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C’era una volta la Cina

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Cina
Cina

Fra i regali che la vita mi ha fatto certamente il poter viaggiare è stato uno dei più preziosi. Alla fine degli Anni ’70, ad esempio, potei recarmi per la prima volta in Cina e girare ampiamente quel Paese. Sarebbero poi seguiti, soprattutto nei 20 anni successivi, grandi sviluppi politici, sociali, urbanistici che mutarono sensibilmente quella realtà.

Il Paese era povero, ma dignitoso e per difendere dignità ed indipendenza si cercava di risparmiare su tutto e di evitare sprechi. Ricordo che dopo il terremoto del 1976 a Tianjin i mattoni degli edifici crollati venivano recuperati uno ad uno per poter essere riutilizzati.

Mao, che aveva vinto la guerra contro i giapponesi e la guerra civile, non aveva intenzione che la Cina diventasse un satellite dell’URSS. Lui stesso era considerato dai russi un eretico in quanto aveva fondato il partito sui contadini e non sulla classe operaia, come insegnava il marxismo.

C’erano stati anni terribili dopo che i sovietici nel 1958 avevano ritirato i loro esperti a causa dei dissidi sul Grande Balzo in Avanti e le Comuni Popolari, proprio quando si erano verificate delle carestie. Si raccontava che nelle zone più remote e povere la gente fosse arrivata a nutrirsi di corteccia degli alberi e di corpi di bambini deceduti per fame.

La Cina era infine riuscita a superare lentamente tale situazione ma, quando si incontravano, le persone ancora si salutavano chiedendosi “Ni chiguolema?” (“Hai mangiato?”) e non “Ni hao?” (”Come va?”), come si usa adesso.

Morto Mao e terminata la Rivoluzione Culturale (1976) il Paese cercava a fatica di recuperare una “normalità” e di migliorare il tenore di vita della popolazione.

Mi fu possibile vivere a Beijing, che Alberto Cavallari aveva definito la “città di peltro” per il colore grigio dei muri delle case degli “hutong” (i vicoli della città vecchia), che non dovevano superare in altezza le mura della Città Proibita. In seguito percorsi il Paese per anni.

Mi avvicinai ad un popolo che per secoli non si era diviso definendosi confuciano, taoista o buddhista, ma per cultura e tradizione usava ricorrere ad ognuna delle tre gambe di questo tripode cinese per affrontare differenti necessità della vita:

- nel caso di contrasti aveva fatto ricorso al funzionario confuciano;

- per le malattie, ai rimedi naturali elaborati dagli eremiti taoisti;

- quando si verificavano decessi, si era appellato ai monaci buddhisti, che avevano indagato sul trascendente.

Il fine era di realizzare una armonia su tre livelli, che fosse al contempo sociale (cioè in linea con gli insegnamenti confuciani di giustizia, umanità, rispetto delle consuetudini, saggezza, lealtà), naturale (secondo il principio taoista del “wuwei”, cioè di azione non derivante da volontà del singolo, ma in sintonia con il “dao”), cosmica (ovvero sia impostata sui concetti buddhisti di impermanenza, illusorietà dell’ego, interdipendenza dei fenomeni).