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Brevi considerazioni sulla natura deliberativa dei referendum ex articolo 132, 2° comma, Cosituzione e sue conseguenze

Un primo sguardo ai referendum previsti dalla nostra Carta Costituzionale, ci porta a concludere, come ha opportunamente messo in rilievo Livio Paladin, che “l’Assemblea Costituente si è limitata a configurare tre forme di referendum interessanti leggi dello Stato” ([1]): quello abrogativo ex art. 75 Cost., quello consultivo ex art. 132, 1° e 2° comma ed, infine, quello approvativo ex art. 138 Cost.

Con riferimento alla fonte referendaria avente ad oggetto le migrazioni di Comuni e Province da una Regione ad un’altra di cui all’art. 132, 2° comma, Cost., la dottrina, soprattutto alla luce di richieste referendarie sempre più numerose che hanno coinvolto, in particolare, la Regione del Veneto ([2]), ha avanzato seri dubbi circa il carattere consultivo delle stesse. Dal momento che “il nesso fra l’atto risultante dal referendum e la deliberazione legislativa non è di vincolo a provvedere” ([3]), si è stati indotti a riportare “la deliberazione referendaria all’attività pubblica che appare dotata di questo carattere cioè all’attività consultiva” ([4]). Ma se, la soluzione ora delineata, può adattarsi all’ipotesi di esito favorevole della consultazione referendaria come, del resto, confermato dalla sentenza 10 novembre n. 334/2004 della Corte Costituzionale ([5]), alla stessa conclusione non è possibile pervenire nell’evenienza che la medesima produca esito negativo poiché, in questa circostanza, si traduce in un vincolo, obbligatorio per il legislatore statale, a non provvedere ulteriormente con la conseguenza che il procedimento per variazione territoriale si arresta ([6]).

Esclusa, pertanto, la natura consultiva del referendum, quantomeno nell’ipotesi di fallimento dello stesso, resta da vedere in quale altro modo si può configurare sinotticamente la fonte in oggetto. Sembra preferibile, in quanto comprendente tanto l’aspetto positivo quanto quello negativo dell’esito del referendum, sostenere la tesi del suo carattere deliberativo. In altri termini, il voto espresso dalle “popolazioni interessate” si configurerebbe quale “manifestazione di volontà del corpo elettorale locale relativamente alla proposta di modifica del territorio” ([7]) dotata del carattere della “forza politica” vincolante quanto ai contenuti (almeno in re) per il disegno di legge che il Ministro dell’Interno, entro 60 giorni dall’approvazione della proposta di referendum ([8]), dovrà presentare alle Camere; viceversa, nel caso di voto sfavorevole, l’interruzione immediata del procedimento si rivelerebbe come effetto della volontà popolare al mantenimento ed alla conservazione dello status quo.

Sia nella prima evenienza sia nella seconda, la ratio deliberativa trova il suo fondamento e denominatore comune in quello che si potrebbe definire come il carattere elastico e flessibile del territorio regionale. Si tratta cioè di un’ipotesi, quella contemplata dall’art. 132, 2° comma, Cost. come quella di cui al precedente 1° comma, prevista allo scopo di non “di cristallizzare l’assetto territoriale-morfologico quale stabilito dal legislatore costituente” ([9]).

Ammessa, dunque, la natura deliberativa della consultazione referendaria, ne consegue che l’atto risultante dal referendum si presenta quale espressione di autoidentificazione del territorio interessato alla variazione; un’autoidentifcazione che postula e richiede la necessaria distinzione tra le diverse aree territoriali e i diversi interessi coinvolti ([10]) (come, del resto, confermato indirettamente dalla sentenza n. 334/2004 Corte Cost. che presuppone distinte deliberazioni da parte dei rispettivi Consigli Comunali o Provinciali dai quali parte la richiesta di migrazione) con la conseguenza dell’esistenza di una patente di incostituzionalità qualora si celebrassero momenti referendari unitari coinvolgenti più amministrazioni comunali come avvenuto, in data 28 ottobre 2007, per i Comuni bellunesi di Colle S. Lucia, Livinallongo e Cortina d’Ampezzo e nella primavera 2007 per alcuni Comuni dell’Altopiano di Asiago; in questo caso, infatti, l’interesse diretto alla variazione viene “surrogato da popolazioni di aree territoriali diverse da quelle delle quali si richiede il distacco” ([11]).

A sostegno dell’ammissibilità di un unico quesito referendario, è stata invocata, dal Comitato Promotore, l’ordinanza pronunciata dall’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 43 della l. ordinaria dello Stato 25 maggio 1970 n. 352, che ha il compito di accertare la conformità alla disposizione costituzionale di cui all’art. 132, 2° comma, Cost. La genericità dell’art. 43 lascia aperti alcuni interrogativi circa un controllo, ad opera della Cassazione, riguardo la forma del quesito referendario; ad una prima lettura, sembrerebbe, infatti, che la dichiarazione di legittimità del referendum si muova lungo due direttrici: una sostanziale concernente il fatto che la consultazione debba necessariamente riferirsi ad un’ipotesi di variazione territoriale (c.d. distacco-aggregazione), l’altra formale ma circoscritta al raggiungimento del “numero minimo prescritto delle deliberazioni depositate” ([12]). Tuttavia, e non volendo interpretare la disposizione normativa in modo tale da creare vuoti normativi, autorevole dottrina ([13]) ha ritenuto che la forma con la quale viene presentato all’elettore il quesito referendario rientri tra le verifiche da effettuarsi a cura dell’Ufficio Centrale costituito presso la Suprema Corte. Ora, per le ragioni precedentemente esposte, l’ordinanza che ha dato il via libera al referendum unitario dei tre Comuni del bellunese e di quelli dell’Altopiano di Asiago (Provincia di Vicenza), ad avviso dello scrivente, ha tralasciato quest’ultimo controllo, pertanto, si sarebbe potuto ipotizzare (entro, però, il termine di 60 giorni dalla conoscenza dell’atto impugnato) un ricorso alla Corte Costituzionale ([14]) da parte della Regione del Veneto per conflitto di attribuzioni in quanto lesa dall’adozione di un atto frutto di “illegittimo esercizio di un potere” ([15]) che è comunque riconosciuto in capo allo Stato centrale.



([1]) Così, L. PALADIN, Diritto Costituzionale, Padova, Cedam, 1998, p. 205.

([2]) Si tratta dei Comuni di Lamon, Sovramonte, Cortina D’Ampezzo, Colle S. Lucia, Livinallongo, Sappada, dell’Altopiano di Asiago, di Cinto Caomaggiore e di S. Michele al tagliamento.

([3]) Cfr., M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, Padova, Cedam, 1991, p. 83.

([4]) M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., p. 83.

([5]) Nel senso che le popolazioni interessate si limiterebbero ad una manifestazione di giudizio circa la proposta di modifica. Per un commento dettagliato della sentenza, si rinvia a T. F. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” ed i referendum per le variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che trovi, in Le Regioni, n. 3/2005, pp. 417-430.

(4) Cfr., V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di referendum, in Riv. Amm., 1955, pp. 458-459.

([7]) In questa direzione, L. FERRARO, Artt. 131 e 132 Cost, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2542; si veda anche, in merito, T. F. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” ed i referendum per le variazioni territoriali ex artt. 132 e 133 Cost: territorio che vai, interesse che trovi, op. cit., p. 427 e ss.

([8]) Art. 45, 4° comma, della l. ordinaria dello Stato n. 352/1970.

([9]) Vedi, M. BERTOLISSI, Art. 132 Cost., in V. Crisafulli-L. Paladin (a cura di) Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, p. 770.

([10]) La necessità che la popolazione interessata sia “territorialmente individuata” è espressa anche da G. M. SALERNO, I Referendum, Padova, Cedam, 1992, p. 209.

([11]) Così, M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., pp 74-75.

([12]) Si veda art. 43, 1° comma, l. ordinaria dello Stato n. 352/1970.

([13]) Sul punto, ancora M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., p. 69.

([14]) Sull’ipotesi di un possibile ricorso alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni qualora l’Ufficio Centrale presso la Corte di Cassazione dichiari legittima la richiesta referendaria, F. R. TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze di illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale ex art. 132, 2° comma, Cost., per violazione del diritto all’autodeterminazione della comunità locale, in Forum dei Quad. Cost., 20 febbraio 2008.

([15]) Cfr., G. FALCON, Lineamenti di Diritto Pubblico, Padova, Cedam, 2006, p. 510.

Un primo sguardo ai referendum previsti dalla nostra Carta Costituzionale, ci porta a concludere, come ha opportunamente messo in rilievo Livio Paladin, che “l’Assemblea Costituente si è limitata a configurare tre forme di referendum interessanti leggi dello Stato” ([1]): quello abrogativo ex art. 75 Cost., quello consultivo ex art. 132, 1° e 2° comma ed, infine, quello approvativo ex art. 138 Cost.

Con riferimento alla fonte referendaria avente ad oggetto le migrazioni di Comuni e Province da una Regione ad un’altra di cui all’art. 132, 2° comma, Cost., la dottrina, soprattutto alla luce di richieste referendarie sempre più numerose che hanno coinvolto, in particolare, la Regione del Veneto ([2]), ha avanzato seri dubbi circa il carattere consultivo delle stesse. Dal momento che “il nesso fra l’atto risultante dal referendum e la deliberazione legislativa non è di vincolo a provvedere” ([3]), si è stati indotti a riportare “la deliberazione referendaria all’attività pubblica che appare dotata di questo carattere cioè all’attività consultiva” ([4]). Ma se, la soluzione ora delineata, può adattarsi all’ipotesi di esito favorevole della consultazione referendaria come, del resto, confermato dalla sentenza 10 novembre n. 334/2004 della Corte Costituzionale ([5]), alla stessa conclusione non è possibile pervenire nell’evenienza che la medesima produca esito negativo poiché, in questa circostanza, si traduce in un vincolo, obbligatorio per il legislatore statale, a non provvedere ulteriormente con la conseguenza che il procedimento per variazione territoriale si arresta ([6]).

Esclusa, pertanto, la natura consultiva del referendum, quantomeno nell’ipotesi di fallimento dello stesso, resta da vedere in quale altro modo si può configurare sinotticamente la fonte in oggetto. Sembra preferibile, in quanto comprendente tanto l’aspetto positivo quanto quello negativo dell’esito del referendum, sostenere la tesi del suo carattere deliberativo. In altri termini, il voto espresso dalle “popolazioni interessate” si configurerebbe quale “manifestazione di volontà del corpo elettorale locale relativamente alla proposta di modifica del territorio” ([7]) dotata del carattere della “forza politica” vincolante quanto ai contenuti (almeno in re) per il disegno di legge che il Ministro dell’Interno, entro 60 giorni dall’approvazione della proposta di referendum ([8]), dovrà presentare alle Camere; viceversa, nel caso di voto sfavorevole, l’interruzione immediata del procedimento si rivelerebbe come effetto della volontà popolare al mantenimento ed alla conservazione dello status quo.

Sia nella prima evenienza sia nella seconda, la ratio deliberativa trova il suo fondamento e denominatore comune in quello che si potrebbe definire come il carattere elastico e flessibile del territorio regionale. Si tratta cioè di un’ipotesi, quella contemplata dall’art. 132, 2° comma, Cost. come quella di cui al precedente 1° comma, prevista allo scopo di non “di cristallizzare l’assetto territoriale-morfologico quale stabilito dal legislatore costituente” ([9]).

Ammessa, dunque, la natura deliberativa della consultazione referendaria, ne consegue che l’atto risultante dal referendum si presenta quale espressione di autoidentificazione del territorio interessato alla variazione; un’autoidentifcazione che postula e richiede la necessaria distinzione tra le diverse aree territoriali e i diversi interessi coinvolti ([10]) (come, del resto, confermato indirettamente dalla sentenza n. 334/2004 Corte Cost. che presuppone distinte deliberazioni da parte dei rispettivi Consigli Comunali o Provinciali dai quali parte la richiesta di migrazione) con la conseguenza dell’esistenza di una patente di incostituzionalità qualora si celebrassero momenti referendari unitari coinvolgenti più amministrazioni comunali come avvenuto, in data 28 ottobre 2007, per i Comuni bellunesi di Colle S. Lucia, Livinallongo e Cortina d’Ampezzo e nella primavera 2007 per alcuni Comuni dell’Altopiano di Asiago; in questo caso, infatti, l’interesse diretto alla variazione viene “surrogato da popolazioni di aree territoriali diverse da quelle delle quali si richiede il distacco” ([11]).

A sostegno dell’ammissibilità di un unico quesito referendario, è stata invocata, dal Comitato Promotore, l’ordinanza pronunciata dall’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 43 della l. ordinaria dello Stato 25 maggio 1970 n. 352, che ha il compito di accertare la conformità alla disposizione costituzionale di cui all’art. 132, 2° comma, Cost. La genericità dell’art. 43 lascia aperti alcuni interrogativi circa un controllo, ad opera della Cassazione, riguardo la forma del quesito referendario; ad una prima lettura, sembrerebbe, infatti, che la dichiarazione di legittimità del referendum si muova lungo due direttrici: una sostanziale concernente il fatto che la consultazione debba necessariamente riferirsi ad un’ipotesi di variazione territoriale (c.d. distacco-aggregazione), l’altra formale ma circoscritta al raggiungimento del “numero minimo prescritto delle deliberazioni depositate” ([12]). Tuttavia, e non volendo interpretare la disposizione normativa in modo tale da creare vuoti normativi, autorevole dottrina ([13]) ha ritenuto che la forma con la quale viene presentato all’elettore il quesito referendario rientri tra le verifiche da effettuarsi a cura dell’Ufficio Centrale costituito presso la Suprema Corte. Ora, per le ragioni precedentemente esposte, l’ordinanza che ha dato il via libera al referendum unitario dei tre Comuni del bellunese e di quelli dell’Altopiano di Asiago (Provincia di Vicenza), ad avviso dello scrivente, ha tralasciato quest’ultimo controllo, pertanto, si sarebbe potuto ipotizzare (entro, però, il termine di 60 giorni dalla conoscenza dell’atto impugnato) un ricorso alla Corte Costituzionale ([14]) da parte della Regione del Veneto per conflitto di attribuzioni in quanto lesa dall’adozione di un atto frutto di “illegittimo esercizio di un potere” ([15]) che è comunque riconosciuto in capo allo Stato centrale.



([1]) Così, L. PALADIN, Diritto Costituzionale, Padova, Cedam, 1998, p. 205.

([2]) Si tratta dei Comuni di Lamon, Sovramonte, Cortina D’Ampezzo, Colle S. Lucia, Livinallongo, Sappada, dell’Altopiano di Asiago, di Cinto Caomaggiore e di S. Michele al tagliamento.

([3]) Cfr., M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, Padova, Cedam, 1991, p. 83.

([4]) M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., p. 83.

([5]) Nel senso che le popolazioni interessate si limiterebbero ad una manifestazione di giudizio circa la proposta di modifica. Per un commento dettagliato della sentenza, si rinvia a T. F. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” ed i referendum per le variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che trovi, in Le Regioni, n. 3/2005, pp. 417-430.

(4) Cfr., V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di referendum, in Riv. Amm., 1955, pp. 458-459.

([7]) In questa direzione, L. FERRARO, Artt. 131 e 132 Cost, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2542; si veda anche, in merito, T. F. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” ed i referendum per le variazioni territoriali ex artt. 132 e 133 Cost: territorio che vai, interesse che trovi, op. cit., p. 427 e ss.

([8]) Art. 45, 4° comma, della l. ordinaria dello Stato n. 352/1970.

([9]) Vedi, M. BERTOLISSI, Art. 132 Cost., in V. Crisafulli-L. Paladin (a cura di) Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, p. 770.

([10]) La necessità che la popolazione interessata sia “territorialmente individuata” è espressa anche da G. M. SALERNO, I Referendum, Padova, Cedam, 1992, p. 209.

([11]) Così, M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., pp 74-75.

([12]) Si veda art. 43, 1° comma, l. ordinaria dello Stato n. 352/1970.

([13]) Sul punto, ancora M. P. GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, Vol. II, op. cit., p. 69.

([14]) Sull’ipotesi di un possibile ricorso alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni qualora l’Ufficio Centrale presso la Corte di Cassazione dichiari legittima la richiesta referendaria, F. R. TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze di illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale ex art. 132, 2° comma, Cost., per violazione del diritto all’autodeterminazione della comunità locale, in Forum dei Quad. Cost., 20 febbraio 2008.

([15]) Cfr., G. FALCON, Lineamenti di Diritto Pubblico, Padova, Cedam, 2006, p. 510.