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C’era una volta la Cina (3)

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Cina: gli stranieri erano pochissimi e perlopiù personale di ambasciata, studenti e rari giornalisti

La vita in Cina mi appariva estremamente inconsueta ed affascinante. Si potevano vedere persone esercitare mestieri poi spariti, come il venditore di grilli, che portava le gabbiette di questi insetti attaccate ad una canna di bambù e richiamava a voce gli acquirenti. La gente godeva la compagnia dei grilli nei lunghi mesi d’inverno, nutrendoli con riso bollito ed ascoltando il loro canto che ricordava la bella stagione.

I cinesi andavano anche pazzi per gli aquiloni. Se ne vedevano volteggiare in cielo esemplari leggiadri ed agili oppure maestosi realizzati in carta cerata o in seta: uccelli, draghi, fenici, pesci, o qualsiasi altra fantasia.

Altra grande passione erano le partite di “xiangqi”, gli scacchi cinesi, giocate ovunque, anche sui marciapiedi. Quando si vedeva un crocchio di persone ferme ad osservare qualcosa intensamente si poteva essere certi che si trattasse di una di queste sfide. Sono narrate nel bel libro di Acheng “Il re degli scacchi”.

Un episodio politico buffo avvenne al vecchio aeroporto di Beijing. Per decorare una sala venne chiamato un artista indonesiano di Bali. Dipinse una lunga parete con scene bucoliche di donne a seno scoperto in mezzo alla natura. Quando i responsabili della struttura si resero conto della situazione imbarazzante creatasi, era ormai troppo tardi. Non potendo distruggere il dipinto, che era costato soldi pubblici, pensarono di rimediare coprendolo con una lunga tenda di velluto di colore rosso cardinalizio. Il risultato fu che ogni tanto si vedeva la tenda ondeggiare perché qualche ben informato era andato a controllare di persona la bellezza di quelle ragazze nude.

I contadini costituivano la grande maggioranza della popolazione. Avevano terrazzato a mano il Paese per incrementare le superfici coltivabili ed erano in grado di trasportare qualsiasi peso con l’ausilio dei loro bilancieri.

Dopo lo sconquasso della Rivoluzione Culturale la gente iniziò a cercare timidamente di riappropriarsi di una propria identità culturale, di cui la religione era parte. Nei templi buddhisti o taoisti si potevano vedere davanti alle statue sacre qualche frutto, caramelle, sigarette o spiccioli dati in offerta da fedeli che erano persone semplici e poco conoscevano di teologia.

Gli stranieri erano pochissimi e perlopiù personale di ambasciata, studenti e rari giornalisti (come Tiziano Terzani, che pochi anni dopo fu espulso e raccontò le sue esperienze ne “La porta proibita”). I cinesi erano molto curiosi di avere con loro un contatto o anche solo di osservare come erano fatti fisicamente o vestiti. Capitava così che, se si chiedeva una informazione, si veniva in breve attorniati da una folla ansiosa di rispondere o aiutare in qualche modo.

I rapporti approfonditi e continuativi, tuttavia, erano fortemente scoraggiati dalle autorità. Di fatto era proibito fare amicizia. Se ciò avveniva il cinese in questione veniva avvisato e, se persisteva, veniva trasferito altrove, anche molto lontano.

Le autorità diffidavano degli stranieri e nei villaggi remoti, dove non se ne erano mai visti, una volta vidi addirittura un bambino fuggire di paura gridando: “Yang guizi laile” (“Sono arrivati i diavoli stranieri”), segno del non positivo ricordo che i bianchi o i giapponesi avevano lasciato, magari appreso tramite qualche film.