Chi più vince meno guadagna
La situazione che stiamo vivendo catalizza molti dei nostri pensieri e delle nostre attenzioni. Argomenti più leggeri o meno rilevanti oggi possono risultare meno interessanti, ma ho notato come ci siano analogie col mondo del quale mi occupo da tempo e con quanto sta accadendo in alcune situazioni che viviamo oggi.
Vorrei proporvene una.
Nel mondo che ruota attorno alle startup esistono una grande quantità di premi che vengono assegnati alle startup più meritevoli, in vari ambiti, geografici, settoriali o su iniziative private, con lo scopo di dare un po’ di risorse alle startup e di dare loro visibilità, oltre a quello ovvio e del tutto legittimo di creare visibilità per gli organizzatori.
Ne esistono a livello locale, nazionale e internazionale e presentano tutti alcuni elementi specifici.
L’organizzatore fa una call (una sorta di invito a candidarsi) o seleziona da una lista di nomi raccolti nell’ecosistema accomunati in entrambi casi da una connessione col tema del premio (la migliore startup Fintech italiana…).
Viene nominata una giuria di esperti che è chiamata a valutare i progetti attraverso alcune fasi preliminari di selezione, di solito sulla carta, e poi si organizza un evento pubblico dove le startup finaliste presentano al pubblico ed alla giuria e i vincitori vengono premiati con un assegno maxi (di solito nelle dimensioni fisiche più che economiche).
Per gli investitori questi premi danno un segnale importante che di solito è : “se hai una startup e perdi il tuo tempo a concorrere ai premi, vuol dire che non ti dedichi a sufficienza a sviluppare il tuo business”. Un po’ tranchant, ma di fatto per molti investitori le medaglie esibite da alcune startup che vincono i premi appaiono come medaglie di demerito. Una sorta di “chi più vince e meno guadagna”.
Ma perché gli investitori la pensano così?
Perché un premio per startup è più uno show che altro e segue le specifiche regole di questi show. La giuria deve essere composta da molte persone, con i ruoli e background più disparati, ma la numerosità deriva dal fatto che coinvolgere più partner diversi aumenta la visibilità e la risonanza dell’evento che si vuole poi creare.
La competenza in materia non è di solito richiesta ed infatti si finisce quasi sempre per premiare “un’idea carina” e non la possibilità che questa startup abbia successo, che come ho già avuto modo di dire dipende da molti altri fattori. Ma il successo e non le idee carine fanno felici gli investitori e lo slogan giusto in questo caso diventa: “Chi più (e meglio) lavora, più guadagna”.
Passando ora all’analogia, mi viene in mente quanto è successo e sta succedendo con la selezione della famosa app per il tracciamento dei contagi.
È stata indetta una call, alla quale hanno risposto in molti (al 25 marzo le proposte presentate erano 770, poi si è perso il conto…).
È stata nominata una commissione di “esperti”, una specie di giuria, composta da ben 74 persone, con competenze, ruoli ed estrazioni molto vari (alcuni sicuramente molto competenti in materia, ma altri molto meno).
C’è stato un processo decisionale piuttosto lungo (vista l’emergenza) e piuttosto grigio, perché poco è stato detto sui criteri di scelta (almeno in molti premi vengono esplicitati in anticipo ai concorrenti).
Per evidenti ragioni legate al momento si è dovuto soprassedere con l’evento finale, ma non sono mancati i titoloni sui giornali all’annuncio del prescelto, del vincitore.
L’assegno in questo caso non c’è o almeno non è pubblico, ma è comunque irrilevante ai fini dell’analogia.
Poi, notizie degli ultimi giorni, gli “investitori” hanno iniziato a nicchiare e pare non siano d’accordo con le scelte della giuria, come nel caso dei premi. Perché non sono stati presi in esame, a giudizio di molti di loro, gli elementi più importanti, quindi pare che al premio vinto non seguiranno gli onori del mercato.
Sempre restando nella metafora in questo caso gli “investitori” sono coloro che devono favorire, sponsorizzare o imporre l’adozione dello strumento, cioè il Governo e le altre forze politiche di maggioranza e di opposizione. Sono coloro che in questo caso possono supportare il successo sul “mercato”, ma, diversamente da quanto succede negli altri casi, qui hanno anche un forte potere di indirizzare e influenzare il “mercato”.
Ma gli investitori non hanno la verità infusa e spesso si sbagliano; è sempre il mercato che decide e quindi è legittimo chiedersi se questa volta chi ha vinto il premio avrà successo o veramente finirà come la maggior parte delle startup premiate.
Qui occorre però definire meglio cosa significa in questo caso successo. Il successo non è il favore del pubblico pro o contro l’app, ma la possibilità di ridurre i rischi di contagio e salvare le nostre vite. E qui entra in ballo un elemento che complica enormemente il contest per l’app ideale: la privacy. Uno dei requisiti indicati come necessari nella call era il rispetto della privacy e su questo si stanno sollevando ora le polemiche più feroci. Pensiamoci bene però, quanto la tutela della nostra privacy è fondamentale per quello che ho definito successo?
Da anni ormai i governi tracciano le nostre comunicazioni di tutti i tipi con la finalità di combattere il terrorismo; Google, Facebook, Amazon, Netflix, Booking, Tripadvisor, le società che emettono carte di credito e innumerevoli altri hanno una valanga di dati su tutto ciò che facciamo nella nostra vita, come ci muoviamo, chi incontriamo, con chi litighiamo e con chi andiamo d’accordo, per chi abbiamo votato e per chi abbiamo intenzione di votare alle prossime elezioni.
C’è qualcuno che crede che sia difficile incrociare questi dati, che crede che ognuno li tenga per sé (e sarebbero comunque tantissimi dati sensibili), che crede che non sappiano se siamo malati o abbiamo segreti?
In più molti di noi, la maggioranza almeno, hanno dovuto rinunciare, o meglio sono stati privati (a fin di bene senza alcun dubbio), della possibilità di muoversi dalla propria abitazione o almeno a più di 200 metri da essa.
Sì, certo, ci è stata data la possibilità di fare la spesa per non morire di fame, di andare in edicola per non morire di noia, di andare dal tabaccaio per non morire di una “banale influenza” (noto solo incidentalmente come sia invece pericolosissimo passeggiare in un parco).
Siamo cioè stati privati del nostro bene più grande, la nostra libertà personale, della quale la privacy è solo una sottocategoria.
E in una situazione come questa ci dovremmo preoccupare se la app fa sapere a qualcuno se siamo ammalati di Covid?
La app di tracciamento serve a ricostruire i contatti delle persone sospette di avere contratto il virus e segnalare quindi a tutti i loro contatti recenti la possibilità di essere entrati in contatto con un potenziale infetto. La chiave è proprio la parola potenziale perché la straordinarietà di questo virus e la cosa che lo rende micidiale è che ci sono moltissimi asintomatici che diffondono il virus, e potrebbero essere tra quelli semplicemente entrati in contatto con un sospetto infetto. Serve quindi a tutti noi per proteggerci li uni dagli altri per non essere inconsapevoli untori.
Ma se sospetto di essere infetto, dovrei contattare il mio medico, esporgli i sintomi e poi stare in isolamento. E la privacy? Il medico sa chi sono, mi fa ricette elettroniche per i farmaci e tutto viene tracciato.
Perché è un problema così grande imporre alle persone infette di stare in isolamento quando ci siamo tutti da mesi senza esserlo? Perché queste informazioni sono così pericolose in mano allo stato? Forse perché può farsi rubare queste informazioni da terzi malintenzionati? Mi risulta difficile capire cosa ne potrebbe ricavare un terzo malintenzionato, ma se lo stato ammette di non poter essere un custode efficace dei nostri dati Covid, capite che abbiamo un problema molto più grande di privacy.
E comunque Apple e Google si sono subito attivate per fornire (in modo molto ipocrita) una soluzione decentralizzata, dove i dati non sono su un server centrale, ma comunicano solo tramite Bluetooth (in parte, ma non scendiamo troppo in tecnicismi). Il problema di questa soluzione è che funziona solo su base volontaria, sia di registrazione sia di condivisione dei dati, e qui ci risiamo. La campagna mediatica sull’allarme per la privacy renderà inutile ogni tipo di soluzione se non imposta per legge a meno di non riuscire a spiegare a tutti che quello della privacy è un falso problema, cosa ormai impossibile. (Curioso che il Premier non abbia fatto accenno alla app di tracciamento nel suo discorso sulla riapertura).
Mi sembra che anche in questo caso, come nell’analogia con i premi per startup si sia persa di vista la vera natura di quello che si è chiamati a giudicare e i criteri che lo porterebbero ad un vero successo, perché non si è considerato che questo è un gioco diverso dagli altri, un gioco nel quale solo chi vive ci guadagna.