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Art. 630 - Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (1) (2)

1. Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni.

2. Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta.

3. Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell’ergastolo.

4. Al concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall’articolo 605. Se tuttavia il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni.

5. Nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previsto dal comma precedente, per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo a due terzi.

6. Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni.

7. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell’ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell’ipotesi prevista dal terzo comma.

8. I limiti di pena preveduti nel comma precedente possono essere superati allorché ricorrono le circostanze attenuanti di cui al quinto comma del presente articolo.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 68/2012, ha dichiarato l’illegittimità del presente articolo, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

(2) Articolo così sostituito dall’articolo unico, L. 894/1980.

Rassegna di giurisprudenza

E' costituzionalmente illegittimo l’art. 58-quater, comma 4 Ord. Penit. nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630 che abbiano cagionato la morte del sequestrato nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 289-bis che abbiano cagionato la morte del sequestrato (Corte costituzionale, 229/2019).

I reati consumati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione sono esclusi dall’area di applicabilità della previsione dell’art. 649, pur se posti in essere senza violenza alle persone, bensì con la sola minaccia (Sez. 6, 26619/2018).

I reati consumati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione restano esclusi dall’area di applicabilità della previsione dell’art. 649, pur se posti in essere senza violenza alle persone, bensì con la sola minaccia (Sez. 2, 28141/2010).

Ed in tale pronuncia, con affermazione condivisibile, è stato precisato che non si è mai messo in discussione che, nelle ipotesi di delitto consumato di cui agli artt. 628 - 629 - 630, la causa di non punibilità non opera sempre e comunque sia che il reato sia stato commesso con violenza o con minaccia, proprio perché la testuale locuzione limitatrice “commesso con violenza alle persone” si riferisce unicamente ad “ogni altro delitto contro il patrimonio”: e cioè ad ogni delitto contro il patrimonio ulteriore e diverso rispetto a quelli espressamente e nominativamente indicati (artt. 628, 629, 630), dei quali dunque, pur se commessi in danno di prossimi congiunti, permane punibilità e perseguibilità d’ufficio ancorché connotati dal ricorso alla minaccia e non anche dalla violenza alle persona (Sez. 2, 55153/2018).

La fattispecie astratta dell’art. 630, nella attuale formulazione, è frutto di una serie di interventi legislativi nel corso degli anni ‘70 del secolo scorso, volti, in funzione di esigenze repressive ritenute indilazionabili, da una parte, ad aggravare la risposta sanzionatoria e, dall’altra, a favorire condotte di desistenza ovvero di recesso attivo. È significativo di tale percorso il fatto che, permanendo l’identità del fatto tipico, nella originaria formulazione la sanzione edittale prevista era della reclusione da otto a quindici anni, mentre in quella attuale, modificata per effetto della con L. 894/1980, è della reclusione da 25 a 30 anni. La Corte costituzionale, con la sentenza 68/2012, ha tuttavia rilevato che, in realtà, la fattispecie tipica non concerne, necessariamente, fatti espressione di criminalità organizzata e di grave allarme sociale  come quelli che avevano determinato il legislatore degli anni ‘70 a triplicare il minimo edittale , ma può essere realizzata, in base a dati di comunque esperienza, anche da fatti estemporanei, senza una significativa predisposizione di uomini o mezzi, ovvero con limitata, a poche ore, restrizione della libertà personale o con profitto patrimoniale di entità contenuta. E proprio tale rilievo ha portato a riconoscere la irragionevolezza del trattamento sanzionatorio stabilito dalla norma incriminatrice, laddove non prevedeva, come invece nell’art. 311 per la “parallela” fattispecie di cui all’art. 289-bis  pure introdotta, con L. 191/1978, a contrasto di manifestazioni criminali di straordinario allarme sociale  una speciale attenuante correlata alla lieve entità del fatto. Il riconoscimento dell’attenuante in parola determina, quindi, non soltanto, ai sensi dell’art. 65, la diminuzione della pena fino a un terzo, spostando la “forbice” edittale a quella della reclusione da anni sedici e mesi otto ad anni venti, ma, in concreto, una caduta di effettività della presunzione che il fatto-reato realizzato costituisca espressione tipica di una criminalità connotata da livelli di pericolosità particolarmente elevati, collegabile a una struttura e a una organizzazione criminale resistente alla rescissione dei vincoli che legano il singolo al gruppo. D’altronde, chiamata a scrutinare l’art. 275, nella parte in cui vincola il giudice della cautela a disporre la custodia in carcere nel caso di gravi indizi di colpevolezza per il reato di cui all’art. 630 uniti ad esigenze cautelari, la Corte costituzionale, con la sentenza 213/2013, l’ha ritenuto costituzionalmente illegittimo sul rilievo, appunto, della grande diversità dei fenomeni criminali annoverati nella fattispecie. In particolare, è stato osservato che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere trova giustificazione razionale solo in presenza di delitti, quali quelli di mafia, connotati dalla adesione a un sodalizio «fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice». Mentre la fenomenologia criminale del sequestro di persona a scopo di estorsione, si manifesta in fatti di ben diverso allarme sociale, che vanno dai sequestri di lunga durata, con condizioni assai penose di restrizione e ingenti richieste di riscatto  necessaria espressione di una organizzazione criminale ampia, strutturata e con radicato consenso sociale , ai sequestri di breve durata, anche finalizzati alla esazione di un credito fondato su prestazione illecita, espressione di una occasionalità di azione e di una organizzazione rudimentale e approssimativa. E se deve ammettersi che il delitto di cui all’art. 630 non richiede necessariamente l’esistenza di una stabile organizzazione criminale, ma può essere realizzato anche con condotte estemporanee, di limitato impatto sia nei confronti del bene-libertà personale sia in relazione al patrimonio della vittima, a maggior ragione dovrebbe escludersi la presunzione di un siffatto collegamento nel caso in cui all’agente venga riconosciuta l’attenuante della lieve entità del fatto. In conclusione, quando, come nel caso in esame, il condannato ha in corso espiazione di pena inflitta per un fatto che, pur qualificato ai sensi dell’art. 630 cod. pen., è stato riconosciuto di lieve entità, la presunzione (praticamente assoluta) che lo stesso costituisca espressione di criminalità esercitata in forma organizzata, o comunque particolarmente pervasiva, che giustifica il regime di esclusione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione, non sembra avere fondamento ragionevole. Non può, pertanto, ritenersi manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della disciplina recata dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., nella parte in cui comprende nel novero dei reati così detti ostativi di prima fascia anche la fattispecie di cui all’art. 630 pur attenuata per la lieve entità del fatto, giacché tale esclusione riposa su una presunzione di elevatissima pericolosità, collegabile a contesti di criminalità organizzata, che non risponde, per la fattispecie in esame, a dati di esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit. Sicché il divieto istituito per tale fattispecie, in relazione alla quale appare “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione che lo giustifica, parrebbe irragionevolmente limitare il diritto del condannato ad accedere ai benefici penitenziari, a prescindere da ogni valutazione in concreto, e caso per caso, sul percorso di emenda intrapreso, e ingiustificatamente incidere, quindi, sulla finalità rieducativa della pena e sul principio di individualizzazione della stessa, che impongono  salva la ragionevolezza della presunzione legale di pericolosità  valutazioni commisurate alle condizioni e ai segnali di cambiamento del singolo individuo. Consegue alle argomentazioni sin qui svolte, che deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 9 Ord. pen. nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi, ivi indicati, il reato di cui all’art. 630, ove per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale 68/2012 (Sez. 1, 51877/2018).

Le Sezioni unite (SU, 962/2004) e la successiva giurisprudenza di legittimità hanno chiarito il tratto costitutivo e fondante del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, che è integrato dalla mercificazione della persona umana che viene strumentalizzata, in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell’agente: la persona umana, è, in altre parole, resa essa stessa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè, appunto, il prezzo della liberazione. La ricostruzione ermeneutica delle Sezioni unite muove dal rilievo della natura plurioffensiva del reato di cui all’art. 630, in cui l’elemento oggettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire il prezzo della liberazione ed ha definitivamente superato l’obiezione – posta a fondamento di una risalente decisione di legittimità – secondo la quale essendo il sequestro ricollegabile ad una causa preesistente, non era ravvisabile il reato di cui all’art. 630, per difetto del dolo specifico. Al riguardo, si è  evidenziato che prezzo e liberazione costituiscono i due poli di uno specifico sinallagma e che se il conseguimento del corrispettivo può essere volto a conseguire anche il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso, il profitto perseguito è ingiusto e non si vede perché, se ad esso si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti-reato (sequestro di persona ed estorsione), il secondo dei quali presuppone, comunque, l’ingiustizia del profitto. Il binomio normativo “ingiusto profitto come prezzo della liberazione” non esclude dunque che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l’azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato. L’agente infatti non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicché in realtà l’utilità non dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null’altro che il corrispettivo della liberazione dell’ostaggio. Ogni scissione del fatto unitario è priva pertanto di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima. Ciò che qualifica, in chiave di specializzazione, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630, rispetto ad altre figure di reato complesso, come il reato di estorsione, è dunque l’elemento soggettivo cioè il dolo specifico dell’agente che svolge una funzione costitutiva del modello legale sicché quando la privazione della libertà personale sia strumentale alla realizzazione del fine patrimoniale perseguito dall’agente, la ricorrenza di tale elemento è ostativa alla scomposizione del fatto unitario voluto sia nei due reati semplici (il reato di sequestro di persona e l’estorsione) sia nel reato complesso di cui all’art. 629, che non è idoneo ricomprendere nella fattispecie legale il dolo specifico dell’agente, fin dall’inizio ben delineato e, nel caso, logicamente desunto dai giudici di merito dalle modalità della condotta, dalla durevole privazione della libertà della vittima e dalla richiesta di riscatto rivolta al fratello, come prezzo della liberazione (Sez. 6, 42912/2018).

La condotta consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione integra il delitto previsto dall’art. 630 solo allorché manchi un preesistente rapporto con la vittima del reato, che abbia dato causa a quella privazione, mentre, quando quel rapporto sussista e ad esso siano collegabili il sequestro e il conseguimento del profitto, ricorre un’ipotesi di concorso tra il reato previsto dall’art. 605 e quello di estorsione (Sez. 2, 45408/2018).

In tema di sequestro di persona a scopo di estorsione, la privazione della libertà di una persona finalizzata alla riscossione di un preteso credito integra gli estremi dell’ingiusto profitto di natura estorsiva di cui all’art. 630, derivando l’ingiustizia dalle modalità del fatto (Sez. 2, 20032/2015).

Integra il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenta privazione della libertà personale della parte offesa per un rilevante periodo di tempo al fine di ottenere la corresponsione di una somma di denaro quale prezzo della liberazione, tale condotta escludendo ogni ragionevole intento di far valere un presunto diritto. (In motivazione, la Suprema corte ha osservato come, in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione, la privazione della libertà di una persona finalizzata alla riscossione di un preteso credito integri gli estremi dell'ingiusto profitto di natura estorsiva di cui all'art. 630, derivando l'ingiustizia dalle modalità del fatto. Ciò valendo, in particolare, laddove, come nel caso in esame, risulti che il titolare del diritto, per fare valere la propria legittima pretesa restitutoria con violenza o minaccia, si sia rivolto a soggetti terzi che non erano portatori di un interesse specifico derivante dalla illecita sottrazione della somma 6 di denaro e che ne rispondono in concorso, ma soprattutto contro terzi i quali a loro volta non erano responsabili della sottrazione del bene, ascrivibile ad altro soggetto, ed erano perciò estranei al rapporto obbligatorio) (Sez. 6, 24465/2021).

L’ipotesi criminosa prevista dall’art. 630 integra la figura di un reato plurioffensivo nel quale l’elemento oggettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione, a nulla rilevando che il perseguimento del prezzo di riscatto trovi la sua fonte in pregressi rapporti illeciti. Ciò in quanto si lucra un profitto ingiusto per la liberazione anche quando le vittime vengano sequestrate per riscuotere, a mezzo della loro liberazione, un vantaggio patrimoniale, che permane ingiusto anche se ha trovato la propria causa in una preesistente intesa fra sequestratore e vittima (Sez. 6, 34538/2018).

Ciò che qualifica, in chiave di specializzazione, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630, rispetto ad altre figure di reato complesso, come il reato di rapina, è l’elemento soggettivo cioè il dolo specifico dell’agente che svolge una funzione costitutiva del modello legale sicché quando la libertà personale sia strumentale alla realizzazione del fine patrimoniale perseguito dall’agente la ricorrenza di tale elemento è ostativa alla scomposizione del fatto unitario voluto sia nei due reati semplici (il reato di sequestro di persona e la rapina ovvero l’estorsione) sia nel reato complesso di cui all’art. 628, che non è idoneo ricomprendere nella fattispecie legale il dolo specifico dell’agente (Sez. 6, 17502/2018).

L’ingiusto profitto cui deve essere finalizzata l’azione, può identificarsi in qualsiasi utilità anche di natura non patrimoniale che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato, dovendosi escludere la ricorrenza delle diverse e meno gravi ipotesi di cui all’art. 605, in concorso formale con il reato di cui all’art. 56, 629 poiché come affermato sin da tempo risalente, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 è una figura autonoma di reato, qualificabile come reato complesso ed è caratterizzato dall’uso di un mezzo-sequestro di persona finalizzato a conseguire un ingiusto profitto, come prezzo della liberazione dell’ostaggio e si consuma indipendentemente dal conseguimento del profitto. Inoltre, il reato di cui all’art. 630, non può considerarsi ipotesi delittuosa aggravata del sequestro di persona, dal quale si differenzia per il dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per sè o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione. Si tratta di una forma speciale di estorsione qualificata dal mezzo esecutivo usato per vincere la resistenza del soggetto passivo, consistente non in un qualsiasi atto violento o minaccioso, ma per l’appunto in un sequestro di persona, mentre l’elemento soggettivo ovvero il dolo specifico vale a differenziarlo dal reato di sequestro di persona (Sez. 2, 45407/2018).

L’apprestamento da parte degli organi di polizia di un apposito servizio, finalizzato ad impedire la consumazione del delitto e a sorprenderne i responsabili, si pone come fatto del tutto estrinseco, rispetto alla condotta dell’agente. Sicché sono idonei gli atti tendenti al sequestro di una persona, nonostante il fine non sia raggiunto per il già in atto servizio di prevenzione da parte di organi di polizia. Analogamente, sussiste il tentativo di sequestro di persona, sventato dal fortuito passaggio di due funzionari di polizia, in un caso in cui la condotta si era estrinsecata nell’attesa degli imputati, in ora notturna e luogo non frequentato, a bordo di un’automobile di grossa cilindrata, in sosta presso l’abitazione della vittima designata, con armi, cappucci, cloroformio, etere, manette e tamponi auricolari, nonché nella presenza di una vettura in appoggio. Ciò in quanto, ai fini della configurabilità del tentativo punibile, non necessita l’inizio dell’azione esecutiva, ma è necessario e sufficiente che siano stati compiuti atti idonei, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, perché per loro essenza capaci di raggiungere lo scopo prefissato e, quindi, in grado di produrre l’effetto lesivo effettivamente voluto dall’agente (Sez. 5, 48314/2018).

Con riguardo alla idoneità degli atti funzionali alla realizzazione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 5, 18981/2017).