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Startup: non siamo mica gli americani

scorcio
Ph. Cinzia Falcinelli / scorcio

In questo ultimo periodo mi è capitato spesso di leggere articoli che decretano la fine del modello startup o ancor peggio il fallimento del modello startup, come questo articolo recentemente pubblicato sull’Huffington Post.

Non entro troppo nel merito di quanto sostenuto nell’articolo, una risposta puntuale all’autore poco informato della materia l’ha data il mio amico Enrico Pandian, startupper di lungo corso e di successo, in questo suo pezzo pubblicato su LinkedIn.

Vorrei piuttosto soffermarmi su un tema più generale, che si accompagna ad un ripensamento di modello, forse spinto a volte oltre i limiti, che sta avvenendo negli USA, e all’interpretazione che si tende a darne nel nostro paese.

Fare startup, più che una moda, è un modo nuovo di innovare, o meglio il miglior modo di innovare fino ad ora sperimentato dalle economie di tutto il mondo nel corso di tutta la loro storia.

Prima di questo, l’innovazione era delegata a grandi strutture, aziendali o governative, che prima di tutto allocavano un consistente budget per sviluppare un’idea che era stata approvata da un manipolo di manager. Questo ha portato a notevoli innovazioni ma ad una massa molto più grande di fallimenti e di denaro sprecato. Sprecato perché le aziende non imparavano quasi mai dai propri errori, ma reiteravano lo stesso sistema a “forza bruta” finché non usciva casualmente qualcosa di significativo.

Poi le startup hanno insegnato a tutti, aziende comprese, grazie soprattutto al lavoro di Steve Blank, Eric Riese ed altri, che un metodo più snello, veloce, di iterazioni successive, volte all’apprendimento rapido del vero soddisfacimento dei bisogni di una mutevole schiera di consumatori garantiva risultati molto più efficienti.

Non garantiva il successo, questo no, ma riduceva di molto il rischio di fallimento e anzi riportava il fallimento al suo ruolo principe, il motore di tutte le scoperte, come gli scienziati sanno da secoli.

Per averne un esempio basta tenere a mente come i due primi vaccini, resi disponibili contro il Covid 19, con una tecnologia mai sperimentata prima, sono stati realizzati da due startup: Moderna e Biontech che si confrontavano con le multinazionali del Pharma (solo uno di centinaia di esempi che potrei fare).

Le strutture organizzativamente snelle delle startup facilitano enormemente questo processo di innovazione basato sull’apprendimento continuo, tanto che le aziende più grandi hanno trovato presto la strada per sfruttare questo potenziale d’innovazione: si comprano le startup quando hanno dimostrato l’efficacia del loro modello di business o la validità del loro prodotto.

Proprio le pharma companies sono un esempio di applicazione di questo modello. Le probabilità che una nuova molecola brevettata si trasformi in un farmaco vendibile sul mercato sono circa di uno su mille. Il processo di validazione scientifica di queste molecole prevede un tempo medio tra i dieci e i dodici anni con ingenti investimenti che portano ad un costo del farmaco arrivato a mercato che supera abbondantemente il miliardo di euro.

Pertanto le grosse pharma preferiscono acquistare (anche per centinaia di milioni) startup che hanno sviluppato candidati farmaci che abbiano superato le fasi preliminari di validazione scientifica, abbattendo così il rischio di non arrivare al mercato e rendendo più efficiente il processo di sviluppo del farmaco. Invece di avere enormi laboratori che sviluppano mille molecole per un farmaco (ma dovrebbero pure brevettarle tutte) entrano in una fase molto più avanzata della lotta evolutiva e investono sui candidati più probabili, avendo così a disposizione una schiera molto più ampia di ricercatori e di brevetti.

La stessa cosa avviene in moltissime altre industrie, anche e soprattutto quelle che non si concentrano sul ridurre il rischio prodotto (come il pharma), ma il rischio mercato.

E questo, si badi bene, non è un male per la nostra economia ed i nostri aspiranti imprenditori. Spesso mi sento dire: “ah, per voi investitori, gli imprenditori dovrebbero avviare un’azienda per poi venderla a qualcun’altro così voi ci fate i soldi, bell’obiettivo per un imprenditore”. Ed è proprio qui che emerge il vero, enorme, gap culturale che divide noi italiani da buona parte del resto del mondo industrializzato ormai; proprio l’idea dell’imprenditore.

Nel nostro paese, campione mondiale di PMI, fare l’imprenditore è coinciso per decenni col “mettersi in proprio” equivalente cioè ad essere indipendenti, non avere “padrone” e non dover rendere conto a nessuno. Non importava e spesso non importa quanto piccola sia l’azienda, basta che guadagni bene (non importa come, a volte) e che mi consenta di vivere una vita nell’illusione del comandare nel mio piuttosto che obbedire ad altri. Ma poi il mercato ci insegna che è lui a comandare e che se gli imprenditori delle nostre PMI non devono rispondere ad un amministratore delegato sopra di loro in linea gerarchica, devono rispondere a quelli dei loro clienti e fornitori, che spesso non li ascoltano nemmeno ed agiscono nel loro proprio interesse schiacciando i più piccoli e la loro voglia di quieto vivere.

Il nuovo imprenditore ha, molto spesso, finalità più alte: vuole incidere, cambiare qualcosa, migliorare un pochettino il mondo nel quale vive. E capisce che non lo può fare da solo, spesso auto condannandosi al nanismo. Quindi sceglie una strada più efficiente per portare la sua innovazione a incidere sul mercato.

È consapevole che non ha, nella maggior parte dei casi, le caratteristiche per sfidare aziende molto più grandi e molto più organizzate e porta quindi il processo d’innovazione fino ad un certo punto di validazione lasciando poi ad altri il compito di diffonderla su un mercato più ampio. Ovviamente lui e chi lo ha supportato in questo, chiedono di avere una parte rilevante del valore che hanno generato e faranno generare in futuro e ciò permetterà, nella maggior parte dei casi virtuosi, a ripetere il processo lato imprenditore e lato investitori, creando un volano d’innovazione formidabile.

Ecco, su questo noi siamo in ritardo di molti anni. E non è un ritardo legato alle risorse finanziarie che dedichiamo a questo ambito. In questo caso solo la qualità chiama i soldi e i soldi pretendono la qualità. Dove c’è scarsa ambizione e visione i soldi non arriveranno mai e dove non ci sono i soldi non restano o vengono gli imprenditori con ambizione, visione e motivazione.

Il problema è quindi culturale e investe tutti noi. Avere l’ambizione di migliorare qualcosa anche di piccolo nel mondo è bene, non è male. Avere oggi a disposizione la più grande democratizzazione del supporto all’innovazione e all’imprenditoria della storia dell’uomo è un bene e non è un male.

Prendere il buono che gli altri hanno fatto e stanno facendo e portarlo ai nostri giovani, ai nostri ricercatori e ai nostri aspiranti imprenditori è un bene, non è un male.

Cercare la via italiana all’innovazione attraverso il metodo startup è una necessità, non un vezzo.

Abbiamo delle peculiarità come Paese, ma non scambiamo le nostre debolezze per i nostri punti di forza, copiamo il meglio dagli altri e diamogli un tocco di fantasia in più.

In fondo non siamo mica gli americani, ma non scordiamoci che prima i giapponesi e poi i cinesi hanno basato le loro fortune sul prima copiare e poi migliorare.