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Autodichia del Quirinale

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Ordinanza 17 marzo 2010, n. 6529
Con il termine “autodichia” ci si riferisce alla potestà di autogiurisdizione che può essere esercitata dagli organi costituzionali dello Stato, che siano già muniti di autonomia organizzativa e contabile, per risolvere le controversie insorgenti fra essi medesimi e il personale dipendente.

La ratio delle norme riguardanti l’istituto in esame si fonda sull’esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza degli organi suddetti dai condizionamenti esterni provenienti da ogni altro potere statuale, compresa la magistratura.

Si è a lungo dubitato circa la compatibilità dell’autodichia con la Costituzione e, più specificamente, con le disposizioni che garantiscono il diritto di uguaglianza, il diritto alla difesa e la garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi senza esclusioni o limitazioni a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti (artt. 3, 24 e 113 Cost.).

In particolare, le Sezioni Unite con la sentenza n. 12614 del 1998 hanno riconosciuto la giurisdizione amministrativa in ordine alle controversie della Presidenza della Repubblica con i propri dipendenti.

In base a detta pronuncia <<nell’attuale assetto costituzionale è lecito dubitare che l’autodichia costituisca un necessario attributo implicato dalla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali. E ciò sia perché siffatta potestà implicita non sembra desumibile dal principio di separazione dei poteri, che, nel vigente ordinamento costituzionale non è assoluto, nel senso di assicurare l’indifferenza e l’impenetrabilità assoluta fra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, ma è attuato mediante forme di reciproco controllo (…). Sia soprattutto perché la tutela giurisdizionale costituisce principio cardine dell’ordinamento, atteso che la Costituzione assicura a “tutti” la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, sicché le limitazioni a tale regola generale devono essere espressamente previste (e sorrette da adeguata motivazione giustificazione)>>.

Tale orientamento è seguito anche dalla IV sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 178 del 1997, nella quale si sostiene che <<i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica sull’ordinamento interno del segretariato e in generale sui propri dipendenti sono privi di fondamento diretto in norme o principi costituzionali, atteso che il potere regolamentare è attribuito dall’articolo 3 della legge n. 1077 del 1948. In altri termini, diversamente da quanto accade per le due Camere parlamentari, provviste di autodichia ai sensi dell’articolo 64 della Costituzione, gli atti amministrativi adottati dalla Presidenza della Repubblica, siano essi regolamentari o adottati in forma regolamentare, non sono sorretti da alcun fondamento costituzionale (implicito o espresso), trovando la loro fonte nel citato articolo 3 della l. n. 1077 del 1948, al quale quindi non va attribuita una valenza meramente ricognitiva, bensì una natura attributiva del potere regolamentare. Con l’ulteriore corollario che gli atti in questione – al pari di ogni altro amministrativo – sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo>>.

In realtà, la stessa sentenza delle Sezioni Unite n. 12614 del 1998 non ha pregiudicato la possibilità che la questione dell’autodichia potesse essere diversamente decisa dopo l’emanazione dei decreti del 1996, non applicabili ratione temporis alla controversia oggetto di quella decisione.

Invero è indiscusso in dottrina che anche il Quirinale necessiti di un proprio apparato per consentire un efficiente esercizio delle funzioni presidenziali, garantendone l’indipendenza rispetto ad altri poteri dello Stato.

Di conseguenza il Segretariato generale non può essere riduttivamente configurato quale organo burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato dell’amministrazione dello Stato.

L’autonomia del Quirinale si esprime, da un lato, sul piano normativo, nel senso che agli organi in questione compete la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto e il funzionamento degli apparati serventi e si completa, dall’altro, nel momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza.

Per quanto non siano completamente assimilabili ai regolamenti delle Camere, anche i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale; tanto più che fonti del genere, se così non fosse, non potrebbero legittimamente inserirsi nell’attuale sistema degli atti normativi dello Stato.

Con l’ordinanza n. 6529 del 17 marzo 2010, le Sezioni Unite sottolineano come <<dall’esercizio di tale potestà regolamentare – di natura chiaramente normativa (e rispetto al quale la legge n. 1077 del 1948 assume mero ruolo ricognitivo – deriva dunque la “possibilità” di riservare alla propria giurisdizione domestica le controversie insorte nella costituzione e nella gestione del rapporto con il personale necessario per il perseguimento dei propri fini, una possibilità che il pregresso decreto del 1980 confessava non essere stata utilizzata (prevedendosi solo un procedimento interno non ostativo del ricorso al giudice) e che invece i decreti del 1996 hanno pienamente utilizzato, creando un doppio grado di cognizione con specifica regolamentazione procedurale e nell’intento di istituire una sede decisoria tecnica, imparziale e stabile>>.

L’insindacabilità esterna dei regolamenti presidenziali è assicurata non per garantire privilegi connessi al rispetto, al prestigio e al decoro dei titolari delle relative potestà ma perché è strumentale all’autonomo esercizio delle funzioni del Quirinale.

Quand’anche si voglia ritenere che l’autodichia possa ricondursi ad un concetto di giurisdizione speciale, come ritenuto dalle Sezioni Unite civili del 10 luglio 2004 con la sentenza n. 11019, <<questo non sarebbe evocabile se non in senso lato, vale a dire più che per intrinseca natura del sistema stesso, per la ragione che fra i due contrapposti orientamenti interpretativi – quello che nega ogni giudice e quello che accorda un giudice – può apparire opportuna la scelta del secondo, siccome suscettivo di offendere meno gravemente – e cioè, eventualmente, soltanto sotto i profili dell’indipendenza, terzietà e imparzialità, nonché della difesa e del contraddittorio – i precetti costituzionali contenuti negli articoli 24 e 113 Cost.>>.

Eventuali deroghe alla giurisdizione – sempre di stretta interpretazione – sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato e perciò situati al vertice dell’ordinamento, in posizione di assoluta parità.

D’altronde lo stesso esercizio della giurisdizione domestica in esame viene in concreto strutturato ed esercitato in perfetta corrispondenza con i principi di cui agli artt. 25, 104, 107 e 108 della Costituzione.

E’ noto che con i decreti del Presidente della Repubblica n. 81 del 24 luglio 1996 e n. 89 del 9 ottobre 1996 è prevista l’istituzione di: un << Collegio giudicante >>, competente in primo grado, che è composto da un Consigliere di Stato, da un consigliere della Corte d’appello e da un referendario della Corte dei conti (designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte d’appello e della Corte dei conti) e da due dipendenti della Presidenza della Repubblica (di cui uno designato dal Segretario generale e l’altro sorteggiato nell’ambito di una terna eletta da tutti i dipendenti); e di un << Collegio di appello >>, competente in secondo grado, che è composto da un Presidente di sezione del Consiglio di Stato, da un consigliere di Cassazione e da un consigliere della Corte dei conti (designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte di cassazione e della Corte dei conti).

L’articolazione di questa struttura decisionale e la volontà di sottoporne il funzionamento alle regole procedurali generali si adeguano ai più recenti orientamenti della Corte EDU in relazione all’interpretazione dell’art. 6, par. 1, CEDU:

- la nozione di “legge” è intesa come qualsiasi testo normativo accessibile, conoscibile e sufficientemente prevedibile quanto ai suoi contenuti ed alle conseguenze applicative e non, in senso stretto, come disposizione legislativa adottata dal Parlamento; i regolamenti presidenziali sono formulati in modo chiaro da consentire a tutti di conoscere le norme che regolano il procedimento dinanzi ai giudici domestici ed è assicurata la loro pubblicità-conoscibilità.

- un “tribunale” non deve necessariamente essere una giurisdizione di tipo classico, integrata nelle strutture ordinarie; ciò che rileva sono le garanzie, materiali e processuali, poste in essere.

- i decreti presidenziali analizzati perseguono un fine legittimo e salvaguardano un interesse meritevole di tutela e gli strumenti all’uopo impiegati sono in rapporto di ragionevole proporzione rispetto allo scopo avuto di mira ed alle limitazioni richieste ai cittadini interessati; a questi ultimi è comunque consentito accedere ad un tribunale che giudica le controversie sulla base di norme processuali e sostanziali del tutto simili a quelle previste dal comune ordinamento giudiziario e all’esito di un procedimento giuridicamente regolato.

- l’indipendenza della giurisdizione domestica è garantita da elementi qualificanti quali le modalità di designazione dei giudici, la professionalità, la durata del mandato e l’adeguatezza delle garanzie contro pressioni esterne.

L’effettività e la congruità dell’autodichia della Presidenza della Repubblica sono valorizzate dalla scelta di costituire i collegi in prevalenza (in primo grado) o in via esclusiva (in appello) con personale totalmente esterno all’organo costituzionale e legato con il Segretariato generale da un rapporto puramente onorario.

Quest’ultima peculiarità della giurisdizione domestica del Quirinale è idonea a superare le criticità evidenziate dalla Corte EDU nella causa Savino e altri c. Italia con la sentenza del 28 aprile 2009 in relazione alla rilevata mancanza di imparzialità oggettiva e di indipendenza della Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, interamente costituita da membri dello stesso organo competente per regolare le principali questioni amministrative, ivi compreso quelle riguardanti la compatibilità e l’organizzazione dei concorsi per il reclutamento del personale della Camera dei deputati.

La successiva riforma dell’art. 12 del Regolamento della Camera dei deputati e dei regolamenti minori unitamente all’istituzione del Collegio d’appello rappresenta l’indice sintomatico di una rivisitazione degli interna corporis degli organi costituzionali alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, questione da sempre ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale in quanto tali atti non rientrano formalmente tra quelli citati dall’art. 134, prima alinea, della Costituzione.

L’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo avrà sicuramente un ruolo di grande importanza per le sorti dell’autodichia, soprattutto quando, accolte le doglianze dei ricorrenti, occorrerà meditare sulle ipotesi di riforma del sistema.

Con il termine “autodichia” ci si riferisce alla potestà di autogiurisdizione che può essere esercitata dagli organi costituzionali dello Stato, che siano già muniti di autonomia organizzativa e contabile, per risolvere le controversie insorgenti fra essi medesimi e il personale dipendente.

La ratio delle norme riguardanti l’istituto in esame si fonda sull’esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza degli organi suddetti dai condizionamenti esterni provenienti da ogni altro potere statuale, compresa la magistratura.

Si è a lungo dubitato circa la compatibilità dell’autodichia con la Costituzione e, più specificamente, con le disposizioni che garantiscono il diritto di uguaglianza, il diritto alla difesa e la garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi senza esclusioni o limitazioni a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti (artt. 3, 24 e 113 Cost.).

In particolare, le Sezioni Unite con la sentenza n. 12614 del 1998 hanno riconosciuto la giurisdizione amministrativa in ordine alle controversie della Presidenza della Repubblica con i propri dipendenti.

In base a detta pronuncia <<nell’attuale assetto costituzionale è lecito dubitare che l’autodichia costituisca un necessario attributo implicato dalla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali. E ciò sia perché siffatta potestà implicita non sembra desumibile dal principio di separazione dei poteri, che, nel vigente ordinamento costituzionale non è assoluto, nel senso di assicurare l’indifferenza e l’impenetrabilità assoluta fra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, ma è attuato mediante forme di reciproco controllo (…). Sia soprattutto perché la tutela giurisdizionale costituisce principio cardine dell’ordinamento, atteso che la Costituzione assicura a “tutti” la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, sicché le limitazioni a tale regola generale devono essere espressamente previste (e sorrette da adeguata motivazione giustificazione)>>.

Tale orientamento è seguito anche dalla IV sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 178 del 1997, nella quale si sostiene che <<i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica sull’ordinamento interno del segretariato e in generale sui propri dipendenti sono privi di fondamento diretto in norme o principi costituzionali, atteso che il potere regolamentare è attribuito dall’articolo 3 della legge n. 1077 del 1948. In altri termini, diversamente da quanto accade per le due Camere parlamentari, provviste di autodichia ai sensi dell’articolo 64 della Costituzione, gli atti amministrativi adottati dalla Presidenza della Repubblica, siano essi regolamentari o adottati in forma regolamentare, non sono sorretti da alcun fondamento costituzionale (implicito o espresso), trovando la loro fonte nel citato articolo 3 della l. n. 1077 del 1948, al quale quindi non va attribuita una valenza meramente ricognitiva, bensì una natura attributiva del potere regolamentare. Con l’ulteriore corollario che gli atti in questione – al pari di ogni altro amministrativo – sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo>>.

In realtà, la stessa sentenza delle Sezioni Unite n. 12614 del 1998 non ha pregiudicato la possibilità che la questione dell’autodichia potesse essere diversamente decisa dopo l’emanazione dei decreti del 1996, non applicabili ratione temporis alla controversia oggetto di quella decisione.

Invero è indiscusso in dottrina che anche il Quirinale necessiti di un proprio apparato per consentire un efficiente esercizio delle funzioni presidenziali, garantendone l’indipendenza rispetto ad altri poteri dello Stato.

Di conseguenza il Segretariato generale non può essere riduttivamente configurato quale organo burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato dell’amministrazione dello Stato.

L’autonomia del Quirinale si esprime, da un lato, sul piano normativo, nel senso che agli organi in questione compete la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto e il funzionamento degli apparati serventi e si completa, dall’altro, nel momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza.

Per quanto non siano completamente assimilabili ai regolamenti delle Camere, anche i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale; tanto più che fonti del genere, se così non fosse, non potrebbero legittimamente inserirsi nell’attuale sistema degli atti normativi dello Stato.

Con l’ordinanza n. 6529 del 17 marzo 2010, le Sezioni Unite sottolineano come <<dall’esercizio di tale potestà regolamentare – di natura chiaramente normativa (e rispetto al quale la legge n. 1077 del 1948 assume mero ruolo ricognitivo – deriva dunque la “possibilità” di riservare alla propria giurisdizione domestica le controversie insorte nella costituzione e nella gestione del rapporto con il personale necessario per il perseguimento dei propri fini, una possibilità che il pregresso decreto del 1980 confessava non essere stata utilizzata (prevedendosi solo un procedimento interno non ostativo del ricorso al giudice) e che invece i decreti del 1996 hanno pienamente utilizzato, creando un doppio grado di cognizione con specifica regolamentazione procedurale e nell’intento di istituire una sede decisoria tecnica, imparziale e stabile>>.

L’insindacabilità esterna dei regolamenti presidenziali è assicurata non per garantire privilegi connessi al rispetto, al prestigio e al decoro dei titolari delle relative potestà ma perché è strumentale all’autonomo esercizio delle funzioni del Quirinale.

Quand’anche si voglia ritenere che l’autodichia possa ricondursi ad un concetto di giurisdizione speciale, come ritenuto dalle Sezioni Unite civili del 10 luglio 2004 con la sentenza n. 11019, <<questo non sarebbe evocabile se non in senso lato, vale a dire più che per intrinseca natura del sistema stesso, per la ragione che fra i due contrapposti orientamenti interpretativi – quello che nega ogni giudice e quello che accorda un giudice – può apparire opportuna la scelta del secondo, siccome suscettivo di offendere meno gravemente – e cioè, eventualmente, soltanto sotto i profili dell’indipendenza, terzietà e imparzialità, nonché della difesa e del contraddittorio – i precetti costituzionali contenuti negli articoli 24 e 113 Cost.>>.

Eventuali deroghe alla giurisdizione – sempre di stretta interpretazione – sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato e perciò situati al vertice dell’ordinamento, in posizione di assoluta parità.

D’altronde lo stesso esercizio della giurisdizione domestica in esame viene in concreto strutturato ed esercitato in perfetta corrispondenza con i principi di cui agli artt. 25, 104, 107 e 108 della Costituzione.

E’ noto che con i decreti del Presidente della Repubblica n. 81 del 24 luglio 1996 e n. 89 del 9 ottobre 1996 è prevista l’istituzione di: un << Collegio giudicante >>, competente in primo grado, che è composto da un Consigliere di Stato, da un consigliere della Corte d’appello e da un referendario della Corte dei conti (designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte d’appello e della Corte dei conti) e da due dipendenti della Presidenza della Repubblica (di cui uno designato dal Segretario generale e l’altro sorteggiato nell’ambito di una terna eletta da tutti i dipendenti); e di un << Collegio di appello >>, competente in secondo grado, che è composto da un Presidente di sezione del Consiglio di Stato, da un consigliere di Cassazione e da un consigliere della Corte dei conti (designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte di cassazione e della Corte dei conti).

L’articolazione di questa struttura decisionale e la volontà di sottoporne il funzionamento alle regole procedurali generali si adeguano ai più recenti orientamenti della Corte EDU in relazione all’interpretazione dell’art. 6, par. 1, CEDU:

- la nozione di “legge” è intesa come qualsiasi testo normativo accessibile, conoscibile e sufficientemente prevedibile quanto ai suoi contenuti ed alle conseguenze applicative e non, in senso stretto, come disposizione legislativa adottata dal Parlamento; i regolamenti presidenziali sono formulati in modo chiaro da consentire a tutti di conoscere le norme che regolano il procedimento dinanzi ai giudici domestici ed è assicurata la loro pubblicità-conoscibilità.

- un “tribunale” non deve necessariamente essere una giurisdizione di tipo classico, integrata nelle strutture ordinarie; ciò che rileva sono le garanzie, materiali e processuali, poste in essere.

- i decreti presidenziali analizzati perseguono un fine legittimo e salvaguardano un interesse meritevole di tutela e gli strumenti all’uopo impiegati sono in rapporto di ragionevole proporzione rispetto allo scopo avuto di mira ed alle limitazioni richieste ai cittadini interessati; a questi ultimi è comunque consentito accedere ad un tribunale che giudica le controversie sulla base di norme processuali e sostanziali del tutto simili a quelle previste dal comune ordinamento giudiziario e all’esito di un procedimento giuridicamente regolato.

- l’indipendenza della giurisdizione domestica è garantita da elementi qualificanti quali le modalità di designazione dei giudici, la professionalità, la durata del mandato e l’adeguatezza delle garanzie contro pressioni esterne.

L’effettività e la congruità dell’autodichia della Presidenza della Repubblica sono valorizzate dalla scelta di costituire i collegi in prevalenza (in primo grado) o in via esclusiva (in appello) con personale totalmente esterno all’organo costituzionale e legato con il Segretariato generale da un rapporto puramente onorario.

Quest’ultima peculiarità della giurisdizione domestica del Quirinale è idonea a superare le criticità evidenziate dalla Corte EDU nella causa Savino e altri c. Italia con la sentenza del 28 aprile 2009 in relazione alla rilevata mancanza di imparzialità oggettiva e di indipendenza della Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, interamente costituita da membri dello stesso organo competente per regolare le principali questioni amministrative, ivi compreso quelle riguardanti la compatibilità e l’organizzazione dei concorsi per il reclutamento del personale della Camera dei deputati.

La successiva riforma dell’art. 12 del Regolamento della Camera dei deputati e dei regolamenti minori unitamente all’istituzione del Collegio d’appello rappresenta l’indice sintomatico di una rivisitazione degli interna corporis degli organi costituzionali alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, questione da sempre ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale in quanto tali atti non rientrano formalmente tra quelli citati dall’art. 134, prima alinea, della Costituzione.

L’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo avrà sicuramente un ruolo di grande importanza per le sorti dell’autodichia, soprattutto quando, accolte le doglianze dei ricorrenti, occorrerà meditare sulle ipotesi di riforma del sistema.