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Le variazioni territoriali delle Regioni ex art. 132, 2° comma, Cost. nel dibattito in seno all’Assemblea Costituente

Sommario:

1. Introduzione

2. Le ragioni del Costituente sottese all’art. 132 della Costituzione

3. I lavori della Seconda Sottocommissione

4. Il dibattito in Adunanza Plenaria – 5. L’ultima fase: l’approvazione finale da parte dell’Assemblea Costituente

1. Introduzione

L’articolo sarà dedicato ad esaminare il dibattito in Assemblea Costituente sulle variazioni territoriali delle Regioni di cui all’art. 132 della Costituzione. Rispetto al sistema delineato nell’ordinamento pre-repubblicano, l’entrata in vigore della Carta Costituzionale ha segnato l’ingresso di un nuovo tipo di variazione. Infatti, mentre lo Statuto Albertino conosceva solo variazioni dei confini territoriali dei Comuni e delle Province ex art. 74 ([1]), la Costituzione, nell’art. 132, 2° comma, ha introdotto anche l’ipotesi del distacco-aggregazione dell’ente comunale e/o provinciale da una Regione ad un’altra. Una variazione, quindi, che non va ad incidere sul territorio dei Comuni e delle Province, che rimane inalterato, ma va a coinvolgere l’appartenenza dell’ente comunale e/o provinciale ad una nuova realtà regionale.

Ora, l’analisi dei lavori preparatori dell’art. 132 della Carta Costituzionale, con particolare (ma non esclusivo) riferimento al suo 2° comma che qui rileva, diviene utile al fine di ricostruirne la genesi e di predisporre uno strumento interpretativo funzionale alla comprensione del significato della disposizione normativa sia sotto il profilo politico-istituzionale sia sotto il profilo tecnico-giuridico. Tutto questo, anche alla luce della prima legge di attuazione della norma costituzionale presa in esame, la n. 117 del 3 agosto 2009 ([2]) relativa al passaggio dei Comuni della Val Marecchia dalla Regione Marche alla Regione Emilia-Romagna (Provincia di Rimini).

2. Le ragioni del Costituente sottese all’art. 132 della Costituzione

L’origine e la ratio dell’art. 132 Cost. vanno ricercate nella scelta, operata dall’Assemblea Costituente, a favore dell’istituzione dell’ente Regione ([3]) con il quale si voleva ridare vigore all’intero sistema del governo locale (incentrato, fino a quel momento, su due livelli, quello comunale e quello provinciale) per sovvenire a tutte quelle esigenze che Comuni e Province, da un lato, e lo Stato, dall’altro, non erano in grado di soddisfare anche per ragioni di dimensioni territoriali ([4]).

Il carattere “politico” dell’articolo in esame (unitamente alla XI disp. trans. Cost.), consistente nel rendere accettabile la ripartizione “storico-statistica” ([5]) delle Regioni accolta nell’ art. 131 della Costituzione ([6]), si coglie nel suo pieno significato se si prende in esame l’intentio originaria del legislatore costituente che era quella di porre una disciplina restrittiva nei confronti di istanze localistiche atte ad incidere sulla ripartizione “storica” del territorio regionale ([7]) per il pericolo che il meccanismo di variazione si spingesse fino al punto di compromettere l’unità politica dello Stato. Scopo reale della norma, dunque, era l’accettazione ed il consolidamento della ripartizione storica delle Regioni che, opportunamente e diplomaticamente, non veniva fatta passare come un quid di assoluto, stante l’idoneità tecnica dell’art. 132 a possibili e future correzioni territoriali ([8]).

A conferma di questa intenzione del legislatore, si possono esaminare tre dati. Il primo, ricollegabile direttamente alla lettera dell’art. 132, concerneva (e concerne) la avocazione allo Stato della decisione ultima ([9]) circa le future modificazioni sia pure in modo non autoritativo ([10]), il secondo, collegato alle complesse modalità insite nei procedimenti previsti dall’art. 132 Cost. le quali rendevano (e rendono) estremamente arduo il perseguimento di un disegno generale di riaggregazione territoriale delle Regioni ([11]), infine, il terzo, relativo a quella concezione liberale delle autonomie regionali che assegnava alle stesse un ruolo frenante all’interno del sistema costituzionale volto cioè a soddisfare la preoccupazione delle forze politiche a garantirsi l’una nei confronti dell’altra ([12]), prescindendo da qualunque riferimento di tipo “locale”.

Quest’ultimo aspetto testimonia come, almeno in una prima fase dei lavori della Commissione dei 75, non vi era alcuna preoccupazione di riconoscere, in capo alle popolazioni interessate, iniziative finalizzate ad una modifica delle circoscrizioni territoriali delle Regioni dal momento che la discussione sui contenuti da assegnare all’autonomia regionale e sulla delimitazione territoriale, si poneva quale problema della nuova organizzazione dello Stato ([13]) o meglio della possibilità di dare vita al nuovo ente e se istituirlo in forma generalizzata o meno ([14]).

Del resto, la previsione di elementi di natura funzionale tali da giustificare un ricorso ai meccanismi modificatori di cui all’art. 132 Cost., veniva disegnata in senso negativo cioè senza una previa individuazione delle ragioni storiche, etniche, linguistiche, culturali, economiche e sociali ([15]) che potevano consentire l’azionabilità dell’iter di variazione. Non si può, dunque, non concordare con quella parte della dottrina secondo la quale l’istituzione delle Regioni, almeno quelle a Statuto ordinario, non era mai stata giustificata in termini di “scienza culturale”, con riferimento a quelle peculiarità di ordine etnico, linguistico e storico in grado di distinguerle e differenziarle le une dalle altre.

La riforma regionale, infatti, ha sempre avuto motivazioni essenzialmente politiche, “prospettandosi, di volta in volta, come lo strumento necessario per superare il retaggio del centralismo liberale e dell’autoritarismo del fascismo ovvero come il medium irrinunciabile della politica di programmazione economica” ([16]).

Solo nell’ultimo quindicennio, la crescita delle Leghe, e della Lega Nord in modo particolare, e le sempre più pressanti richieste di riforma in senso federalistico dello Stato, hanno condotto in primo piano il discorso sulle peculiarità distintive delle singole Regioni, riscoprendo quella “dimensione vitale” dell’ente regionale di cui si dirà a breve a commento della relazione dell’On. Gaspare Ambrosini. Questa riscoperta degli ultimi anni ha consentito un nuovo sguardo sull’art. 132 della Costituzione, visto non più come norma-frenante ma, viceversa, quale norma-garanzia ([17]).

Una garanzia che, oggi, non ha ad oggetto il nesso ente-territorio ma quello cittadino-territorio. Non sono, cioè, le Regioni a vedersi riconosciuta la garanzia della propria identità territoriale (come avviene, di regola, negli ordinamenti federali ([18])) ma sono le popolazioni territorialmente situate, le singole comunità locali, a godere di un diritto all’autoidentificazione territoriale ([19]), corrispondente alle più svariate esigenze territorialmente circoscritte nell’ambito dell’ordinamento regionale della Repubblica ([20]).

Lo Stato, alla luce di questa nuova interpretazione, sembrerebbe spogliarsi, de facto, della facoltà (di cui, comunque, rimane titolare) di incidere, in maniera unilaterale, sull’attuale delimitazione del territorio delle Regioni in ossequio alla valorizzazione della tradizione storico – linguistico - culturale ([21]).

3. I lavori della Seconda Sottocommissione

Passando, ora, all’analisi dettagliata dell’iter formativo dell’art. 132 Cost., con particolare riferimento al suo 2° comma, é necessario prendere le mosse dai lavori della Seconda Sottocommissione che, “quale articolazione della Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 75), era stata incaricata di trattare l’ordinamento costituzionale della Repubblica” ([22]).

Le linee essenziali del procedimento di variazione territoriale delle Regioni, emergevano già dalla prima relazione dell’ On. Ambrosini, introduttiva della discussione sulle autonomie locali.

Dopo aver ribadito la ripartizione storico-tradizionale delle Regioni, Ambrosini sottolineava la necessità di “non seguire meccanicamente il criterio storico ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazioni di particolari interessi” affinché l’ente Regione si costituisse in modo da essere “vitale” ([23]). Questi cambiamenti, proseguiva l’Ambrosini, dovevano essere decisi “dal potere centrale sentita la Regione o a richiesta della Regione”. L’ambiguità e la genericità dei termini utilizzati all’interno della relazione, lasciavano aperte alcune non trascurabili problematiche. Da un lato, non si capiva se il procedimento fosse da applicare unicamente alle modificazioni del territorio regionale o anche all’istituzione delle Regioni, dall’altro, non si dava modo di apprezzare se l’iniziativa o il parere, con i quali l’ente Regione era chiamato ad attivare il procedimento modificatorio, richiedesse un’espressa deliberazione da parte dell’organo rappresentativo (il Consiglio Regionale) o un pronunciamento del corpo elettorale ([24]). Lo stesso concetto di “vitalità”, presupposto per ogni ipotesi di fusione e/o cambiamento, riceveva una definizione non univoca.

Il rapporto di strumentalità, di cui si faceva cenno sempre in questo primo intervento dell’Ambrosini, tra dimensione territoriale ed efficienza dei pubblici servizi ([25]), non sembrava esaustivo dal momento che circoscriveva ogni possibile mutamento al modo di gestione dei servizi pubblici. In definitiva, si assisteva alla necessità di ancorare al criterio storico la ripartizione regionale senza attribuire un ruolo preciso e specifico alla volontà delle popolazioni interessate nella identificazione del territorio, sulla base di una presunta incontrovertibilità della “storicità della suddivisione” del territorio regionale ([26]). Un modus procedendi che non rimaneva, comunque, esente da critiche, finalizzate a mettere in rilievo la superficialità con la quale veniva decisa l’articolazione territoriale delle Regioni ([27]).

Dopo l’approvazione dell’ordine del giorno presentato dall’On. Attilio Piccioni, nella seduta del 1 agosto 1946, che demandava al Comitato per le autonomie locali la formulazione di un progetto di ordinamento regionale, in data 13 novembre 1946 l’On. Ambrosini, Presidente e relatore del Comitato, illustrava quanto era stato elaborato, precisando che ci si era attenuti “al criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia” nonostante la presenza di istanze volte ad ottenere “la costituzione di altre Regioni, oltre le storiche”, delle quali veniva riconosciuta la serietà ([28]). Si voleva, in altri termini, tenere separate le Regioni delimitate secondo il criterio del riparto geografico dalle altre cui mancavano gli elementi storico-geografici atti ad identificarle ([29]).

Delle prime, si proponeva l’istituzione attraverso la disposizione normativa di cui all’art. 22 del progetto redatto dal Comitato ([30]); per le seconde, si ribadiva la necessità di accertare l’esistenza dei presupposti dell’autosufficienza economica ([31]) e della volontà delle popolazioni interessate ([32]) oppure, con la norma del successivo art. 23 del progetto ([33]), le stesse popolazioni interessate potevano chiedere, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli Comunali, il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra o la costituzione di una nuova Regione (in questo secondo caso, i Consigli Comunali dovevano rappresentare una popolazione di almeno 500.000 abitanti).

Nonostante le difficoltà di utilizzo, per l’istituzione delle “nuove” Regioni, dei due criteri sopra menzionati, si perveniva ad una riformulazione dell’art. 22 del progetto ([34]) nel quale scompariva il riferimento alla costituzione delle Regioni secondo la tradizionale ripartizione geografica e se ne aggiungevano di nuove quali il Friuli, il Molise, il Salento ed il frazionamento dell’Emilia in Emilia Appenninica (in seguito denominata Emilia lunense) ed Emilia e Romagna. Nel proseguo della relazione-illustrazione del lavoro del Comitato e con particolare riferimento ai procedimenti di variazioni territoriali di cui all’art. 23, l’On. Ambrosini riduceva ulteriormente la portata dell’intervento popolare, assicurando che il loro peso sarebbe stato bilanciato dal parere delle Assemblee regionali interessate e, soprattutto, dal fatto che la decisione ultima sarebbe avvenuta con legge statale. C’era la preoccupazione, infatti, bene evidenziata da Costantino Mortati, che la formazione delle Regioni e le possibili modificazioni territoriali delle stesse, in base alla volontà delle popolazioni interessate, potesse essere ispirata “soltanto a sentimenti di campanilismo” ([35]).

Tre i dati emergenti dalla illustrazione dell’art. 23 del progetto. Il primo, si riferiva al fatto stesso della formulazione dell’ipotesi modificatoria la quale poteva operare solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione e non, come sembrava dalla prima relazione dell’On. Ambrosini, anche in fase di istituzione delle Regioni ([36]). Il secondo, sulla non chiara natura della legge statale necessaria alla variazione territoriale ([37]) ed, infine, il terzo, relativo alla mancata contemplazione, all’interno del disposto preso in esame, della fusione di Regioni già esistenti, inserita solo in una fase successiva da parte della Seconda Sottocommissione ([38]). Questa omissione, ha rilevato la dottrina, rappresentava “il segno lasciato nella struttura normativa dell’art. 23 al contenimento delle richieste di costituzione di nuove Regioni per frazionamento dalle Regioni storiche” e lo “scarso peso attribuito nel dibattito regionalistico ai motivi funzionali che sono presupposti e soddisfatti dalla fusione” ([39]).

4. Il dibattito in Adunanza Plenaria

Il testo del progetto predisposto dal Comitato per le autonomie locali, dopo essere stato presentato alla Seconda Sottocommissione, veniva emendato dallo stesso, confluendo in un nuovo articolato presentato alla Commissione dei 75 riunita in Adunanza Plenaria.

Nel corso della seduta antimeridiana del 1 febbraio 1947, veniva discusso il nuovo art. 18 (che riproponeva il precedente art. 22) ed il nuovo art. 20 (anch’esso risultante dalla rinumerazione dell’art. 23). La discussione ed approvazione da parte dell’Adunanza Plenaria, segnava “un sensibile arretramento non solo rispetto alle deliberazioni della Seconda Sottocommissione ma anche alla discussione generale sul progetto” ([40]) dal momento che si accentuava la “curvatura antiregionalistica” rispetto ai lavori condotti fino a quel momento. Con l’emendamento dell’On. Ruggero Grieco, infatti, unitamente alla contestazione delle nuove Regioni, si riproponeva il criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia, scomparso dalla formulazione definitiva dell’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie, ridimensionando ulteriormente il principio della volontà popolare in base al quale identificare i territori “regionalizzabili”, anche in attesa dell’esito delle consultazioni locali che, a tale scopo, erano state avviate ([41]).

Per questo motivo, la Commissione dei 75, con l’ordine del giorno presentato dall’On. Aldo Moro ed approvato all’unanimità, sospendeva ogni decisione sull’istituzione delle Regioni “nuove”, affidandone la definitiva scelta all’Assemblea Costituente ([42]).

E’, invece, all’art. 20 che disciplinava i procedimenti per la modifica del territorio delle Regioni, che si riscontravano le novità maggiori e più significative: sarebbe stato possibile, con legge costituzionale, sentiti i Consigli Regionali interessati, consentire la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni, con un minimo di 500.000 abitanti, qualora ne avessero fatto richiesta tanti Consigli Comunali da rappresentare un terzo della popolazione e con l’approvazione popolare tramite referendum. Rispetto alla formulazione di cui all’art. 23 del progetto predisposto dal Comitato per le autonomie locali, l’art. 20 presentava tre importanti innovazioni.

La prima, relativa ai 500.000 abitanti per la creazione di nuove Regioni che, da numero sul quale contare la frazione dei legittimati alla richiesta, diveniva il numero minimo di abitanti che la nuova realtà regionale doveva possedere per essere istituita ([43]).

La seconda, l’intervento diretto della volontà popolare attraverso lo strumento referendario del quale veniva dibattuta la natura ([44]).

La terza ed ultima, relativa esclusivamente al distacco-aggregazione dei Comuni da una Regione ad un’altra, la soppressione della legge costituzionale con possibilità di utilizzo della legge ordinaria dello Stato per la deliberazione finale da parte del Parlamento, pur confermando il parere obbligatorio ma non vincolante dei Consigli Regionali a tutela e protezione delle popolazioni contro interessate o indirettamente interessate ([45]).

5. L’ultima fase: l’approvazione finale da parte dell’Assemblea Costituente

L’ultima fase dei lavori preparatori, era costituita dalla discussione in Assemblea Costituente degli artt. 123 e 125 del progetto di Costituzione predisposto dalla Commissione dei 75 (ma, in realtà, dal Comitato di redazione) i quali, rispettivamente, istituivano le Regioni e ne prevedevano e disciplinavano le variazioni territoriali ([46]). Si trattava delle formulazioni normative più prossime degli artt. 131-132 Cost. e della XI disposizione transitoria e finale e rappresentavano il materiale preparatorio “a partire dal quale andava principalmente ricostruito il significato normativo “attuale” delle norme costituzionali” ([47]).

Questa ultima fase, si configurava come particolarmente delicata poiché tornava in auge la questione regionale e si contrapponevano le posizioni del regionalismo moderato e dell’antiregionalismo ([48]). Il dibattito sulla norma di cui all’art. 123 del progetto ([49]), sulla enumerazione delle singole Regioni da istituire, avrebbe dovuto aver luogo nella seduta del 22 luglio 1947 ma, su proposta di alcuni deputati, veniva rinviata a quella del 29 e 30 ottobre dello stesso anno.

Il disposto contenuto nell’art. 123, nella versione che compariva nei verbali della seduta del 22 luglio, riproduceva la norma approvata dalla Seconda Sottocommissione e dalla Commissione per la Costituzione, salvo che per l’inserimento, dopo l’elencazione delle Regioni ([50]), di un comma ai sensi del quale “i confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica”.

Rispetto a questo primo testo, quello presentato per la discussione del 29 ottobre 1947 ed elaborato dal c.d. Comitato dei 18 ([51]), risultava piuttosto diverso. In primo luogo, escludeva dall’elenco le Regioni speciali, oggetto di uno specifico disposto, l’art. 108; in secondo luogo, e forse era questo il dato più rilevante, esso non recepiva il “frutto più autentico del dibattito svoltosi nella Seconda Sottocommissione: le Regioni nuove” ([52]). Decisivo, infatti, per la formulazione finale ([53]), fu l’approvazione dell’ordine del giorno dell’On. Ferdinando Targetti (che fissava in 19 il numero delle Regioni), con cui si invitava a costituire le Regioni storico-tradizionali “di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche” ([54]).

Il principio storico-statistico, pur con evidente debolezza scientifica, risultava vincente in quanto consentiva di riconoscere l’autonomia regionale a comunità territoriali già radicate e di prestare meno il fianco alle contestazioni ([55]) benché, una maggiore attenzione alle popolazioni interessate, avrebbe comportato una più attenta valorizzazione del sostrato culturale ed antropologico delle costituende Regioni, scongiurando, in questo modo, il rischio di costituire aggregazioni meramente artificiali.

Viceversa, la delimitazione del territorio regionale in base al criterio storico-statistico, comportava una identificazione in via autoritativa delle realtà regionali mediante un atto di volontà scaturente dal potere politico di livello centrale ([56]).

Se, nell’art. 123 del progetto di Costituzione, era assente qualunque riferimento al ruolo popolare nella determinazione della dimensione del territorio delle Regioni con esclusione di ogni concreta incidenza per una correzione “attuale”, anche in senso storico “del criterio storico adottato” ([57]), nell’art. 125, inerente le ipotesi di variazione, attraverso l’attivazione dei procedimenti previsti, alle popolazioni interessate veniva riconosciuta la capacità di incidere sull’ambito territoriale regionale sia su “base storica” sia su “base funzionale” ([58]). Il disposto normativo dell’art. 125 del progetto ([59]), recitava testualmente: “Si può, con legge costituzionale, sentiti i Consigli Regionali interessati, disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di 500.000 abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli Comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse (1° comma). Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i Consigli Regionali, consentire che Comuni, i quali ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra” (2° comma).

Tra le proposte di modificazione di questa disposizione normativa, veniva innanzitutto in considerazione un emendamento soppressivo dell’intero 1° comma, la cui finalità era quella di evitare un frazionamento eccessivo del territorio che avrebbe potuto essere determinato dall’operare del requisito minimo di 500.000 abitanti che, liminarmente, avrebbe potuto condurre, sulla base di una pronuncia referendaria favorevole di 251.000 elettori (rectius 250.001) ([60]), alla costituzione di un numero di Regioni pari a quello delle Province con i contrasti che questo avrebbe potuto ingenerare tra le diverse popolazioni di una stessa Regione e con il grave pregiudizio che la disintegrazione delle Regioni già istituite avrebbe potuto arrecare all’autonomia del nuovo ente. L’interesse di questo emendamento, respinto poi dall’Assemblea Costituente, stava nella erronea identificazione del numero degli abitanti con il corpo elettorale interessato.

Si poneva, per la prima volta, il problema del significato da assegnare all’espressione “popolazioni interessate” all’interno del procedimento variatorio previsto dalla norma. Questa espressione, ha evidenziato la dottrina, nell’ipotesi di “creazione” poteva assumere “due diverse qualificazioni a seconda che le popolazioni interessate fossero riguardate come base sul quale computare la frazione di un terzo che i Consigli Comunali dovevano rappresentare per richiedere la variazione, nel qual caso erano sinonime di abitanti, oppure fossero considerate come base sulla quale calcolare la maggioranza referendaria ed in questo caso erano sinonime di corpo elettorale” ([61]). L’unica novità che, alla fine, veniva introdotta dall’Assemblea riguardava la popolazione minima necessaria all’istituzione di una nuova Regione.

Tra le varie proposte di aumento e diminuzione ([62]), la sola ad essere motivata era quella di Costantino Mortati secondo il quale un milione e mezzo di abitanti poteva rappresentare la consistenza demografica minima affinché la Regione potesse risolvere “i problemi di equilibrio interno di forze ed interessi sociali” con contestuale assunzione del necessario rilievo politico ([63]).

L’Assemblea sceglieva una soluzione intermedia, statuendo che il minimo venisse elevato ad un milione di abitanti ([64]). In merito, invece, al 2° comma dell’art. 125 del progetto, concernente l’ipotesi di distacco-aggregazione, l’attenzione dei costituenti si concentrava sulla natura della legge di variazione territoriale, confermando la scelta della legge ordinaria dello Stato ([65]).

Una scelta che destava una certa “meraviglia”, risultando meno giustificata di quanto non fosse nell’art. 20 del progetto emendato dall’Adunanza Plenaria.

Una volta soppresso dall’Assemblea Costituente l’ultimo comma dell’art. 123 del progetto, secondo il quale “I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con leggi della Repubblica, era venuto meno il motivo del conflitto cui l’Adunanza Plenaria aveva cercato di ovviare fra questa norma, dettata dalla Sottocommissione al fine di evitare di ricorrere allo strumento della legge costituzionale per le piccole aggregazioni, e l’altra, approvata anch’essa dalla Seconda Sottocommissione, secondo la quale tutte le aggregazioni avrebbero dovuto essere decise con legge costituzionale, a prescindere dalla loro consistenza territoriale ([66]). In sede di coordinamento finale, il Comitato di redazione, oltre a correzioni formali di scarso rilievo, da un lato, inseriva nel testo dell’art. 123 (che divenne l’art. 131 della Costituzione) la formula “Sono costituite le seguenti Regioni” con l’elencazione delle cinque Regioni speciali e la nuova denominazione di “Emilia-Romagna”, dall’altro, assegnava anche alla Provincia l’iniziativa del procedimento di distacco-aggregazione di cui al 2° comma dell’art. 125 (che divenne l’art. 132 della Costituzione) ([67]).

Nel testo definitivo della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, l’art. 131 così recitava e recita: “Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia ([68]); Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzo; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna”; mentre, l’art. 132, nel teso antecedente la riforma del Titolo V avvenuta nel 2001, prevedeva: “Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando ne facciano richiesta tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse (1° comma).

Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra (2° comma).

Data la assenza di informazioni geografiche, linguistiche, economiche e finanziarie che avrebbero dovuto orientare l’istituzione delle diverse Regioni, l’On. Costantino Mortati, nella seduta pomeridiana del 4 dicembre 1947 ([69]), proponeva, con un emendamento aggiuntivo all’art. 125 del progetto, di dare all’elencazione delle Regioni di cui all’art. 123 un carattere di “provvisorietà”, consentendo che, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, si potessero formare altre Regioni anche in deroga alle condizioni di cui all’art. 125 ([70]). Mortati precisava, tuttavia, la necessità del ricorso alla legge costituzionale per tutte le nuove revisioni delle circoscrizioni regionali.

La norma, dunque, nel pensiero del suo estensore, doveva considerarsi aperta “alla correzione in senso storico ma anche in senso funzionale” della ripartizione territoriale adottata dall’Assemblea Costituente sia per corrispondere alle richieste di gruppi di popolazioni sia per soddisfare interessi generali dello Stato ([71]).

Lascia sorpresi, comunque, che una proposta di questo tipo fosse formulata proprio da colui il quale aveva cercato una maggiore ponderazione nella individuazione dell’ambito territoriale regionale per paura di una incontrollata proliferazione delle Regioni in considerazioni di ragioni e motivi di ordine campanilistico ([72]). In sede di formulazione definitiva, si procedeva non all’aggiunta di un nuovo comma all’art. 125 del progetto, ma alla approvazione di una disposizione ad hoc costituente la XI disposizione transitoria della Costituzione ([73]).

Il Comitato di redazione, in quella circostanza, accoglieva le richieste di istituzioni di Regioni non prese in considerazione dall’Assemblea Costituente, redigendo un testo che escludeva dal regime transitorio sia l’ipotesi di fusione di Regione sia quella di distacco-aggregazione ([74]), concentrandosi unicamente sull’ipotesi di creazione con la previsione, non contemplata dalla proposta originaria di Mortati, di interpellare le popolazioni interessate.

Questa esclusione era confermata anche dalla lettera della norma costituzionale presa in esame la quale, riferendosi alle “altre Regioni”, esprimeva “un’ aggiunta numerica” ([75]) assai meglio del termine “nuove” di cui all’art. 132, 1° comma, Cost. L’XI disposizione transitoria è stata ascritta alla categoria delle c.d. terze norme ([76]) in quanto, più che una temporanea sospensione della norma principale, si affiancava ad essa con la conseguenza di risultare entrambe potenzialmente idonee a regolare la medesima fattispecie. Scaduto il termine inizialmente fissato in cinque anni, lo stesso, con legge costituzionale n. 1/1958, veniva prorogato al 31 dicembre 1963.

Questa operazione permetteva alla legge costituzionale n. 3/1963 di aggiungere il Molise, che non possedeva il requisito della popolazione minima di un milione di abitanti richiesto dall’art. 132, 1° comma, Cost., alle altre quattordici Regioni ordinarie, procedendo in questo modo alla scissione dall’Abruzzo. Quanto all’obbligo di consultazione delle popolazioni interessate, esso fu singolarmente inteso, sulla base della norma di cui all’art. 73 della legge ordinaria dello Stato n. 62/1953 (c.d. legge Scelba), non in termini di indizione di un referendum ma, viceversa, nel senso di sentire i Consigli Comunali o i Commissari prefettizi della Regione o delle Regioni di cui facevano parte i Comuni che intendevano costituirsi nella nuova Regione ([77]).

Destava, infine, ulteriori perplessità il fatto che questa legge veniva approvata in attuazione della disposizione transitoria dopo la scadenza del termine quinquennale e prima della riapertura della deroga disposta in seguito con legge costituzionale. In proposito, alcuni autori ritenevano che essa avesse permesso il mantenimento del termine provvisorio inizialmente previsto ma che, trattandosi di una deroga ad un procedimento per la fusione o la creazione di nuove Regioni previsto dalla Costituzione, non poteva che essere determinato esclusivamente con la fonte costituzionale ([78]).



([1]) Recitava l’art. 74 dello Statuto Albertino: “Le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei Comuni e delle Province sono regolati dalla legge”.

([2]) In G. U. n. 188 del 14 agosto 2009.

([3]) Si veda, per una sistematica ricostruzione dell’origine della Regione in Italia, E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Milano, Giuffré, 1967; O. BUCCI, Considerazioni storico-introduttive, in P. DE CAMELIS (a cura di) L’autonomia regionale, Roma, Edizioni Kappa, 1989, pp. 3-20. La formula organizzativa delle Regioni italiane trovava un parziale precedente nella Costituzione spagnola del 1931 specialmente per quanto riguardava il riparto delle competenze fino alla modifica del Titolo V con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3. Infatti, la titolarità, in capo alle realtà regionali, di competenze enumerate e la presenza di diversi gradi di autonomia, sono aspetti di matrice iberica. In merito, A. D’ATENA, (voce) Regione, in Enc. Dir., Vol. XXIX, Milano, Giuffré, 1988, pp. 317-318 e G. AMBROSINI, Un tipo intermedio di Stato fra l’unitario ed il federale caratterizzato dall’autonomia regionale, in Riv. Dir. Pubbl., 1933, p. 93 e ss.

([4]) Cfr., S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO – L. VANDELLI, Le autonomie territoriali. Ordinamento delle Regioni e degli enti locali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 15 e ss.

([5]) Riguardo la ripartizione statistica delle Regioni italiane, si veda l’opera fondamentale di P. MAESTRI, Statistica del Regno d’Italia – Popolazione - Movimento dello stato civile nell’anno 1863, Firenze, 1864. L’autore, aveva delineato la circoscrizione territoriale delle Regioni “sulla base dei tre elementi caratteristici di esse: quello naturale, dato dalla configurazione dei luoghi, quello delle tradizioni locali, quello degli interessi economici. Ne uscivano 14 Compartimenti del Regno (dei quali il Maestri indicava anche le Province): Piemonte, Emilia, Umbria, Marche, Toscana, Abruzzo (di cui il Molise costituiva una Provincia), Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna. L’Assemblea Costituente, del tutto impreparata a considerare il problema regionale, finì con l’affidarsi all’annuario statistico in cui i dati raccolti erano ordinati secondo la ripartizione regionale sopra descritta e riportati poi di peso nell’art. 131 della Costituzione: così, C. MORTATI, Istituzioni di Diritto Pubblico, Vol. II, Padova, Cedam, 1976, pp. 891-892. Sul punto, anche V. GAMBI, L’equivoco fra compartimenti statistici e Regioni costituzionali, Faenza, Editrice Fratelli Lega, 1963.

([6]) Sulla funzione “politica” dell’art. 132 della Costituzione, M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., in G. BRANCA – A. PIZZORUSSO (a cura di) Commentario della Costituzione, Bologna, Zannichelli, 1990, p. 124-125.

([7]) Sul punto, A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, in Diritto e Società, n. 3/1995, pp. 315-316.

([8]) Sul pericolo, molto sentito all’interno dell’Assemblea Costituente, che l’autonomia concessa agli enti pubblici territoriali e le loro istanze di autodeterminazione potessero compromettere il carattere unitario della Repubblica di cui all’art. 5 Cost., cfr., G. MIELE, La Regione, in P. CALAMANDREI – A. LEVI, (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Vol. II, Firenze, Barbera Editore, 1950, pp. 231-232. Inoltre, si prenda in esame anche l’opera monografica di C. CALVIERI, Stato regionale in trasformazione: il modello autonomistico italiano, Torino, Giappichelli, 2002, p. 25.

([9]) La decisione viene assunta o con lo strumento della legge costituzionale nel caso di creazione di nuove Regioni o fusione di Regioni già esistenti o della legge della Repubblica nell’ipotesi di distacco-aggregazione di Comuni e Province.

([10]) Cfr., sul carattere non autoritativo dei procedimenti di cui all’art. 132 Cost., A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., pp. 317-318. L’autore ritiene (p. 319) che il parere delle popolazioni interessate, esprimibile attraverso lo strumento referendario, per quanto non vincolante, costituisca presupposto necessario in quanto espressione di quella garanzia cittadino-territorio.

([11]) Così, si esprime A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 314.

([12]) Cfr., V. CRISAFULLI, Vicende della “Questione regionale”, in Le Regioni, n. 4/1982, p. 497 e ss.

([13]) Cfr., O. RANELLETTI, Note sul progetto di Costituzione presentato dalla Commissione dei 75 all’Assemblea Costituente, in Foro. It., IV, 1947, p. 86.

([14]) Così, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 15 e ss.

([15]) Questo sarebbe indice, secondo Antonio Ferrara, di come l’autonomia regionale nel nostro ordinamento, con l’esclusione di alcune collettività territoriali delle Regioni a Statuto speciale, prescinda, ancora oggi, sia da ragioni storiche sia da motivazioni etniche, religiose, linguistiche: cfr., A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 316. ì

([16]) Cfr., S. BARTOLE, Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica: tentativi più o meno convinti di trovare una legittimazione etnica, in S. BARTOLE (a cura di) Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, Milano, Giuffré, 1999, pp. 2-3.

([17]) Così, A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 317.

([18]) Sulle regole del riordino territoriale degli ordinamenti federali, A. LA PERGOLA, Residui “contrattualistici” e struttura federale nell’ordinamento degli Stati Uniti, Milano, Giuffré, 1969, p. 329, nt. 42-bis.

([19]) Di autoidentificazione territoriale, parla A. D’ATENA, La vicenda del regionalismo italiano ed i problemi di transizione al federalismo, in A. D’ATENA (a cura di) Federalismo e Regionalismo in Europa, Milano, Giuffré, 1994, p. 224 e ss.

([20]) Ancora, si veda A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., pp. 320-321.

([21]) Le ripartizioni statistiche, sebbene non fossero nate per diventare Regioni amministrative e nonostante alcune innegabili questioni di confine derivabili dalla artificiosa delimitazione delle Province degli Stati preunitari (che vennero prese a base del disegno dei Compartimenti del 1864), rispecchiavano, anche se in modo approssimativo, identità storico-culturali risalenti a quella che era già la partizione regionale augustea del 41 a.c. al momento della prima unificazione del paese, la quale, a sua volta, teneva conto di precedenti antichissimi stanziamenti delle genti autoctone: cfr., G. PETTINATO, L’Italia è una, parola d’archeologo, in Il Sole 24 Ore, domenica 13 marzo 1994, p. 25.

([22]) Cfr., L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., in A. CELOTTO – R. BIFULCO – M. OLIVETTI (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2532.

([23]) La prima relazione dell’On. Gaspare Ambrosini, è stata svolta nella seduta del 27 luglio 1946. Cfr., per il testo completo, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Vol. VII, a cura del Segretariato Generale della Camera dei Deputati, Roma, 1976, p. 822 e ss.

([24]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., p. 126.

([25]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 12-13.

([26]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 14.

([27]) Sul punto, ne parla M. BERTOLISSI, Art. 132 Cost., in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di) Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, p. 769. Interessante la relazione dell’on. Costantino Mortati del 16 dicembre 1946 che parlò della necessità di “indispensabili elementi di giudizio” per una seria articolazione del territorio delle Regioni. Cfr., per il testo integrale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Vol. VII, op. cit., p. 1550. Sulla stessa linea, la relazione dell’on. Umberto Elia Terracini del 16 dicembre 1946 il quale notò come “né la Sottocommissione, né la Commissione, né l’Assemblea Costituente potranno (ed in realtà non poterono) compiere quel lavoro di preparazione, indagine, studio, sintesi, che sarebbe indispensabile per poter dare un giudizio con cognizione di causa. Per il testo, cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1545.

([28]) Riguardo gli estratti della seconda relazione dell’On. Ambrosini, cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1303.

([29]) Così, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 24-25.

([30]) Art. 22 del Progetto del Comitato per le autonomie locali nella sua formulazione originaria così recitava: “Le Regioni sono costituite secondo la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. Esse sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, ed in più la Valle d’Aosta”.

([31]) Sul punto, era controversa la scelta dei parametri da utilizzare per identificare l’autosufficienza e, quindi, la possibilità di utilizzo di questo criterio: da una parte, una concezione “statica” fondata sulla superiorità del carico tributario regionale rispetto alla media nazionale (cfr., l’intervento dell’On. Emilio Lussu, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1549), dall’altra, una concezione “dinamica” basata sulla capacità della Regione di far fronte ai compiti derivante gli dalla concessione dell’autonomia (cfr., la relazione dell’On. Ezio Vanoni, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., pp. 1550-1551).

([32]) Questo criterio veniva contrastato, in chiave antiregionalistica, dall’argomento della tutela delle popolazioni contro interessate. In merito, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 39.

([33]) Art. 23 del Progetto del Comitato per le autonomie locali: “E’ consentito alle popolazioni interessate, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli Comunali, di chiedere il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra (1° comma). E’ consentita, inoltre, la richiesta di erezione di una nuova Regione, quando provenga dai Consigli Comunali rappresentanti una popolazione di almeno 500.000 abitanti (2° comma). Le modificazioni di cui ai primi due commi sono disposte con legge dello Stato, previo parere delle Assemblee regionali interessate (3° comma)”.

([34]) Il nuovo e definitivo testo dell’art. 22 del progetto così prevedeva: “Le Regioni sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia Appenninica,Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna e Valle d’Aosta”.

([35]) Per l’intervento dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1542.

([36]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 25.

([37]) In riferimento al 3° comma, lo stesso non individuava il tipo di atto legislativo necessario alla variazione morfologica, sebbene il dibattito fosse indirizzato, prevalentemente, a favore della legge costituzionale: cfr., a riguardo, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2534. Due erano le ragioni a sostegno di questa tesi: la prima, dell’On. Costantino Mortati, si ricollegava all’inserimento, all’interno della Costituzione, dell’elenco delle circoscrizioni territoriali delle Regioni le quali, a loro volta, potevano influire sulla composizione di certi organi dello Stato (cfr., per l’intervento dell’On. Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586); la seconda, dell’On. Ambrosini, insisteva sul fatto, non accolto dalla Sottocommissione, che il mutamento territoriale potesse venir deciso dallo Stato, prescindendo dalla richiesta delle popolazioni interessate (cfr., per l’intervento dell’On. Ambrosini, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586). Qualora, invece, proseguiva Ambrosini, la richiesta fosse provenuta dalle popolazioni interessate, non sarebbe stato necessario il ricorso alla legge costituzionale (cfr., sul punto, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1588).

([38]) Fu la richiesta dell’On. Bartolomeo Cannizzo ed un emendamento aggiuntivo dell’On. Giovanni Conti a prevederne la possibilità. Si veda, in merito, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586.

([39]) Sul punto, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 41-42.

([40]) In questa direzione, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 61.

([41]) L’art. 18 si limitava ad una mera riproposizione del testo dell’art. 22 nella sua versione definitiva.

([42]) Per l’emendamento dell’On. Ruggero Grieco ed il dibattito sul tema, si veda, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VI, op. cit., p. 280 e ss.

([43]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 66.

([44]) Cfr., L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2534.

([45]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 66. Quest’ultima, fu l’unica variazione ad essere stata introdotta dalla Adunanza Plenaria della Commissione dei 75.

([46]) Sullo “scavalcamento” operato dal Comitato nei confronti della Commissione, si veda V. FALZONE – P. GROSSI, (voce) Assemblea Costituente, in Enc. Giur., Vol. III, Milano, Giuffré, 1958, p. 374. Il Comitato, come ebbe a sostenere l’On. Codacci Pisanelli, “doveva limitarsi a coordinare e coordinare” non equivaleva a “modificare”: cfr., per il testo completo, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602.

([47]) Così, si esprime M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 70-71.

([48]) Sul punto, E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, op. cit., pp. 314-315. Secondo l’autore (pp. 314-315), il revirement della questione regionale in questa fase, con conseguente crisi di governo del maggio-giugno 1947, segnava la spartiacque tra due distinte fasi del dibattito in Assemblea Costituente: la prima, che andava dalla discussione preliminare sull’intero progetto di Costituzione alla discussione generale sul Titolo V, caratterizzata da un certo “regionalismo dei partiti”, la seconda, che andava dalla discussione generale all’approvazione del Titolo V in cui si assisteva, secondo Valerio Onida, ad un’inversione di ruoli tra chi aveva sostenuto l’introduzione di un sistema articolato di potere e chi aveva osteggiato l’introduzione di istituti di freno e di controllo. Su quest’ultimo aspetto, V. ONIDA, La Costituzione nella storia della Repubblica: 1945-1975, in Italia, Fascismo antifascismo, Resistenza rinnovamento, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 388-390.

([49]) Per una sintesi del dibattito sull’art. 123 del progetto di Costituzione, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, in S. BARTOLE (a cura di) Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, Milano, Giuffré, 1999, pp. 35-47.

([50]) Rispetto al testo dell’art. 18, la prima versione dell’art. 123 del progetto mutava denominazione ad alcune Regioni: l’Emilia Appenninica diventava Emilia lunense ed il Friuli diveniva Friuli e Venezia Giulia.

([51]) Il Comitato dei 18 rappresentava una sottoarticolazione della Commissione dei 75.

([52]) Cfr., in merito, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, op. cit., p. 35.

([53]) L’art. 123, nella sua formulazione definitiva, così statuiva: “Oltre alle Regioni indicate dall’art. 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria”. Scompariva del tutto, dall’ultima versione dell’art. 123, la Regione Emilia lunense, assorbita dalla Regione Emilia e Romagna, ed il Salento; il Molise veniva appaiato all’Abruzzo e la Lucania diventava Basilicata. Scompariva, infine, ogni riferimento al Friuli ed alla Venezia Giulia di cui, invece, alla prima formulazione dell’art. 123.

([54]) Per l’O.d.g. dell’On. Ferdinando Targetti, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602 e ss. A questo, si contrapponeva l’O.d.g. dell’On. Carmine De Martino caratterizzato da spinte antiregionalistiche che proponeva di rinviare alla legge il compito di determinare il numero delle Regioni, il loro nome, le rispettive delimitazioni territoriali ed i capoluoghi: cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602 e ss. L’O.d.g. dell’On. Carmine De Martino, risultando in contrasto con tutto il lavoro che La Costituente aveva svolto in ordine all’ordinamento regionale, venne respinto, aderendo così alla pregiudiziale presentata dall’On. Attilio Piccioni. In caso contrario, si paventava il rischio di vedere frustrato l’accordo sull’assetto decentrato dello Stato: in questa direzione, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, op. cit., p. 40.

([55]) Così si esprime, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2535.

([56]) Cfr., A. D’ATENA, Le autonomie sub-statali e le loro garanzie istituzionali, in Le Regioni dopo il Big Bang. Il viaggio continua, Milano, Giuffré, 2005, p. 93.

([57]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 92.

([58]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 92.

([59]) L’art. 125 riproduceva l’art. 20 del progetto, approvato con emendamenti dall’Adunanza Plenaria, il quale, a sua volta, rispecchiava l’art. 23 del progetto quale risultava dal testo originario e dai numerosi emendamenti introdotti dalla Seconda Sottocommissione.

([60]) Cfr., l’emendamento dell’On. Giovanni Persico in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., pp. 4382-4383. Doveva certamente essere attribuito ad un lapsus l’errore nel calcolo della maggioranza di 500.000, la quale evidentemente non è di 251.000 ma di 250.001.

([61]) Per il riferimento alla dottrina, cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., pp. 136-137.

([62]) Si vedano: l’emendamento dell’On. Emilio Lussu (400.000 abitanti) e l’emendamento Luigi Preti (2.000.000 abitanti), in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4384.

([63]) Cfr., per la proposta dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4384.

([64]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., p. 137.

([65]) L’idea di utilizzare la legge costituzionale anche per l’ipotesi del 2° comma dell’art. 125 del progetto, al fine di “rendere più difficile qualsiasi modificazione dell’ordinamento regionale”, era stata sostenuta con particolare forza dall’On. Umberto Nobile. Si veda, sul punto, la sua proposta di emendamento in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4385.

([66]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 97.

([67]) Così, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., pp. 2533-2534.

([68]) Il Friuli-Venezia Giulia era una Regione costituita solo di nome dall’Assemblea Costituente. La Regione è composta da due aree territoriali: il Friuli e la Venezia Giulia. La prima, era ignota alla ripartizione statistica del Maestri poiché apparteneva storicamente alla Regione del Veneto. Il Friuli, infatti, circoscriveva una zona formata dalla Provincia di Udine e dai territori limitrofi, e la Provincia di Udine apparteneva al “Veneto statistico”. Con Il D.P.R. 6 febbraio 1948 n. 30, si ripartiva il territorio delle Regioni in collegi uninominali a fini elettorali e sotto la Regione Veneto venivano ricomprese tutte le Province appartenenti al Veneto statistico con esclusione della Provincia di Udine. La seconda, invece, apparteneva alla Regione statistica Venezia Giulia e Zara che, al momento della redazione della carta Costituzionale, non era nella disponibilità dello Stato italiano a causa degli eventi internazionali che interessarono la Venezia Giulia al termine del secondo conflitto mondiale. Il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 aveva previsto la costituzione del c.d. Territorio libero di Trieste che, in realtà, non ha mai trovato attuazione. Sullo stesso, si veniva a costituire un regime di amministrazione militare con una suddivisione tra una zona A (comprendente la città di Trieste ed i suoi dintorni) affidata alle forze armate anglo-americane ed una zona B (comprendente la parte residua) affidate alle forze armate jugoslave. Constatata la impossibilità a rendere operante la clausola del Tratto di Pace relativa al Territorio libero di Trieste, l’Italia, La Jugoslavia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America siglavano a Londra il 5 ottobre 1954 un Memorandum d’Intesa in cui era previsto di assegnare la zona A all’Italia e la zona B alla Jugoslavia. Così, la porzione della Venezia Giulia assegnata all’Italia, andava a costituire, insieme al Friuli, la Regione Friuli-Venezia Giulia. Per un maggiore e più completo approfondimento, M. BERTOLISSI, voce Regione Friuli-Venezia Giulia, in Enc. Dir., Vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 2805 e ss. L’ordinamento italiano, tuttavia, non riestendeva con immediatezza la sua sovranità sulla zona A; tanto è vero che l’elettorato triestino, chiamato ad eleggere la Camera dei Deputati fin dalla legge ordinaria dello Stato 16 maggio 1956 n. 493, otteneva una propria rappresentanza nel Senato della Repubblica in virtù della legge costituzionale 31 gennaio 1963 n. 1 la quale risolveva definitivamente la questione di Trieste: a riguardo, L. PALADIN, Diritto Regionale, op. cit., p. 21.

([69]) Cfr., per l’intervento dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4389.

([70]) Cfr., in merito, A. IANNUZZI, Disp. XI Cost., in R. BIFULCO - A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2784. Nel suo testo originario, l’articolo aggiuntivo proposto dal Mortati così disponeva: “Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della presente Costituzione si potrà procedere con legge costituzionale, alla modificazione delle circoscrizioni regionali stabilite dall’art. 123, anche senza il concorso delle condizioni di cui all’art. 125”.

([71]) Su questo, si veda, F. BASSANINI, L’attuazione dell’ordinamento regionale tra centralismo e principi costituzionali, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 25 e ss.

([72]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 99-100.

([73]) L’ XI disposizione transitoria così stabilisce: “Fino a cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si possono, con leggi costituzionali, formare altre Regioni, a modificazione dell’elenco di cui all’art. 131, anche senza il ricorso alle condizioni richieste dal primo comma dell’articolo 132, fermo rimanendo tuttavia l’obbligo di sentire le popolazioni interessate”.

([74]) Il distacco-aggregazione è, con la fusione, una variazione territoriale che si muove nella logica di una ricomposizione razionale del territorio regionale, a differenza della creazione che può essere utilizzata soltanto a provocarne l’ulteriore frazionamento.

([75]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 104.

([76]) Così la definisce, G. UGO RESCIGNO, voce Disposizioni transitorie, in Enc. Dir., Vol. XIII, Milano, Giuffré, 1964, p. 231.

([77]) Cfr., A. IANNUZZI, Disp. XI Cost., op. cit., p. 2784.

([78]) Cfr., V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di referendum, in Riv. Amm., 1955, p. 469.

Sommario:

1. Introduzione

2. Le ragioni del Costituente sottese all’art. 132 della Costituzione

3. I lavori della Seconda Sottocommissione

4. Il dibattito in Adunanza Plenaria – 5. L’ultima fase: l’approvazione finale da parte dell’Assemblea Costituente

1. Introduzione

L’articolo sarà dedicato ad esaminare il dibattito in Assemblea Costituente sulle variazioni territoriali delle Regioni di cui all’art. 132 della Costituzione. Rispetto al sistema delineato nell’ordinamento pre-repubblicano, l’entrata in vigore della Carta Costituzionale ha segnato l’ingresso di un nuovo tipo di variazione. Infatti, mentre lo Statuto Albertino conosceva solo variazioni dei confini territoriali dei Comuni e delle Province ex art. 74 ([1]), la Costituzione, nell’art. 132, 2° comma, ha introdotto anche l’ipotesi del distacco-aggregazione dell’ente comunale e/o provinciale da una Regione ad un’altra. Una variazione, quindi, che non va ad incidere sul territorio dei Comuni e delle Province, che rimane inalterato, ma va a coinvolgere l’appartenenza dell’ente comunale e/o provinciale ad una nuova realtà regionale.

Ora, l’analisi dei lavori preparatori dell’art. 132 della Carta Costituzionale, con particolare (ma non esclusivo) riferimento al suo 2° comma che qui rileva, diviene utile al fine di ricostruirne la genesi e di predisporre uno strumento interpretativo funzionale alla comprensione del significato della disposizione normativa sia sotto il profilo politico-istituzionale sia sotto il profilo tecnico-giuridico. Tutto questo, anche alla luce della prima legge di attuazione della norma costituzionale presa in esame, la n. 117 del 3 agosto 2009 ([2]) relativa al passaggio dei Comuni della Val Marecchia dalla Regione Marche alla Regione Emilia-Romagna (Provincia di Rimini).

2. Le ragioni del Costituente sottese all’art. 132 della Costituzione

L’origine e la ratio dell’art. 132 Cost. vanno ricercate nella scelta, operata dall’Assemblea Costituente, a favore dell’istituzione dell’ente Regione ([3]) con il quale si voleva ridare vigore all’intero sistema del governo locale (incentrato, fino a quel momento, su due livelli, quello comunale e quello provinciale) per sovvenire a tutte quelle esigenze che Comuni e Province, da un lato, e lo Stato, dall’altro, non erano in grado di soddisfare anche per ragioni di dimensioni territoriali ([4]).

Il carattere “politico” dell’articolo in esame (unitamente alla XI disp. trans. Cost.), consistente nel rendere accettabile la ripartizione “storico-statistica” ([5]) delle Regioni accolta nell’ art. 131 della Costituzione ([6]), si coglie nel suo pieno significato se si prende in esame l’intentio originaria del legislatore costituente che era quella di porre una disciplina restrittiva nei confronti di istanze localistiche atte ad incidere sulla ripartizione “storica” del territorio regionale ([7]) per il pericolo che il meccanismo di variazione si spingesse fino al punto di compromettere l’unità politica dello Stato. Scopo reale della norma, dunque, era l’accettazione ed il consolidamento della ripartizione storica delle Regioni che, opportunamente e diplomaticamente, non veniva fatta passare come un quid di assoluto, stante l’idoneità tecnica dell’art. 132 a possibili e future correzioni territoriali ([8]).

A conferma di questa intenzione del legislatore, si possono esaminare tre dati. Il primo, ricollegabile direttamente alla lettera dell’art. 132, concerneva (e concerne) la avocazione allo Stato della decisione ultima ([9]) circa le future modificazioni sia pure in modo non autoritativo ([10]), il secondo, collegato alle complesse modalità insite nei procedimenti previsti dall’art. 132 Cost. le quali rendevano (e rendono) estremamente arduo il perseguimento di un disegno generale di riaggregazione territoriale delle Regioni ([11]), infine, il terzo, relativo a quella concezione liberale delle autonomie regionali che assegnava alle stesse un ruolo frenante all’interno del sistema costituzionale volto cioè a soddisfare la preoccupazione delle forze politiche a garantirsi l’una nei confronti dell’altra ([12]), prescindendo da qualunque riferimento di tipo “locale”.

Quest’ultimo aspetto testimonia come, almeno in una prima fase dei lavori della Commissione dei 75, non vi era alcuna preoccupazione di riconoscere, in capo alle popolazioni interessate, iniziative finalizzate ad una modifica delle circoscrizioni territoriali delle Regioni dal momento che la discussione sui contenuti da assegnare all’autonomia regionale e sulla delimitazione territoriale, si poneva quale problema della nuova organizzazione dello Stato ([13]) o meglio della possibilità di dare vita al nuovo ente e se istituirlo in forma generalizzata o meno ([14]).

Del resto, la previsione di elementi di natura funzionale tali da giustificare un ricorso ai meccanismi modificatori di cui all’art. 132 Cost., veniva disegnata in senso negativo cioè senza una previa individuazione delle ragioni storiche, etniche, linguistiche, culturali, economiche e sociali ([15]) che potevano consentire l’azionabilità dell’iter di variazione. Non si può, dunque, non concordare con quella parte della dottrina secondo la quale l’istituzione delle Regioni, almeno quelle a Statuto ordinario, non era mai stata giustificata in termini di “scienza culturale”, con riferimento a quelle peculiarità di ordine etnico, linguistico e storico in grado di distinguerle e differenziarle le une dalle altre.

La riforma regionale, infatti, ha sempre avuto motivazioni essenzialmente politiche, “prospettandosi, di volta in volta, come lo strumento necessario per superare il retaggio del centralismo liberale e dell’autoritarismo del fascismo ovvero come il medium irrinunciabile della politica di programmazione economica” ([16]).

Solo nell’ultimo quindicennio, la crescita delle Leghe, e della Lega Nord in modo particolare, e le sempre più pressanti richieste di riforma in senso federalistico dello Stato, hanno condotto in primo piano il discorso sulle peculiarità distintive delle singole Regioni, riscoprendo quella “dimensione vitale” dell’ente regionale di cui si dirà a breve a commento della relazione dell’On. Gaspare Ambrosini. Questa riscoperta degli ultimi anni ha consentito un nuovo sguardo sull’art. 132 della Costituzione, visto non più come norma-frenante ma, viceversa, quale norma-garanzia ([17]).

Una garanzia che, oggi, non ha ad oggetto il nesso ente-territorio ma quello cittadino-territorio. Non sono, cioè, le Regioni a vedersi riconosciuta la garanzia della propria identità territoriale (come avviene, di regola, negli ordinamenti federali ([18])) ma sono le popolazioni territorialmente situate, le singole comunità locali, a godere di un diritto all’autoidentificazione territoriale ([19]), corrispondente alle più svariate esigenze territorialmente circoscritte nell’ambito dell’ordinamento regionale della Repubblica ([20]).

Lo Stato, alla luce di questa nuova interpretazione, sembrerebbe spogliarsi, de facto, della facoltà (di cui, comunque, rimane titolare) di incidere, in maniera unilaterale, sull’attuale delimitazione del territorio delle Regioni in ossequio alla valorizzazione della tradizione storico – linguistico - culturale ([21]).

3. I lavori della Seconda Sottocommissione

Passando, ora, all’analisi dettagliata dell’iter formativo dell’art. 132 Cost., con particolare riferimento al suo 2° comma, é necessario prendere le mosse dai lavori della Seconda Sottocommissione che, “quale articolazione della Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 75), era stata incaricata di trattare l’ordinamento costituzionale della Repubblica” ([22]).

Le linee essenziali del procedimento di variazione territoriale delle Regioni, emergevano già dalla prima relazione dell’ On. Ambrosini, introduttiva della discussione sulle autonomie locali.

Dopo aver ribadito la ripartizione storico-tradizionale delle Regioni, Ambrosini sottolineava la necessità di “non seguire meccanicamente il criterio storico ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazioni di particolari interessi” affinché l’ente Regione si costituisse in modo da essere “vitale” ([23]). Questi cambiamenti, proseguiva l’Ambrosini, dovevano essere decisi “dal potere centrale sentita la Regione o a richiesta della Regione”. L’ambiguità e la genericità dei termini utilizzati all’interno della relazione, lasciavano aperte alcune non trascurabili problematiche. Da un lato, non si capiva se il procedimento fosse da applicare unicamente alle modificazioni del territorio regionale o anche all’istituzione delle Regioni, dall’altro, non si dava modo di apprezzare se l’iniziativa o il parere, con i quali l’ente Regione era chiamato ad attivare il procedimento modificatorio, richiedesse un’espressa deliberazione da parte dell’organo rappresentativo (il Consiglio Regionale) o un pronunciamento del corpo elettorale ([24]). Lo stesso concetto di “vitalità”, presupposto per ogni ipotesi di fusione e/o cambiamento, riceveva una definizione non univoca.

Il rapporto di strumentalità, di cui si faceva cenno sempre in questo primo intervento dell’Ambrosini, tra dimensione territoriale ed efficienza dei pubblici servizi ([25]), non sembrava esaustivo dal momento che circoscriveva ogni possibile mutamento al modo di gestione dei servizi pubblici. In definitiva, si assisteva alla necessità di ancorare al criterio storico la ripartizione regionale senza attribuire un ruolo preciso e specifico alla volontà delle popolazioni interessate nella identificazione del territorio, sulla base di una presunta incontrovertibilità della “storicità della suddivisione” del territorio regionale ([26]). Un modus procedendi che non rimaneva, comunque, esente da critiche, finalizzate a mettere in rilievo la superficialità con la quale veniva decisa l’articolazione territoriale delle Regioni ([27]).

Dopo l’approvazione dell’ordine del giorno presentato dall’On. Attilio Piccioni, nella seduta del 1 agosto 1946, che demandava al Comitato per le autonomie locali la formulazione di un progetto di ordinamento regionale, in data 13 novembre 1946 l’On. Ambrosini, Presidente e relatore del Comitato, illustrava quanto era stato elaborato, precisando che ci si era attenuti “al criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia” nonostante la presenza di istanze volte ad ottenere “la costituzione di altre Regioni, oltre le storiche”, delle quali veniva riconosciuta la serietà ([28]). Si voleva, in altri termini, tenere separate le Regioni delimitate secondo il criterio del riparto geografico dalle altre cui mancavano gli elementi storico-geografici atti ad identificarle ([29]).

Delle prime, si proponeva l’istituzione attraverso la disposizione normativa di cui all’art. 22 del progetto redatto dal Comitato ([30]); per le seconde, si ribadiva la necessità di accertare l’esistenza dei presupposti dell’autosufficienza economica ([31]) e della volontà delle popolazioni interessate ([32]) oppure, con la norma del successivo art. 23 del progetto ([33]), le stesse popolazioni interessate potevano chiedere, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli Comunali, il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra o la costituzione di una nuova Regione (in questo secondo caso, i Consigli Comunali dovevano rappresentare una popolazione di almeno 500.000 abitanti).

Nonostante le difficoltà di utilizzo, per l’istituzione delle “nuove” Regioni, dei due criteri sopra menzionati, si perveniva ad una riformulazione dell’art. 22 del progetto ([34]) nel quale scompariva il riferimento alla costituzione delle Regioni secondo la tradizionale ripartizione geografica e se ne aggiungevano di nuove quali il Friuli, il Molise, il Salento ed il frazionamento dell’Emilia in Emilia Appenninica (in seguito denominata Emilia lunense) ed Emilia e Romagna. Nel proseguo della relazione-illustrazione del lavoro del Comitato e con particolare riferimento ai procedimenti di variazioni territoriali di cui all’art. 23, l’On. Ambrosini riduceva ulteriormente la portata dell’intervento popolare, assicurando che il loro peso sarebbe stato bilanciato dal parere delle Assemblee regionali interessate e, soprattutto, dal fatto che la decisione ultima sarebbe avvenuta con legge statale. C’era la preoccupazione, infatti, bene evidenziata da Costantino Mortati, che la formazione delle Regioni e le possibili modificazioni territoriali delle stesse, in base alla volontà delle popolazioni interessate, potesse essere ispirata “soltanto a sentimenti di campanilismo” ([35]).

Tre i dati emergenti dalla illustrazione dell’art. 23 del progetto. Il primo, si riferiva al fatto stesso della formulazione dell’ipotesi modificatoria la quale poteva operare solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione e non, come sembrava dalla prima relazione dell’On. Ambrosini, anche in fase di istituzione delle Regioni ([36]). Il secondo, sulla non chiara natura della legge statale necessaria alla variazione territoriale ([37]) ed, infine, il terzo, relativo alla mancata contemplazione, all’interno del disposto preso in esame, della fusione di Regioni già esistenti, inserita solo in una fase successiva da parte della Seconda Sottocommissione ([38]). Questa omissione, ha rilevato la dottrina, rappresentava “il segno lasciato nella struttura normativa dell’art. 23 al contenimento delle richieste di costituzione di nuove Regioni per frazionamento dalle Regioni storiche” e lo “scarso peso attribuito nel dibattito regionalistico ai motivi funzionali che sono presupposti e soddisfatti dalla fusione” ([39]).

4. Il dibattito in Adunanza Plenaria

Il testo del progetto predisposto dal Comitato per le autonomie locali, dopo essere stato presentato alla Seconda Sottocommissione, veniva emendato dallo stesso, confluendo in un nuovo articolato presentato alla Commissione dei 75 riunita in Adunanza Plenaria.

Nel corso della seduta antimeridiana del 1 febbraio 1947, veniva discusso il nuovo art. 18 (che riproponeva il precedente art. 22) ed il nuovo art. 20 (anch’esso risultante dalla rinumerazione dell’art. 23). La discussione ed approvazione da parte dell’Adunanza Plenaria, segnava “un sensibile arretramento non solo rispetto alle deliberazioni della Seconda Sottocommissione ma anche alla discussione generale sul progetto” ([40]) dal momento che si accentuava la “curvatura antiregionalistica” rispetto ai lavori condotti fino a quel momento. Con l’emendamento dell’On. Ruggero Grieco, infatti, unitamente alla contestazione delle nuove Regioni, si riproponeva il criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia, scomparso dalla formulazione definitiva dell’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie, ridimensionando ulteriormente il principio della volontà popolare in base al quale identificare i territori “regionalizzabili”, anche in attesa dell’esito delle consultazioni locali che, a tale scopo, erano state avviate ([41]).

Per questo motivo, la Commissione dei 75, con l’ordine del giorno presentato dall’On. Aldo Moro ed approvato all’unanimità, sospendeva ogni decisione sull’istituzione delle Regioni “nuove”, affidandone la definitiva scelta all’Assemblea Costituente ([42]).

E’, invece, all’art. 20 che disciplinava i procedimenti per la modifica del territorio delle Regioni, che si riscontravano le novità maggiori e più significative: sarebbe stato possibile, con legge costituzionale, sentiti i Consigli Regionali interessati, consentire la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni, con un minimo di 500.000 abitanti, qualora ne avessero fatto richiesta tanti Consigli Comunali da rappresentare un terzo della popolazione e con l’approvazione popolare tramite referendum. Rispetto alla formulazione di cui all’art. 23 del progetto predisposto dal Comitato per le autonomie locali, l’art. 20 presentava tre importanti innovazioni.

La prima, relativa ai 500.000 abitanti per la creazione di nuove Regioni che, da numero sul quale contare la frazione dei legittimati alla richiesta, diveniva il numero minimo di abitanti che la nuova realtà regionale doveva possedere per essere istituita ([43]).

La seconda, l’intervento diretto della volontà popolare attraverso lo strumento referendario del quale veniva dibattuta la natura ([44]).

La terza ed ultima, relativa esclusivamente al distacco-aggregazione dei Comuni da una Regione ad un’altra, la soppressione della legge costituzionale con possibilità di utilizzo della legge ordinaria dello Stato per la deliberazione finale da parte del Parlamento, pur confermando il parere obbligatorio ma non vincolante dei Consigli Regionali a tutela e protezione delle popolazioni contro interessate o indirettamente interessate ([45]).

5. L’ultima fase: l’approvazione finale da parte dell’Assemblea Costituente

L’ultima fase dei lavori preparatori, era costituita dalla discussione in Assemblea Costituente degli artt. 123 e 125 del progetto di Costituzione predisposto dalla Commissione dei 75 (ma, in realtà, dal Comitato di redazione) i quali, rispettivamente, istituivano le Regioni e ne prevedevano e disciplinavano le variazioni territoriali ([46]). Si trattava delle formulazioni normative più prossime degli artt. 131-132 Cost. e della XI disposizione transitoria e finale e rappresentavano il materiale preparatorio “a partire dal quale andava principalmente ricostruito il significato normativo “attuale” delle norme costituzionali” ([47]).

Questa ultima fase, si configurava come particolarmente delicata poiché tornava in auge la questione regionale e si contrapponevano le posizioni del regionalismo moderato e dell’antiregionalismo ([48]). Il dibattito sulla norma di cui all’art. 123 del progetto ([49]), sulla enumerazione delle singole Regioni da istituire, avrebbe dovuto aver luogo nella seduta del 22 luglio 1947 ma, su proposta di alcuni deputati, veniva rinviata a quella del 29 e 30 ottobre dello stesso anno.

Il disposto contenuto nell’art. 123, nella versione che compariva nei verbali della seduta del 22 luglio, riproduceva la norma approvata dalla Seconda Sottocommissione e dalla Commissione per la Costituzione, salvo che per l’inserimento, dopo l’elencazione delle Regioni ([50]), di un comma ai sensi del quale “i confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica”.

Rispetto a questo primo testo, quello presentato per la discussione del 29 ottobre 1947 ed elaborato dal c.d. Comitato dei 18 ([51]), risultava piuttosto diverso. In primo luogo, escludeva dall’elenco le Regioni speciali, oggetto di uno specifico disposto, l’art. 108; in secondo luogo, e forse era questo il dato più rilevante, esso non recepiva il “frutto più autentico del dibattito svoltosi nella Seconda Sottocommissione: le Regioni nuove” ([52]). Decisivo, infatti, per la formulazione finale ([53]), fu l’approvazione dell’ordine del giorno dell’On. Ferdinando Targetti (che fissava in 19 il numero delle Regioni), con cui si invitava a costituire le Regioni storico-tradizionali “di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche” ([54]).

Il principio storico-statistico, pur con evidente debolezza scientifica, risultava vincente in quanto consentiva di riconoscere l’autonomia regionale a comunità territoriali già radicate e di prestare meno il fianco alle contestazioni ([55]) benché, una maggiore attenzione alle popolazioni interessate, avrebbe comportato una più attenta valorizzazione del sostrato culturale ed antropologico delle costituende Regioni, scongiurando, in questo modo, il rischio di costituire aggregazioni meramente artificiali.

Viceversa, la delimitazione del territorio regionale in base al criterio storico-statistico, comportava una identificazione in via autoritativa delle realtà regionali mediante un atto di volontà scaturente dal potere politico di livello centrale ([56]).

Se, nell’art. 123 del progetto di Costituzione, era assente qualunque riferimento al ruolo popolare nella determinazione della dimensione del territorio delle Regioni con esclusione di ogni concreta incidenza per una correzione “attuale”, anche in senso storico “del criterio storico adottato” ([57]), nell’art. 125, inerente le ipotesi di variazione, attraverso l’attivazione dei procedimenti previsti, alle popolazioni interessate veniva riconosciuta la capacità di incidere sull’ambito territoriale regionale sia su “base storica” sia su “base funzionale” ([58]). Il disposto normativo dell’art. 125 del progetto ([59]), recitava testualmente: “Si può, con legge costituzionale, sentiti i Consigli Regionali interessati, disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di 500.000 abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli Comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse (1° comma). Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i Consigli Regionali, consentire che Comuni, i quali ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra” (2° comma).

Tra le proposte di modificazione di questa disposizione normativa, veniva innanzitutto in considerazione un emendamento soppressivo dell’intero 1° comma, la cui finalità era quella di evitare un frazionamento eccessivo del territorio che avrebbe potuto essere determinato dall’operare del requisito minimo di 500.000 abitanti che, liminarmente, avrebbe potuto condurre, sulla base di una pronuncia referendaria favorevole di 251.000 elettori (rectius 250.001) ([60]), alla costituzione di un numero di Regioni pari a quello delle Province con i contrasti che questo avrebbe potuto ingenerare tra le diverse popolazioni di una stessa Regione e con il grave pregiudizio che la disintegrazione delle Regioni già istituite avrebbe potuto arrecare all’autonomia del nuovo ente. L’interesse di questo emendamento, respinto poi dall’Assemblea Costituente, stava nella erronea identificazione del numero degli abitanti con il corpo elettorale interessato.

Si poneva, per la prima volta, il problema del significato da assegnare all’espressione “popolazioni interessate” all’interno del procedimento variatorio previsto dalla norma. Questa espressione, ha evidenziato la dottrina, nell’ipotesi di “creazione” poteva assumere “due diverse qualificazioni a seconda che le popolazioni interessate fossero riguardate come base sul quale computare la frazione di un terzo che i Consigli Comunali dovevano rappresentare per richiedere la variazione, nel qual caso erano sinonime di abitanti, oppure fossero considerate come base sulla quale calcolare la maggioranza referendaria ed in questo caso erano sinonime di corpo elettorale” ([61]). L’unica novità che, alla fine, veniva introdotta dall’Assemblea riguardava la popolazione minima necessaria all’istituzione di una nuova Regione.

Tra le varie proposte di aumento e diminuzione ([62]), la sola ad essere motivata era quella di Costantino Mortati secondo il quale un milione e mezzo di abitanti poteva rappresentare la consistenza demografica minima affinché la Regione potesse risolvere “i problemi di equilibrio interno di forze ed interessi sociali” con contestuale assunzione del necessario rilievo politico ([63]).

L’Assemblea sceglieva una soluzione intermedia, statuendo che il minimo venisse elevato ad un milione di abitanti ([64]). In merito, invece, al 2° comma dell’art. 125 del progetto, concernente l’ipotesi di distacco-aggregazione, l’attenzione dei costituenti si concentrava sulla natura della legge di variazione territoriale, confermando la scelta della legge ordinaria dello Stato ([65]).

Una scelta che destava una certa “meraviglia”, risultando meno giustificata di quanto non fosse nell’art. 20 del progetto emendato dall’Adunanza Plenaria.

Una volta soppresso dall’Assemblea Costituente l’ultimo comma dell’art. 123 del progetto, secondo il quale “I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con leggi della Repubblica, era venuto meno il motivo del conflitto cui l’Adunanza Plenaria aveva cercato di ovviare fra questa norma, dettata dalla Sottocommissione al fine di evitare di ricorrere allo strumento della legge costituzionale per le piccole aggregazioni, e l’altra, approvata anch’essa dalla Seconda Sottocommissione, secondo la quale tutte le aggregazioni avrebbero dovuto essere decise con legge costituzionale, a prescindere dalla loro consistenza territoriale ([66]). In sede di coordinamento finale, il Comitato di redazione, oltre a correzioni formali di scarso rilievo, da un lato, inseriva nel testo dell’art. 123 (che divenne l’art. 131 della Costituzione) la formula “Sono costituite le seguenti Regioni” con l’elencazione delle cinque Regioni speciali e la nuova denominazione di “Emilia-Romagna”, dall’altro, assegnava anche alla Provincia l’iniziativa del procedimento di distacco-aggregazione di cui al 2° comma dell’art. 125 (che divenne l’art. 132 della Costituzione) ([67]).

Nel testo definitivo della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, l’art. 131 così recitava e recita: “Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia ([68]); Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzo; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna”; mentre, l’art. 132, nel teso antecedente la riforma del Titolo V avvenuta nel 2001, prevedeva: “Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando ne facciano richiesta tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse (1° comma).

Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra (2° comma).

Data la assenza di informazioni geografiche, linguistiche, economiche e finanziarie che avrebbero dovuto orientare l’istituzione delle diverse Regioni, l’On. Costantino Mortati, nella seduta pomeridiana del 4 dicembre 1947 ([69]), proponeva, con un emendamento aggiuntivo all’art. 125 del progetto, di dare all’elencazione delle Regioni di cui all’art. 123 un carattere di “provvisorietà”, consentendo che, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, si potessero formare altre Regioni anche in deroga alle condizioni di cui all’art. 125 ([70]). Mortati precisava, tuttavia, la necessità del ricorso alla legge costituzionale per tutte le nuove revisioni delle circoscrizioni regionali.

La norma, dunque, nel pensiero del suo estensore, doveva considerarsi aperta “alla correzione in senso storico ma anche in senso funzionale” della ripartizione territoriale adottata dall’Assemblea Costituente sia per corrispondere alle richieste di gruppi di popolazioni sia per soddisfare interessi generali dello Stato ([71]).

Lascia sorpresi, comunque, che una proposta di questo tipo fosse formulata proprio da colui il quale aveva cercato una maggiore ponderazione nella individuazione dell’ambito territoriale regionale per paura di una incontrollata proliferazione delle Regioni in considerazioni di ragioni e motivi di ordine campanilistico ([72]). In sede di formulazione definitiva, si procedeva non all’aggiunta di un nuovo comma all’art. 125 del progetto, ma alla approvazione di una disposizione ad hoc costituente la XI disposizione transitoria della Costituzione ([73]).

Il Comitato di redazione, in quella circostanza, accoglieva le richieste di istituzioni di Regioni non prese in considerazione dall’Assemblea Costituente, redigendo un testo che escludeva dal regime transitorio sia l’ipotesi di fusione di Regione sia quella di distacco-aggregazione ([74]), concentrandosi unicamente sull’ipotesi di creazione con la previsione, non contemplata dalla proposta originaria di Mortati, di interpellare le popolazioni interessate.

Questa esclusione era confermata anche dalla lettera della norma costituzionale presa in esame la quale, riferendosi alle “altre Regioni”, esprimeva “un’ aggiunta numerica” ([75]) assai meglio del termine “nuove” di cui all’art. 132, 1° comma, Cost. L’XI disposizione transitoria è stata ascritta alla categoria delle c.d. terze norme ([76]) in quanto, più che una temporanea sospensione della norma principale, si affiancava ad essa con la conseguenza di risultare entrambe potenzialmente idonee a regolare la medesima fattispecie. Scaduto il termine inizialmente fissato in cinque anni, lo stesso, con legge costituzionale n. 1/1958, veniva prorogato al 31 dicembre 1963.

Questa operazione permetteva alla legge costituzionale n. 3/1963 di aggiungere il Molise, che non possedeva il requisito della popolazione minima di un milione di abitanti richiesto dall’art. 132, 1° comma, Cost., alle altre quattordici Regioni ordinarie, procedendo in questo modo alla scissione dall’Abruzzo. Quanto all’obbligo di consultazione delle popolazioni interessate, esso fu singolarmente inteso, sulla base della norma di cui all’art. 73 della legge ordinaria dello Stato n. 62/1953 (c.d. legge Scelba), non in termini di indizione di un referendum ma, viceversa, nel senso di sentire i Consigli Comunali o i Commissari prefettizi della Regione o delle Regioni di cui facevano parte i Comuni che intendevano costituirsi nella nuova Regione ([77]).

Destava, infine, ulteriori perplessità il fatto che questa legge veniva approvata in attuazione della disposizione transitoria dopo la scadenza del termine quinquennale e prima della riapertura della deroga disposta in seguito con legge costituzionale. In proposito, alcuni autori ritenevano che essa avesse permesso il mantenimento del termine provvisorio inizialmente previsto ma che, trattandosi di una deroga ad un procedimento per la fusione o la creazione di nuove Regioni previsto dalla Costituzione, non poteva che essere determinato esclusivamente con la fonte costituzionale ([78]).



([1]) Recitava l’art. 74 dello Statuto Albertino: “Le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei Comuni e delle Province sono regolati dalla legge”.

([2]) In G. U. n. 188 del 14 agosto 2009.

([3]) Si veda, per una sistematica ricostruzione dell’origine della Regione in Italia, E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Milano, Giuffré, 1967; O. BUCCI, Considerazioni storico-introduttive, in P. DE CAMELIS (a cura di) L’autonomia regionale, Roma, Edizioni Kappa, 1989, pp. 3-20. La formula organizzativa delle Regioni italiane trovava un parziale precedente nella Costituzione spagnola del 1931 specialmente per quanto riguardava il riparto delle competenze fino alla modifica del Titolo V con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3. Infatti, la titolarità, in capo alle realtà regionali, di competenze enumerate e la presenza di diversi gradi di autonomia, sono aspetti di matrice iberica. In merito, A. D’ATENA, (voce) Regione, in Enc. Dir., Vol. XXIX, Milano, Giuffré, 1988, pp. 317-318 e G. AMBROSINI, Un tipo intermedio di Stato fra l’unitario ed il federale caratterizzato dall’autonomia regionale, in Riv. Dir. Pubbl., 1933, p. 93 e ss.

([4]) Cfr., S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO – L. VANDELLI, Le autonomie territoriali. Ordinamento delle Regioni e degli enti locali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 15 e ss.

([5]) Riguardo la ripartizione statistica delle Regioni italiane, si veda l’opera fondamentale di P. MAESTRI, Statistica del Regno d’Italia – Popolazione - Movimento dello stato civile nell’anno 1863, Firenze, 1864. L’autore, aveva delineato la circoscrizione territoriale delle Regioni “sulla base dei tre elementi caratteristici di esse: quello naturale, dato dalla configurazione dei luoghi, quello delle tradizioni locali, quello degli interessi economici. Ne uscivano 14 Compartimenti del Regno (dei quali il Maestri indicava anche le Province): Piemonte, Emilia, Umbria, Marche, Toscana, Abruzzo (di cui il Molise costituiva una Provincia), Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna. L’Assemblea Costituente, del tutto impreparata a considerare il problema regionale, finì con l’affidarsi all’annuario statistico in cui i dati raccolti erano ordinati secondo la ripartizione regionale sopra descritta e riportati poi di peso nell’art. 131 della Costituzione: così, C. MORTATI, Istituzioni di Diritto Pubblico, Vol. II, Padova, Cedam, 1976, pp. 891-892. Sul punto, anche V. GAMBI, L’equivoco fra compartimenti statistici e Regioni costituzionali, Faenza, Editrice Fratelli Lega, 1963.

([6]) Sulla funzione “politica” dell’art. 132 della Costituzione, M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., in G. BRANCA – A. PIZZORUSSO (a cura di) Commentario della Costituzione, Bologna, Zannichelli, 1990, p. 124-125.

([7]) Sul punto, A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, in Diritto e Società, n. 3/1995, pp. 315-316.

([8]) Sul pericolo, molto sentito all’interno dell’Assemblea Costituente, che l’autonomia concessa agli enti pubblici territoriali e le loro istanze di autodeterminazione potessero compromettere il carattere unitario della Repubblica di cui all’art. 5 Cost., cfr., G. MIELE, La Regione, in P. CALAMANDREI – A. LEVI, (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Vol. II, Firenze, Barbera Editore, 1950, pp. 231-232. Inoltre, si prenda in esame anche l’opera monografica di C. CALVIERI, Stato regionale in trasformazione: il modello autonomistico italiano, Torino, Giappichelli, 2002, p. 25.

([9]) La decisione viene assunta o con lo strumento della legge costituzionale nel caso di creazione di nuove Regioni o fusione di Regioni già esistenti o della legge della Repubblica nell’ipotesi di distacco-aggregazione di Comuni e Province.

([10]) Cfr., sul carattere non autoritativo dei procedimenti di cui all’art. 132 Cost., A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., pp. 317-318. L’autore ritiene (p. 319) che il parere delle popolazioni interessate, esprimibile attraverso lo strumento referendario, per quanto non vincolante, costituisca presupposto necessario in quanto espressione di quella garanzia cittadino-territorio.

([11]) Così, si esprime A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 314.

([12]) Cfr., V. CRISAFULLI, Vicende della “Questione regionale”, in Le Regioni, n. 4/1982, p. 497 e ss.

([13]) Cfr., O. RANELLETTI, Note sul progetto di Costituzione presentato dalla Commissione dei 75 all’Assemblea Costituente, in Foro. It., IV, 1947, p. 86.

([14]) Così, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 15 e ss.

([15]) Questo sarebbe indice, secondo Antonio Ferrara, di come l’autonomia regionale nel nostro ordinamento, con l’esclusione di alcune collettività territoriali delle Regioni a Statuto speciale, prescinda, ancora oggi, sia da ragioni storiche sia da motivazioni etniche, religiose, linguistiche: cfr., A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 316. ì

([16]) Cfr., S. BARTOLE, Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica: tentativi più o meno convinti di trovare una legittimazione etnica, in S. BARTOLE (a cura di) Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, Milano, Giuffré, 1999, pp. 2-3.

([17]) Così, A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., p. 317.

([18]) Sulle regole del riordino territoriale degli ordinamenti federali, A. LA PERGOLA, Residui “contrattualistici” e struttura federale nell’ordinamento degli Stati Uniti, Milano, Giuffré, 1969, p. 329, nt. 42-bis.

([19]) Di autoidentificazione territoriale, parla A. D’ATENA, La vicenda del regionalismo italiano ed i problemi di transizione al federalismo, in A. D’ATENA (a cura di) Federalismo e Regionalismo in Europa, Milano, Giuffré, 1994, p. 224 e ss.

([20]) Ancora, si veda A. FERRARA, Quali Regioni per quale Repubblica ? Note minime in ordine alla riaggregazione delle Regioni in nuove macroentità territoriali, op. cit., pp. 320-321.

([21]) Le ripartizioni statistiche, sebbene non fossero nate per diventare Regioni amministrative e nonostante alcune innegabili questioni di confine derivabili dalla artificiosa delimitazione delle Province degli Stati preunitari (che vennero prese a base del disegno dei Compartimenti del 1864), rispecchiavano, anche se in modo approssimativo, identità storico-culturali risalenti a quella che era già la partizione regionale augustea del 41 a.c. al momento della prima unificazione del paese, la quale, a sua volta, teneva conto di precedenti antichissimi stanziamenti delle genti autoctone: cfr., G. PETTINATO, L’Italia è una, parola d’archeologo, in Il Sole 24 Ore, domenica 13 marzo 1994, p. 25.

([22]) Cfr., L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., in A. CELOTTO – R. BIFULCO – M. OLIVETTI (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2532.

([23]) La prima relazione dell’On. Gaspare Ambrosini, è stata svolta nella seduta del 27 luglio 1946. Cfr., per il testo completo, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Vol. VII, a cura del Segretariato Generale della Camera dei Deputati, Roma, 1976, p. 822 e ss.

([24]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., p. 126.

([25]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 12-13.

([26]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 14.

([27]) Sul punto, ne parla M. BERTOLISSI, Art. 132 Cost., in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di) Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, p. 769. Interessante la relazione dell’on. Costantino Mortati del 16 dicembre 1946 che parlò della necessità di “indispensabili elementi di giudizio” per una seria articolazione del territorio delle Regioni. Cfr., per il testo integrale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Vol. VII, op. cit., p. 1550. Sulla stessa linea, la relazione dell’on. Umberto Elia Terracini del 16 dicembre 1946 il quale notò come “né la Sottocommissione, né la Commissione, né l’Assemblea Costituente potranno (ed in realtà non poterono) compiere quel lavoro di preparazione, indagine, studio, sintesi, che sarebbe indispensabile per poter dare un giudizio con cognizione di causa. Per il testo, cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1545.

([28]) Riguardo gli estratti della seconda relazione dell’On. Ambrosini, cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1303.

([29]) Così, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 24-25.

([30]) Art. 22 del Progetto del Comitato per le autonomie locali nella sua formulazione originaria così recitava: “Le Regioni sono costituite secondo la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. Esse sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, ed in più la Valle d’Aosta”.

([31]) Sul punto, era controversa la scelta dei parametri da utilizzare per identificare l’autosufficienza e, quindi, la possibilità di utilizzo di questo criterio: da una parte, una concezione “statica” fondata sulla superiorità del carico tributario regionale rispetto alla media nazionale (cfr., l’intervento dell’On. Emilio Lussu, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1549), dall’altra, una concezione “dinamica” basata sulla capacità della Regione di far fronte ai compiti derivante gli dalla concessione dell’autonomia (cfr., la relazione dell’On. Ezio Vanoni, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., pp. 1550-1551).

([32]) Questo criterio veniva contrastato, in chiave antiregionalistica, dall’argomento della tutela delle popolazioni contro interessate. In merito, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 39.

([33]) Art. 23 del Progetto del Comitato per le autonomie locali: “E’ consentito alle popolazioni interessate, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli Comunali, di chiedere il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra (1° comma). E’ consentita, inoltre, la richiesta di erezione di una nuova Regione, quando provenga dai Consigli Comunali rappresentanti una popolazione di almeno 500.000 abitanti (2° comma). Le modificazioni di cui ai primi due commi sono disposte con legge dello Stato, previo parere delle Assemblee regionali interessate (3° comma)”.

([34]) Il nuovo e definitivo testo dell’art. 22 del progetto così prevedeva: “Le Regioni sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia Appenninica,Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna e Valle d’Aosta”.

([35]) Per l’intervento dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1542.

([36]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 25.

([37]) In riferimento al 3° comma, lo stesso non individuava il tipo di atto legislativo necessario alla variazione morfologica, sebbene il dibattito fosse indirizzato, prevalentemente, a favore della legge costituzionale: cfr., a riguardo, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2534. Due erano le ragioni a sostegno di questa tesi: la prima, dell’On. Costantino Mortati, si ricollegava all’inserimento, all’interno della Costituzione, dell’elenco delle circoscrizioni territoriali delle Regioni le quali, a loro volta, potevano influire sulla composizione di certi organi dello Stato (cfr., per l’intervento dell’On. Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586); la seconda, dell’On. Ambrosini, insisteva sul fatto, non accolto dalla Sottocommissione, che il mutamento territoriale potesse venir deciso dallo Stato, prescindendo dalla richiesta delle popolazioni interessate (cfr., per l’intervento dell’On. Ambrosini, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586). Qualora, invece, proseguiva Ambrosini, la richiesta fosse provenuta dalle popolazioni interessate, non sarebbe stato necessario il ricorso alla legge costituzionale (cfr., sul punto, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1588).

([38]) Fu la richiesta dell’On. Bartolomeo Cannizzo ed un emendamento aggiuntivo dell’On. Giovanni Conti a prevederne la possibilità. Si veda, in merito, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VII, op. cit., p. 1586.

([39]) Sul punto, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 41-42.

([40]) In questa direzione, M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 61.

([41]) L’art. 18 si limitava ad una mera riproposizione del testo dell’art. 22 nella sua versione definitiva.

([42]) Per l’emendamento dell’On. Ruggero Grieco ed il dibattito sul tema, si veda, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. VI, op. cit., p. 280 e ss.

([43]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 66.

([44]) Cfr., L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2534.

([45]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 66. Quest’ultima, fu l’unica variazione ad essere stata introdotta dalla Adunanza Plenaria della Commissione dei 75.

([46]) Sullo “scavalcamento” operato dal Comitato nei confronti della Commissione, si veda V. FALZONE – P. GROSSI, (voce) Assemblea Costituente, in Enc. Giur., Vol. III, Milano, Giuffré, 1958, p. 374. Il Comitato, come ebbe a sostenere l’On. Codacci Pisanelli, “doveva limitarsi a coordinare e coordinare” non equivaleva a “modificare”: cfr., per il testo completo, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602.

([47]) Così, si esprime M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 70-71.

([48]) Sul punto, E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, op. cit., pp. 314-315. Secondo l’autore (pp. 314-315), il revirement della questione regionale in questa fase, con conseguente crisi di governo del maggio-giugno 1947, segnava la spartiacque tra due distinte fasi del dibattito in Assemblea Costituente: la prima, che andava dalla discussione preliminare sull’intero progetto di Costituzione alla discussione generale sul Titolo V, caratterizzata da un certo “regionalismo dei partiti”, la seconda, che andava dalla discussione generale all’approvazione del Titolo V in cui si assisteva, secondo Valerio Onida, ad un’inversione di ruoli tra chi aveva sostenuto l’introduzione di un sistema articolato di potere e chi aveva osteggiato l’introduzione di istituti di freno e di controllo. Su quest’ultimo aspetto, V. ONIDA, La Costituzione nella storia della Repubblica: 1945-1975, in Italia, Fascismo antifascismo, Resistenza rinnovamento, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 388-390.

([49]) Per una sintesi del dibattito sull’art. 123 del progetto di Costituzione, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, in S. BARTOLE (a cura di) Le Regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, Milano, Giuffré, 1999, pp. 35-47.

([50]) Rispetto al testo dell’art. 18, la prima versione dell’art. 123 del progetto mutava denominazione ad alcune Regioni: l’Emilia Appenninica diventava Emilia lunense ed il Friuli diveniva Friuli e Venezia Giulia.

([51]) Il Comitato dei 18 rappresentava una sottoarticolazione della Commissione dei 75.

([52]) Cfr., in merito, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, op. cit., p. 35.

([53]) L’art. 123, nella sua formulazione definitiva, così statuiva: “Oltre alle Regioni indicate dall’art. 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria”. Scompariva del tutto, dall’ultima versione dell’art. 123, la Regione Emilia lunense, assorbita dalla Regione Emilia e Romagna, ed il Salento; il Molise veniva appaiato all’Abruzzo e la Lucania diventava Basilicata. Scompariva, infine, ogni riferimento al Friuli ed alla Venezia Giulia di cui, invece, alla prima formulazione dell’art. 123.

([54]) Per l’O.d.g. dell’On. Ferdinando Targetti, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602 e ss. A questo, si contrapponeva l’O.d.g. dell’On. Carmine De Martino caratterizzato da spinte antiregionalistiche che proponeva di rinviare alla legge il compito di determinare il numero delle Regioni, il loro nome, le rispettive delimitazioni territoriali ed i capoluoghi: cfr., La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. IV, op. cit., p. 3602 e ss. L’O.d.g. dell’On. Carmine De Martino, risultando in contrasto con tutto il lavoro che La Costituente aveva svolto in ordine all’ordinamento regionale, venne respinto, aderendo così alla pregiudiziale presentata dall’On. Attilio Piccioni. In caso contrario, si paventava il rischio di vedere frustrato l’accordo sull’assetto decentrato dello Stato: in questa direzione, G. PAOLO DOLSO, Il dibattito in Assemblea Costituente sulla delimitazione territoriale delle Regioni, op. cit., p. 40.

([55]) Così si esprime, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., p. 2535.

([56]) Cfr., A. D’ATENA, Le autonomie sub-statali e le loro garanzie istituzionali, in Le Regioni dopo il Big Bang. Il viaggio continua, Milano, Giuffré, 2005, p. 93.

([57]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 92.

([58]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 92.

([59]) L’art. 125 riproduceva l’art. 20 del progetto, approvato con emendamenti dall’Adunanza Plenaria, il quale, a sua volta, rispecchiava l’art. 23 del progetto quale risultava dal testo originario e dai numerosi emendamenti introdotti dalla Seconda Sottocommissione.

([60]) Cfr., l’emendamento dell’On. Giovanni Persico in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., pp. 4382-4383. Doveva certamente essere attribuito ad un lapsus l’errore nel calcolo della maggioranza di 500.000, la quale evidentemente non è di 251.000 ma di 250.001.

([61]) Per il riferimento alla dottrina, cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., pp. 136-137.

([62]) Si vedano: l’emendamento dell’On. Emilio Lussu (400.000 abitanti) e l’emendamento Luigi Preti (2.000.000 abitanti), in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4384.

([63]) Cfr., per la proposta dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4384.

([64]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Art. 132 Cost., op. cit., p. 137.

([65]) L’idea di utilizzare la legge costituzionale anche per l’ipotesi del 2° comma dell’art. 125 del progetto, al fine di “rendere più difficile qualsiasi modificazione dell’ordinamento regionale”, era stata sostenuta con particolare forza dall’On. Umberto Nobile. Si veda, sul punto, la sua proposta di emendamento in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4385.

([66]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 97.

([67]) Così, L. FERRARO, Artt. 131-132 Cost., op. cit., pp. 2533-2534.

([68]) Il Friuli-Venezia Giulia era una Regione costituita solo di nome dall’Assemblea Costituente. La Regione è composta da due aree territoriali: il Friuli e la Venezia Giulia. La prima, era ignota alla ripartizione statistica del Maestri poiché apparteneva storicamente alla Regione del Veneto. Il Friuli, infatti, circoscriveva una zona formata dalla Provincia di Udine e dai territori limitrofi, e la Provincia di Udine apparteneva al “Veneto statistico”. Con Il D.P.R. 6 febbraio 1948 n. 30, si ripartiva il territorio delle Regioni in collegi uninominali a fini elettorali e sotto la Regione Veneto venivano ricomprese tutte le Province appartenenti al Veneto statistico con esclusione della Provincia di Udine. La seconda, invece, apparteneva alla Regione statistica Venezia Giulia e Zara che, al momento della redazione della carta Costituzionale, non era nella disponibilità dello Stato italiano a causa degli eventi internazionali che interessarono la Venezia Giulia al termine del secondo conflitto mondiale. Il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 aveva previsto la costituzione del c.d. Territorio libero di Trieste che, in realtà, non ha mai trovato attuazione. Sullo stesso, si veniva a costituire un regime di amministrazione militare con una suddivisione tra una zona A (comprendente la città di Trieste ed i suoi dintorni) affidata alle forze armate anglo-americane ed una zona B (comprendente la parte residua) affidate alle forze armate jugoslave. Constatata la impossibilità a rendere operante la clausola del Tratto di Pace relativa al Territorio libero di Trieste, l’Italia, La Jugoslavia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America siglavano a Londra il 5 ottobre 1954 un Memorandum d’Intesa in cui era previsto di assegnare la zona A all’Italia e la zona B alla Jugoslavia. Così, la porzione della Venezia Giulia assegnata all’Italia, andava a costituire, insieme al Friuli, la Regione Friuli-Venezia Giulia. Per un maggiore e più completo approfondimento, M. BERTOLISSI, voce Regione Friuli-Venezia Giulia, in Enc. Dir., Vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 2805 e ss. L’ordinamento italiano, tuttavia, non riestendeva con immediatezza la sua sovranità sulla zona A; tanto è vero che l’elettorato triestino, chiamato ad eleggere la Camera dei Deputati fin dalla legge ordinaria dello Stato 16 maggio 1956 n. 493, otteneva una propria rappresentanza nel Senato della Repubblica in virtù della legge costituzionale 31 gennaio 1963 n. 1 la quale risolveva definitivamente la questione di Trieste: a riguardo, L. PALADIN, Diritto Regionale, op. cit., p. 21.

([69]) Cfr., per l’intervento dell’On. Costantino Mortati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Vol. V, op. cit., p. 4389.

([70]) Cfr., in merito, A. IANNUZZI, Disp. XI Cost., in R. BIFULCO - A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 2784. Nel suo testo originario, l’articolo aggiuntivo proposto dal Mortati così disponeva: “Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della presente Costituzione si potrà procedere con legge costituzionale, alla modificazione delle circoscrizioni regionali stabilite dall’art. 123, anche senza il concorso delle condizioni di cui all’art. 125”.

([71]) Su questo, si veda, F. BASSANINI, L’attuazione dell’ordinamento regionale tra centralismo e principi costituzionali, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 25 e ss.

([72]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., pp. 99-100.

([73]) L’ XI disposizione transitoria così stabilisce: “Fino a cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si possono, con leggi costituzionali, formare altre Regioni, a modificazione dell’elenco di cui all’art. 131, anche senza il ricorso alle condizioni richieste dal primo comma dell’articolo 132, fermo rimanendo tuttavia l’obbligo di sentire le popolazioni interessate”.

([74]) Il distacco-aggregazione è, con la fusione, una variazione territoriale che si muove nella logica di una ricomposizione razionale del territorio regionale, a differenza della creazione che può essere utilizzata soltanto a provocarne l’ulteriore frazionamento.

([75]) Cfr., M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni. Regioni storiche e regionalismo politico nelle scelte dell’Assemblea Costituente, Vol. I, op. cit., p. 104.

([76]) Così la definisce, G. UGO RESCIGNO, voce Disposizioni transitorie, in Enc. Dir., Vol. XIII, Milano, Giuffré, 1964, p. 231.

([77]) Cfr., A. IANNUZZI, Disp. XI Cost., op. cit., p. 2784.

([78]) Cfr., V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di referendum, in Riv. Amm., 1955, p. 469.