CAPO VII - INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE DEL GIUDICE
Note introduttive
Gli istituti disciplinati dalle norme che precedono concorrono a realizzare il precetto (art. 111 comma 2 Cost.) che esige la terzietà e l’imparzialità come caratteristiche indefettibili del giudice.
Sono illuminanti al riguardo le considerazioni espresse di recente dalla Consulta (Corte costituzionale, sentenza 170/2018), che, pur occasionate da una questione specifica – l’illecito disciplinare derivante dalla partecipazione continuativa all’attività di un partito, assumono senza dubbio una forte valenza generale.
Così si legge testualmente nel comunicato emesso dall’ufficio stampa della Corte: “Non è contraddittorio né lesivo dei diritti politici consentire ai magistrati di partecipare, a certe condizioni, alla vita politica, candidandosi alle elezioni o ottenendo incarichi di natura politica, e al tempo stesso prevedere come illecito disciplinare la loro iscrizione a partiti politici nonché la partecipazione sistematica e continuativa all’attività di partito. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 170 (relatore Nicolò Zanon), dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alla disposizione che prevede l’illecito disciplinare in questione (articolo 3, comma 1, lettera h, del decreto legislativo n. 109 del 2006).
A sollevare la questione era stata la Sezione disciplinare del Csm sostenendo la violazione degli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione. Secondo la Corte, bisogna preservare il significato dei principi costituzionali di indipendenza e imparzialità quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica. L’illecito disciplinare dell’iscrizione o della partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici è un saldo presidio di questi due principi e come tale non può che riguardare ogni magistrato, in qualunque posizione si trovi.
Ciò non significa disconoscere che la rappresentanza politica, nella Costituzione repubblicana, è in linea di principio rappresentanza attraverso i partiti politici. Ma per i magistrati deve rimanere salda la distinzione tra esercizio dell’elettorato passivo e organico schieramento con una delle parti politiche in gioco. Per i magistrati collocati temporaneamente fuori ruolo per l’esercizio di un mandato elettivo o di un incarico politico, ha aggiunto la Corte, è rimesso comunque al prudente apprezzamento della Sezione disciplinare stabilire in concreto se la loro condotta possa legittimamente incontrare la vita di un partito o se costituisca invece illecito disciplinare, meritando un’appropriata sanzione.
Nella sentenza si legge, fra l’altro, che mentre l’iscrizione al partito politico è “fattispecie rivelatrice, come si è detto, di una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico”, il cui “oggettivo disvalore non è suscettibile di attenuazioni”, la valutazione sui requisiti di sistematicità e continuatività della partecipazione del magistrato alla vita di un partito “esclude ogni automatismo sanzionatorio permettendo, al contrario, soluzioni adeguate alle peculiarità dei singoli casi. E se tale rilievo vale, in generale, per tutti i magistrati, vale particolarmente per coloro, tra di essi, che siano collocati in aspettativa per soddisfare i diritti fondamentali garantiti dall’articolo 51 della Costituzione”.
Parole chiarissime che non richiedono alcun commento aggiuntivo.
Al tempo stesso, gli istituti di cui si parla tutelano l’inviolabilità della difesa (art. 24 comma 2 Cost.) la cui effettività sarebbe gravemente compromessa se il giudizio fosse affidato a persone fisiche prive di quelle caratteristiche.
Il legislatore protegge questi valori essenziali anzitutto attraverso la previsione di una serie di condizioni che rendono un giudice incompatibile rispetto a un giudizio, privandolo della legittimazione a compiervi uno qualsiasi degli atti tipici della funzione giurisdizionale.
La prima e più consistente tipologia di cause di incompatibilità dipende dal compimento di atti rilevanti in una fase o in un grado pregressi del medesimo giudizio (art. 34), sull’ovvio presupposto che il giudice che ha compiuto atti decisori o comunque espressivi di un convincimento sulla fondatezza dell’ipotesi d’accusa è per definizione inadatto ad esercitare le sue funzioni in fasi o gradi successivi. Il legislatore si fonda in questo caso sulla più che ragionevole presunzione che quel giudice non assicurerebbe l’indispensabile “verginità cognitiva” e ben difficilmente sarebbe disposto a cambiare opinione riguardo al medesimo oggetto processuale sul quale si è già pronunciato.
La seconda tipologia (art. 35) è legata a condizioni di particolare vicinanza familiare tra giudici.
Si impedisce per suo tramite che persone fisiche in rapporto di parentela, affinità o coniugio concorrano a determinare l’esito finale di un giudizio, così allontanando il sospetto che provvedimenti decisori o comunque rilevanti per le sorti delle parti processuali siano stati adottati non per libera e autonoma convinzione ma sotto l’influsso di legami personali che invece devono stare fuori del processo.
La portata e le conseguenze dell’incompatibilità sono amplificate dall’istituto dell’astensione (art. 36).
Essa è concepita come un obbligo del giudice, di latitudine ben più estesa rispetto all’incompatibilità.
Se infatti quest’ultima si concentra in particolar modo sugli eventi della vita professionale del giudice, la prima è invece tarata per la maggior parte sulla sua vita privata e sulle situazioni che ne possono derivare allorché siano in grado di influire negativamente sulla terzietà ed imparzialità del giudice stesso.
Anche per questo versante, il legislatore ha seguito la via dell’elencazione tassativa e questa metodica è senz’altro apprezzabile.
La legittimazione del giudice non può venir meno se non in base a ragioni precise, concrete, serie e verificabili. Ogni regolamentazione alternativa fondata su cause vaghe e sfuggenti finirebbe per propiziare risultati esattamente contrari a quelli voluti, rendendo cioè possibile che a un giudice venga impedito di esercitare la sua funzione per motivi che nulla hanno a che fare con la sua effettiva indipendenza.
Il legislatore ha voluto tuttavia inserire una clausola di salvaguardia che connette l’obbligo di astensione all’esistenza di “altre gravi ragioni di convenienza”, con ciò riconoscendo l’impossibilità di prevedere ed esplicitare ogni ragione apprezzabile per costringere un giudice a rinunciare al giudizio e, al tempo stesso, la necessità di non lasciare senza rimedi situazioni che potrebbero essere fonte di iniquità processuale.
La disciplina complessiva è completata dalla ricusazione (art. 37).
La tutela del principio dell’imparzialità della giurisdizione sarebbe assai fragile se il riconoscimento dell’inidoneità al giudizio di un giudice fosse possibile solo in virtù dell’iniziativa spontanea dell’interessato.
Potrebbe infatti accadere che costui non percepisca in buona fede o comunque sottovaluti l’esistenza di una ragione di astensione ma potrebbe accadere anche di peggio, che cioè, pur percependola, non intenda trarne le conseguenze di legge.
Il legislatore affida quindi alle parti uno strumento che gli consente di provocare la presa d’atto di quella ragione e la produzione dei relativi effetti.
Il raggio d’azione della ricusazione non è identico a quello dell’astensione.
Le parti non sono infatti legittimate a far valere le ragioni innominate di convenienza di cui è detto più sopra e questa limitazione ha un chiaro retroterra nel timore che possano intendere in modo improprio questa espressione e servirsene sulla base di presupposti strumentali, al solo fine di creare un indebito discredito al destinatario.
Sono invece legittimate alla ricusazione per il caso in cui un giudice, nell’esercizio delle sue funzioni e prima di pronunciare sentenza, manifesti indebitamente il suo convincimento. Si tornerà sul punto ma fin d’ora si può anticipare che questa previsione protegge il giudizio in una duplice prospettiva: assicurando che il suo responsabile determini il suo esito su basi oggettive e corrispondenti ai risultati conoscitivi acquisiti; allontanando il sospetto che il giudizio da strumento di accertamento della verità si trasformi nell’occasione per l’imposizione di punti di vista soggettivi e pregiudiziali.