compromissorie negoziate dalle parti. Una tale questione non è stata investita da overruling in materia processuale e così si pone come una questione di merito che, come tale, esclude che il giudice di legittimità, quale giudice del fatto processuale, possa esaminare, anche d’ufficio, le clausole compromissorie per stabilire quale sia il giudice competente a decidere della controversia in atto.

Pertanto il ricorso va respinto in parte sulla base del seguente principio di diritto:

In tema di arbitrato, anche a seguito dell’ordinanza delle Sez. Unite n. 24153 del 2013, la questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un’altra, intercorrente tra le stesse parti, per arbitrato irrituale, non integra una questione di “competenza”, bensì una questione di merito, la cui soluzione richiede l’interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici, dettati per l’interpretazione dei contratti.

In secondo luogo, in merito alla censura sollevata dal ricorrente dell’interpretazione data dalla Corte territoriale alla nozione di “rapporti gestionali”, la Suprema Corte sostiene che: “In tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’“iter” logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto oppure nel caso di violazione di norme ermeneutiche.”

Nella specie, infatti, il giudice di merito aderiva ad una nozione più ampia dei “rapporti gestionali” rispetto a quella affermatao dalla ricorrente, senza che il risultato interpretativo, pur opinabile, potesse dirsi irrazionale e la motivazione che ne dava conto potesse dirsi inadeguata.

(Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, Sentenza 8 marzo 2016, n. 4526)