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Sui musei al tempo del Covid-19

Dettagli i visitazione, 1588, scuola grande di san rocco, Tintoretto, Venezia
Dettagli i visitazione, 1588, scuola grande di san rocco, Tintoretto, Venezia

«Andrà tutto bene!» è stato lo slogan in voga durante i mesi di lockdown a seguito dell’emergenza sanitaria epidemiologica da Covid-19. Sappiamo in effetti come è andata, non proprio tutto per il meglio, e le conseguenze della pandemia in termini economici e sociali sono in fieri, quindi ancora tutte da valutare nel lungo periodo.

Se c’è un settore in sofferenza, forse più di tanti altri, è quello della Cultura ed in particolare quello delle istituzioni museali: secondo il “Codice etico per i musei”[i], elaborato dall’International Council of Museums[ii], i musei, in quanto servizio alla comunità ed in generale a tutta la società, sono responsabili del patrimonio culturale, sia materiale che immateriale, che tengono in custodia, garantendone la conservazione e la valorizzazione; le collezioni da essi costudite sono ad esclusivo godimento di tutta la collettività poiché, aggiungiamo noi, strumento di crescita culturale e di sviluppo socioeconomico.

Per invertire il trend, decisamente negativo per gli effetti imprevedibili della recente pandemia, e far rifiatare l’intero settore, si ripropone una pratica già utilizzata agli inizi del terzo millennio, soprattutto negli Stati Uniti, ovvero il disinvestimento di pezzi in collezione, allora al fine dell’acquisto di nuove opere, oggi invece con ben altre finalità, ossia quelle di garantire liquidità, da un lato sanando i bilanci dei musei e, dall’altro, salvaguardando il proprio personale.

Contro tale pratica – il termine usato per la dismissione di opere delle collezioni museali è “deaccessioning[iii] – nel 2010 si era già pronunciata l’Associazione dei direttori dei musei d’arte[iv] (A.A.M.D.), in quanto in contrasto con i principi sanciti nel Codice sopra menzionato.

Tra il 2018 ed il 2019, però, si rilevano nuove iniziative nella pratica in argomento, ammessa solo per investimenti in nuove opere d’arte o miglioramenti strutturali: in Massachusetts, ad opera del Berkshire Museum (suscitando aspre polemiche per aver deciso di fare cassa con la vendita di diverse opere di grandi artisti come Thomas Moran, Norman Rockwell ed altri), al MoMA di New York – che ha deciso di dismettere un’opera di Ernst L. Kirchner, datata 1906, per finanziare opere straordinarie di manutenzione – al Guggenheim, sempre di New York, ed al San Francisco Museum of Modern Art, che ha messo all’asta un olio su tela di Mark Rothko, datato 1960; ancora, il Baltimore Museum of Art ha dismesso, tra gli altri, un’opera di Andy Warhol, datata 1978, messa all’asta da Sotheby’s. Di recente, l’Everson Museum di Syracuse ha messo in vendita – all’asta da Christie’s – un’opera di Jackson Pollock, datata 1946.

La pandemia da Covid-19 ha capovolto il mondo, determinando tra l’altro un mutamento di indirizzo da parte della influente A.A.M.D.[v], e riproponendo l’utilizzo della pratica di “deaccessioning” nei musei – costretti ad una lunga improduttiva chiusura – al fine di salvaguardare i propri livelli occupazionali e di sanare, altresì, i propri bilanci.

A differenza del sistema museale nordamericano, quello italiano è essenzialmente pubblico, contraddistinto da un quadro normativo fortemente garantista, per il quale l’ipotesi di dismettere parti del patrimonio di interesse storico-artistico al fine di ricavarne un utile economico si va affermando solamente tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e gli anni Duemila del nuovo secolo.

Nella fattispecie, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio – approvato con Decreto legislativo 22 gennaio 2004. n. 42, e più volte oggetto di vari interventi di “manutenzione legislativa”, prima col Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156, poi col D. Lgs. 26 marzo 2008, n. 62 – al Capo IV “Circolazione in ambito nazionale” del Titolo I “Tutela” della Parte II “Beni culturali”, disciplina il regime giuridico dei beni appartenenti al demanio culturale – dopo averne specificato le peculiarità, in combinato disposto con l’art. 822 del codice civile (articolo 53) – prevedendo per alcune categorie di beni la inalienabilità (articolo 54) e per altre la possibile alienazione, introducendo un regime di “alienabilità controllata”, ovvero soggetta ad autorizzazione ministeriale, con il coinvolgimento a livello locale della competente soprintendenza, subordinandone il rilascio ad una coerente e congrua destinazione d’uso – compatibile quindi con il carattere storico e artistico proprio del bene – onde evitare pregiudizio alle misure di conservazione ed alla fruizione pubblica del medesimo bene.

Nel caso sia rilasciata l’autorizzazione, l’atto di alienazione comporta la sdemanializzazione del bene, ovvero la fuoriuscita del bene dal regime giuridico speciale del demanio culturale (articolo 55). Ciò che rileva, dunque, ai fini del rilascio della apposita autorizzazione sono la destinazione proposta e lo stato di conservazione del bene. La disciplina prevede, inoltre, a maggior tutela del bene, la cosiddetta “clausola risolutiva”, ovvero la risoluzione di diritto dell’atto di alienazione ogni qualvolta si verifichi l’inadempimento da parte dell’acquirente (articolo 55-bis). Tra le tipologie di alienazioni previste – soggette al regime autorizzatorio – sono comprese sia la vendita, anche parziale, di collezioni o serie di oggetti d’arte e di raccolte librarie, sia gli archivi o singoli documenti (articolo 56).

Riguardo i beni di appartenenza privata, la normativa di riferimento prevede la cosiddetta “prelazione artistica” (articolo 60). L’origine dell’istituto giuridico risale alla prassi legislativa dell’antico Stato Pontificio, in particolare al cosiddetto “Editto Pacca[vi], del 7 aprile 1820, emanato durante il pontificato di Papa Pio VII[vii], per iniziativa del Cardinale Camerlengo Bartolomeo Pacca. Il provvedimento – innovativo nel suo impianto, connotandosi per l’impostazione decisamente protezionistica – istituisce forme di censimento del patrimonio storico-artistico pontificio, superando la precedente elencazione delle cose artistiche oggetto di tutela, sostituita da una dettagliata catalogazione delle opere censite sia nelle dimore private che negli edifici pubblici, e introducendo altri elementi di assoluto rilievo, tra cui – oltre alla disciplina degli scavi archeologici, sottoposti a licenza – il “diritto di prelazione” da parte dello Stato.

Dopo l’accertamento – attraverso il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, ai sensi dell’articolo 13 – della effettiva sussistenza di quell’interesse culturale elemento imprescindibile al fine di sottoporre alle disposizioni di tutela il bene di proprietà privata, nei casi in cui il proprietario, possessore o detentore di un bene voglia procedere alla vendita di suddetto bene, il Codice prevede, all’articolo 60, l’acquisto del bene da parte del MiBACT, della Regione o di altri enti pubblici territoriali, direttamente interessati, mediante l’esercizio del diritto di prelazione, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione[viii].

Tale diritto va esercitato entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia di trasferimento (normata all’articolo 59); in tutti i casi in cui nella denuncia vi siano omissione, presentazione tardiva o documentazione carente, il termine per l’esercizio della prelazione è di centottanta giorni, a far data dalla ricezione della stessa da parte del Ministero; in pendenza di tale termine, l’atto di alienazione viene sospeso prevedendo, altresì, il divieto all’alienante di consegnare il bene. Nel rispetto dei suddetti termini, con la notifica all’alienante ed all’acquirente, lo Stato diventa proprietario del bene.

In ambito locale, il procedimento per la prelazione è avviato dal Soprintendente competente territorialmente il quale, dopo aver ricevuto la denuncia di trasferimento, ne dà comunicazione alla Regione ed agli altri enti pubblici territoriali; i predetti enti interessati, entro venti giorni dall’avvenuta denuncia, presentano al Ministero una proposta di prelazione corredata dalla manifestazione di volontà[ix] espressa dall’Ente, tramite deliberazione dell’organo assembleare competente a prevedere nel proprio bilancio la opportuna e necessaria copertura finanziaria della spesa prevista, con l’indicazione di uno specifico progetto di valorizzazione del medesimo bene ai fini culturali. Adottato il provvedimento di prelazione l’Ente, acquisito al proprio patrimonio il bene, notifica l’atto all’alienante ed all’acquirente entro e non oltre i sessanta giorni dalla denuncia.[x]

Esposto sinteticamente il quadro normativo vigente, è del tutto evidente che il nostro ordinamento, oltremodo garantista, mette al riparo l’ingente patrimonio storico-artistico e architettonico italiano da possibili dispersioni, fugando eventuali tentativi di svendita di pregiate opere d’arte delle collezioni permanenti statali in nome del salvataggio finanziario del museo.

Al di là delle possibili ripercussioni negative nel mercato dell’arte, l’orientamento post pandemico adottato dall’AAMD riguardo l’allentamento seppur provvisorio delle norme del già citato Codice etico – autorizzando quindi il deaccessioning –, non garantisce affatto che con poche dismissioni – con quale criterio poi decidere le opere da vendere? – si possano sanare i bilanci di musei fortemente indebitati.

Il rischio è che la cura scelta – il deaccessioning, ovvero la (s)vendita delle opere delle collezioni permanenti – per il malato, ossia il museo, sia peggiore, e non risolutiva, della malattia!

 

[i] Elaborato e adottato durante la XV Assemblea Generale dell’ICOM, svoltasi in Argentina, a Buenos Aires nel 1986; in seguito modificato, prima nel 2001 durante la XX Assemblea Generale, tenutasi in Spagna, a Barcellona, e poi nel 2004 durante la XXI Assemblea Generale di Seul (Corea del Sud). Esso è uno strumento deontologico sugli standard minimi riguardante sia la pratica che la condotta per il personale di tutta la comunità internazionale museale.

[ii] L’ICOM è un’organizzazione internazionale non governativa di cooperazione tra le istituzioni ed i professionisti museali creata nel 1946, durante la Prima Conferenza Generale dell’UNESCO, tenutasi a Parigi dal 16 al 20 novembre, per iniziativa di 14 nazioni: Australia, Belgio, Brasile, Canada, Danimarca, Stati Uniti di America, Francia, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Cecoslovacchia. In seno al Consiglio Economico e Sociale dell’ONU, esso riveste il ruolo di organismo consultivo. Il 17 maggio 1947 è istituito il Comitato Nazionale italiano di ICOM, per iniziativa del democristiano Guido Gonella, Ministro della Pubblica Istruzione nel III Governo Da Gasperi, nominando a capo dello stesso l’archeologo e storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, protagonista della tutela del patrimonio culturale, nonché Direttore Generale per le Antichità e le Belle Arti del Ministero. Del Comitato fecero anche parte altri eminenti figure di studiosi ed addetti ai lavori, da Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi, dall’ingegnere Guido Ucelli di Nemi all’architetto e teorico del restauro Guglielmo De Angelis d’Ossat.

[iii] Tale fenomeno è regolato nelle linee guida dell’American Alliance of Museums e dell’Association of Art Museum Director, secondo cui i fondi ricavati da un’attività di deaccessioning devono essere destinati a nuovi acquisizioni e ad opere di manutenzione.

[iv] L’Associazione fu fondata il 6 luglio 1916 da un gruppo di direttori di musei d’arte – fra cui Harold Brown, Cornelia Sage, Joseph Breck e NH Carpenter, eletto come primo presidente, Clyde Burroughs – riunitisi presso l’Art Institute di Chicago, con l’obiettivo della cooperazione nell’amministrazione museale, promuovendo comuni standard professionali. Non si trascuri che il sistema museale statunitense nasce a tutela e valorizzazione di collezioni private, e privata ne è la gestione. Ad oggi comprende 220 direttori di musei d’arte di Stati Uniti, Canada e Messico.

[v] Secondo le nuove linee guida impartite al sistema museale nordamericano, non sono previste sanzioni nel caso dell’utilizzo di fondi e donazioni vincolate per affrontare spese operative di carattere generale; inoltre, è possibile l’utilizzo di fondi ricavati dalla vendita di opere d’arte per coprire le spese di manutenzione delle proprie collezioni permanenti.

[vi] Il relativo Regolamento di attuazione è del 6 agosto 1821.

[vii] Il pontificato di Pio VII, nato Barnaba Niccolò Chiaramonti (1742-1823), è uno dei più lunghi della millenaria storia della Stato della Chiesa; egli rimane in carica dal 14 marzo 1800 al 20 agosto 1823, data della sua dipartita.

[viii] Sulla natura del diritto di prelazione, vedasi Corte Costituzionale, sentenza n. 269/1995: secondo i Giudici delle leggi, la prelazione si collega “ad una iniziativa – trasferimento a titolo oneroso – non attivata dalla parte pubblica, bensì dalla parte privata, titolare del bene” configurandosi pertanto “come istituto in cui prevale, sul profilo negoziale, il profilo autoritativo”; proseguendo, “lo ius praelationis dello Stato e degli altri enti pubblici conserva un carattere autoritativo, implicante una totale autonomia rispetto alle vicende patologiche del negozio sotteso”; oppure Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 4337/2014: nello specifico, “il negozio traslativo dei privati è solo il presupposto dell’esercizio del diritto di prelazione da parte della P.A. che, intervenuta nel rapporto contrattuale non subentra nella posizione dell’acquirente, ma avoca a sé il bene con un atto di esercizio dello ius praelationis, implicante il trasferimento della proprietà in capo alla P.A. medesima e l’obbligo di corresponsione del prezzo

[ix] Vedasi Cassazione Civile, sentenza 3 maggio 2010, n. 10619, con cui le Sezioni unite sottolineano come alla base della decisione della Pubblica Amministrazione di acquisire, mediante l’esercizio della prelazione, beni di interesse storico ed artistico vi sia “l’esito di una valutazione altamente discrezionale”.

[x] Sulla prevista tempistica delle disposizioni codicistiche, vedasi Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 713/2008.

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