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Chi ha paura delle Province?

Rilievi critici alle più recenti riforme degli enti locali
Faro di Marina di Ravenna
Ph. Enrico Gusella / Faro di Marina di Ravenna

Mutuando il titolo da un capolavoro della drammaturgia teatrale del 1962, la classe politica “de noantri” ha scritto pagine degne del migliore dramma, se non fosse che il soggetto della pièce ha una storia ultracentenaria che affonda le proprie radici nell’Italia preunitaria e che, quindi, richiederebbe il giusto rispetto istituzionale.

Previste già nel 1848 dallo Statuto Albertino, all’articolo 74, le province furono compiutamente disciplinate, prima col Decreto n. 3702/1859 – cd. “decreto Rattazzi”, dal nome del Ministro dell’Interno, Urbano Rattazzi, del I Governo La Marmora nel Regno di Piemonte e Sardegna – sul modello dell’organizzazione amministrativa francese, e poi, con l’unificazione del Paese e la proclamazione del Regno d’Italia, dalla Legge n. 2248/1865 – cd. “legge Lanza”, dal nome del promotore, Giovanni Lanza, Ministro dell’Interno del II Governo La Marmora – portando a termine, in tal modo, quel progetto di “piemontesizzazione’’ amministrativa del nuovo regno realizzato dopo l’unificazione dalla classe politica dell’epoca, di cui il “barone di ferro” Bettino Ricasoli fu una delle figure centrali dopo la morte di Cavour.[1]


1. La riforma degli Enti Locali

Relegate, dunque, in un limbo che dura ormai da più di un decennio, la Provincia, da fondamentale ente intermedio sovracomunale – normato dall’articolo 114, Titolo V, Parte II, della Costituzione, come articolazione dell’ordinamento repubblicano – ad agnello sacrificale in nome di una sciagurata antipolitica, senza né capo nè coda. Date per moribonde già con il primo colpo inferto dal Governo Renzi – ‘’grazie’’ a quella sciagurata “legge Delrio”, ovvero la Legge n. 56/2014, che prende il nome del promotore, il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Graziano Del Rio – ne doveva essere dichiarata la ‘morte cerebrale’ con la sicura vittoria – secondo i piani dei promotori della riforma costituzionale, ovvero l’accoppiata Renzi-Boschi – del ‘fronte del si’ alla consultazione referendaria costituzionale del 4 dicembre 2016.

La schiacciante vittoria del “fronte del no” ha, da un lato, disinnescato il disegno riformatore del Governo, dall’altro, delegittimato il Governo Renzi provocandone le dimissioni: le Province sono, dunque, vive e vegete. Svuotate, però, di risorse finanziarie, di personale dipendente – non si può omettere che la riforma del 2014 ha avuto delle profonde ripercussioni negative sul versante del personale dipendente delle province, provocandone un significativo irrimediabile ridimensionamento – di personale politico, ma non prive di funzioni e competenze.

Il tentativo maldestro di cancellarle dal testo della Costituzione è andato a vuoto, ma un miope progetto riformatore ha inopinatamente snaturato un essenziale ente pubblico con fondamentali funzioni di programmazione socioeconomica territoriale sovracomunale, nell’alveo del principio di sussidiarietà.

Alla riforma delle autonomie locali, operata dalla legge Delrio – che ha ridisegnato l’ordinamento delle province istituendo le città metropolitane e trasformando, altresì, le province in ‘’enti di area vasta’’ dotati di organi elettivi di secondo grado – avrebbe dovuto collegarsi, quindi, la definitiva entrata in vigore dell’ampio progetto di riforma costituzionale – della premiata ditta già sopra citata – che, tra l’altro, prevedeva la soppressione delle province quali enti costituzionalmente necessari.[2]

Alla base della ridefinizione del sistema delle autonomie locali, insieme all’introduzione di una nuova disciplina in tema di unioni e fusioni di comuni, la sostituzione delle province in “città metropolitane” – identificate come “enti territoriali di area vasta’’ aventi come finalità di carattere generale, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, Legge n. 56/2014, sia la cura dello sviluppo strategico del territorio di riferimento, sia la promozione e la gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione, che la cura delle relazioni istituzionali inerenti il livello di governo locale – individuando, inoltre, dieci aree urbane, coincidenti con le previgenti province ricadenti nei territori delle regioni a statuto ordinario, ovvero, oltre Roma Capitale, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.

Dopo l’esito referendario del 2016, sarebbe stato opportuno un nuovo intervento legislativo; in tale direzione andava il D.L. n. 91/2018 con l’istituzione di un tavolo tecnico-politico, incardinato presso la Conferenza Stato-Città e Autonomie Locali, allo scopo di formulare principi e criteri direttivi per la revisione organica dell’intero comparto normativo.


2. L’intervento della Corte Costituzionale

In tale contesto, sono intervenuti i Giudici delle Leggi che, con Sentenza n. 50/2015, hanno legittimato la riforma del 2014 dichiarando infondati i ricorsi promossi da alcune regioni, in particolare relativamente alla carenza di competenza legislativa in merito all’istituzione delle città metropolitane ed alla scelta del modello di governo di secondo grado.

Secondo la Consulta, la legge Delrio ha realizzato, da un lato, “una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica, in vista di una semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, senza arrivare alla soppressione di quelli previsti in Costituzione”, dall’altro, ha assolto ad una competenza legislativa statale secondo il dettato costituzionale del 2 comma, lett. p), dell’articolo 117, poiché “il novellato articolo 114 Cost., nel richiamare al proprio interno, per la prima volta, l’ente territoriale Città metropolitana, ha imposto alla Repubblica il dovere della sua concreta istituzione (…) esigenza costituzionale che fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe, del resto, avere modalità di disciplina e struttura diversificate da regione a regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli  di governo che abbiano una disciplina uniforme”.

Probabilmente (personalissima opinione) sulla pronuncia della Corte ha pesato il contesto di crisi economico-finanziaria del Paese, di cui è prova la Legge n. 190/2014, rubricata “Legge di Stabilità 2015, che, modificando l’assetto della devastante legge Delrio, ha sottratto ingenti risorse economiche alle province – risorse essenziali per il funzionamento degli enti intermedi e l’espletamento delle proprie attività, una tra tutte la manutenzione degli edifici scolastici di secondo grado – attraverso un prelievo forzoso, compromettendo irrimediabilmente la capacità di spesa corrente delle Amministrazioni provinciali e, in molti casi, provocandone il dissesto finanziario.

Come tralasciare, poi, il mancato adempimento da parte delle Regioni in merito al riordino delle funzioni, entro quanto stabilito dalla legge Delrio, ovvero entro settembre 2014? Solo nel 2016, le Regioni a statuto ordinario hanno adeguato la propria normativa riguardo al riordino ed alla riallocazione delle funzioni delle province, attuando così le disposizioni della legge del 2014 e quanto concordato in sede di Conferenza Stato-Regioni.

In nome, dunque, della razionalizzazione della spesa pubblica al fine di ridurre i costi degli apparati istituzionali – assecondando, al contempo, le sirene della sterile propaganda anti casta – i governanti italiani hanno pensato bene di cancellare la storia ultracentenaria dell’illustre istituzione provinciale, disarticolando l’ordinamento delle autonomie locali, riallocando le funzioni delle Province alle Regioni, calpestando quel sacrosanto principio giuridico di ‘’sussidiarietà’’ ispiratore della revisione costituzionale del Titolo V, Parte II, della Carta repubblicana, operata con la Legge Cost. n. 3/2001.
 

3. Gli Enti Locali in Sicilia

In Sicilia, poi, l’estro della classe politica regionale ha toccato l’apice: nel 2013, liquidate le autorità provinciali, è iniziata la nuova stagione “commissariale” – provvedimenti commissariali del Presidente della Regione per il rinnovo degli organi degli enti di area vasta – che dopo varie proroghe è ancora in atto. Dal 2012, infatti, non si svolgono elezioni per il rinnovo degli organi dei nuovi enti.

La Legge regionale n. 15/2015 ha ridisegnato l’assetto istituzionale della Sicilia attraverso l’istituzione dei Liberi Consorzi comunali di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani, e delle Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina. La norma disciplina l’organizzazione e le funzioni dei nuovi enti e ne stabilisce le disposizioni sul personale. L’articolo 1, comma 145, della Legge n. 56/2014 imponeva, infatti, alle Regioni a statuto speciale di adeguare i rispettivi statuti alla nuova normativa.

Sul versante legislativo regionale, varie le iniziative di riforma degli enti intermedi regionali, tutte impugnate – nemmeno a dirlo – dal Governo nazionale: l’A.R.S.  (Assemblea Regionale Siciliana) non ha affatto brillato, ed è stata “rimandata” (a settembre?).

A tal proposito, con la Sentenza n. 168/2018, la Corte – fugando ogni dubbio interpretativo – ha chiarito la natura della normativa introdotta dal legislatore da rinvenire nei “principi di grande riforma economica e sociale”, anche in relazione alla scelta della elezione indiretta degli organi collegiali territoriali, affermando che “…i previsti meccanismi di elezione indiretta degli organi di vertice dei nuovi ‘enti di area vasta’ sono funzionali al perseguito obiettivo di semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, nel quadro della ridisegnata geografia istituzionale e contestualmente rispondono ad un fisiologico fine di risparmio dei costi connessi all’elezione diretta”.

All’applicazione di tali principi, anche le Regioni a statuto speciale non possono sottrarsi. Con la citata sentenza, la Consulta è intervenuta per dichiarare l’illegittimità costituzionale della Legge regionale n. 17/2017 con cui l’A.R.S. ha previsto il suffragio universale diretto per l’elezione del presidente e del consiglio dei liberi consorzi comunali, nonché del sindaco e del consiglio metropolitano, ciò in difformità rispetto alla legge Delrio.

Di recente la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 240/2021, si è pronunciata nel giudizio di legittimità costituzionale – sollevato dalla Corte d’appello di Catania – della normativa regionale siciliana che non prevede elezioni per il sindaco delle città metropolitane – automaticamente coincidente col sindaco del comune capoluogo – differente dal meccanismo di designazione del presidente della provincia, eletto invece dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio di riferimento, dichiarando inammissibile la questione.

I Giudici delle Leggi, inoltre, auspicano, in merito alla disciplina di elezione degli organi istituzionali delle città metropolitane, l’introduzione di un “novità di sistema[3], in pratica una disciplina che possa consentire l’elezione diretta del sindaco metropolitano da parte di tutti i cittadini residenti nel territorio metropolitano di riferimento.

Aggiunge la Corte che, trattandosi di una normativa elettorale ex novo, l’ambito ed i contorni di tale intervento spettano “soltanto al legislatore nella sua discrezionale valutazione con specifico riferimento agli aspetti anche di natura politica che connotano la materia elettorale” (principio già affermato con la Sentenza n. 257/2010). Infine la Consulta, tagliando la testa al toro, afferma che “il meccanismo di individuazione del sindaco metropolitano, da un lato, e il sistema di elezione indiretta del presidente della Provincia, dall’altro lato, non possono infatti essere considerati in modo atomistico, come se fossero avulsi dal complesso di previsioni che disciplinano la forma di governo dei due enti di area vasta. Tali previsioni, nel loro insieme, costituiscono il frutto di un apprezzamento eminentemente discrezionale che il legislatore del 2014 ha operato nel presupposto di una generale diversità dei rispettivi assetti organizzativi e nella prospettiva della abolizione delle Province prevista dalla legge di riforma della Costituzione, non entrata in vigore a seguito dell’esito negativo del referendum costituzionale”.

In conclusione, per i giudici costituzionali è evidente come “il sistema attualmente previsto per la designazione del sindaco metropolitano non sia in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale, con riguardo tanto al contenuto essenziale dell’eguaglianza del voto, che «riflette l’eguale dignità di tutti i cittadini e […] concorre, inoltre, a connotare come compiutamente corrispondente alla sovranità popolare l’investitura di chi è direttamente chiamato dal corpo elettorale a rivestire cariche pubbliche rappresentative» (si veda Sentenza n. 429/1995) quanto all’assenza di strumenti idonei a garantire «meccanismi di responsabilità politica e relativo potere di controllo degli elettori locali»” (sul punto, Sentenza n. 168 del 2021).

Anche per la Corte Costituzionale, dunque, si rende necessario ed urgente – a seguito della mancata approvazione del disegno di riforma costituzionale in occasione del referendum del 2016 – un riassetto normativo delle città metropolitane, proprio perché risulta del tutto ingiustificato il diverso trattamento riservato agli elettori residenti nel territorio della città metropolitana rispetto a quello delineato per gli elettori residenti nelle Province, così come previsto dalla disciplina contenuta nella legge Delrio, compromettendo in tal modo sia il godimento del diritto di voto dei cittadini, a cui va riconosciuto l’esercizio del potere di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, sia la necessaria responsabilità politica dei suoi organi.

L’intervento legislativo di modifica della vigente normativa garantirebbe, inoltre, migliori livelli di efficienza, efficacia e buon andamento, nelle attività volte alla cura degli interessi delle comunità locali di riferimento, sulla base del principio di sussidiarietà. 

Una vera e propria messa in mora per la classe politica regionale! Ovviamente l’emergenza sanitaria pandemica – ancora in corso – ha messo tutto in secondo piano, ma in Sicilia l’abitudine di «nascondere la polvere sotto il tappeto» è atavica. E forse non soltanto in Sicilia!

È del tutto evidente che la gestione della pandemia ha messo a dura prova il rapporto tra lo Stato e le Regioni, a volte anche in aperto contrasto circa l’organizzazione della sanità pubblica.

In questi mesi di incertezza e confusione mi sono posto una domanda – provocatoria ma non tanto. Perché non abolire le regioni? Magari attuando quel progetto di riordino territoriale elaborato nel 2013 dalla Società Geografica Italiana, basato sull’eliminazione delle 20 Regioni italiane e delle 110 Province e sulla creazione di 36 “piattaforme territoriali” o ‘’macro-province’’ – in realtà, la S.G.I. parla di ‘Dipartimenti’ – riconoscendo ai nuovi enti ulteriori livelli di autonomia sia amministrativa che finanziaria o impositiva.[4]

È notizia di questi giorni la presentazione all’A.R.S. di un d.d.l. – a firma di due deputati di Forza Italia – di modifica della disciplina di elezione degli organi delle città metropolitane e dei liberi consorzi comunali, con l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco metropolitano, del presidente del libero consorzio e dei rispettivi consigli. Perché non si può non ricordare che in materia di “regime degli enti locali e delle relative circoscrizioni” l’A.R.S., ai sensi dell’articolo 14 dello Statuto speciale – approvato con R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455 convertito dall’Assemblea Costituente in Legge Cost. n. 2/1948 – ha competenza legislativa esclusiva.

Scriveva Carlo Levi, nel 1940, «la crisi è risolta in ogni uomo che riconosce e vive l’autonomia. ‘Autonomia’ è il senso dell’uomo (come luogo di tutti i rapporti.[5]

 

[1] Sul punto, si veda: ASTUTO G., L’amministrazione italiana. Dal centralismo napoleonico al federalismo amministrativo, Carocci, 2009; AIMO P., Stato e poteri locali in Italia dal 1848 a oggi, Carocci, 2010.

[2] Sul punto, si veda: PIZZETTI F., Città metropolitane e nuove province. La riforma e la sua attuazione, in «Astrid», n. 206, 2014; oppure PIZZETTI F., La riforma degli enti territoriali, città metropolitane, province e unioni di comuni, Giuffrè, 2015.

[3] Sul punto si vedano le Sentenze della Corte Costituzionale n. 146 e n. 103 del 2021; n. 250 del 2018; n. 250 del 2012.

[4] Fonte: Report annuale della Società Geografica Italiana, Il riordino territoriale dello Stato, Roma, 2013.

[5] RAGGHIANTI C. L., Carlo Levi, 1940, in AA.VV., Meridiana 53: Carlo Levi. Riletture, Viella, 2005.