Art. 575 - Omicidio
1. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Rassegna di giurisprudenza
Elemento soggettivo
In tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi come dolo diretto, e non meramente eventuale, quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo (Sez. 1, 27620/2007, richiamata da Sez. 1, 13628/2019).
L’assenza di movente dell’azione omicidiaria è irrilevante ai fini dell’affermazione della responsabilità, allorché vi sia comunque la prova dell’attribuibilità di detta azione all’imputato; né il mancato accertamento del movente può risolversi nell’affermazione probatoria di assenza di dolo del delitto di omicidio, o, tanto meno, di assenza di coscienza e volontà dell’azione (Sez. 5, 22995/2017).
La “causale”, pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto, interessato all’eliminazione fisica della vittima, quando per la sua specificità ed esclusività converge in una direzione univoca, tuttavia, conserva di per sé un margine di ambiguità. Pertanto funge da elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l’esistenza del fatto incerto – l’attribuibilità del crimine all’imputato – soltanto a condizione che, all’esito dell’apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale d’insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione (SU, 45276/2003).
Dunque, la rilevazione del movente rappresenta un elemento di conferma di dati probatori già acquisiti, ha una funzione di riscontro e di corollario rispetto all’insieme delle altre circostanze, ad esso può essere attribuita la capacità di cementare un quadro indiziario che si presenti, al termine della disamina critica di esso da parte del giudice, ancora contrassegnato da incapacità di fornire convincente dimostrazione del fatto compiuto (Sez. 5, 2932/2019).
La violenza impressa ad un solo colpo inferto in zone non vitali del corpo della vittima, in presenza di modalità concrete dell’azione oggettivamente sintomatiche nel senso di una complessiva direzione degli atti orientati a consumare lesioni personali gravissime con il correlato elemento soggettivo, non è da sola sufficiente a dimostrare la contestata fattispecie di tentato omicidio, perché essa indica in capo all’agente soltanto l’accettazione del rischio di provocare la morte, quindi una forma di dolo omicidiario, quello eventuale, incompatibile con il delitto previsto dagli artt. 56 e 575 (Sez. 1, 12744/2019).
Concorso ordinario (art. 110) e anomalo (art. 116)
In tema di concorso di persone nel reato, sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo qualora l’evento ulteriore, benché prevedibile in quanto collegato da un nesso di pura eventualità rispetto al delitto base programmato, non sia stato dall’agente voluto neppure nella forma del dolo indiretto; ricorre, invece, l’ipotesi del concorso ex art. 110, ove l’agente abbia effettivamente previsto l’evento o comunque accettato il rischio del suo verificarsi (Sez. 1, 11595/2016).
L’espressa adesione del concorrente a un’impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all’uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga.
Ne consegue che ricorre un’ipotesi di concorso ordinario a norma dell’art. 110 e non quella di concorso cosiddetto anomalo, ai sensi del successivo art. 116, nell’aggressione consumata con uso di tali armi in relazione all’effettivo verificarsi di qualsiasi evento lesivo del bene della vita e dell’incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, quantunque concretamente riconducibile alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell’evento dannoso (SU, 337/2009) (riassunzione dovuta a Sez. 1, 462/2019).
Mandato omicidiario
In tema di prova del mandato a commettere omicidio, la “causale”, pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all’eliminazione fisica della vittima allorché converga, per la sua specificità ed esclusività, in una direzione univoca, conserva di per sé un margine di ambiguità e, in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l’esistenza del fatto incerto (cioè la possibilità di ascrivere il crimine al mandante), in quanto, all’esito dell’apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale di insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione (SU, 45276/2003).
Non può costituire riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità “de relato” con cui si attribuisce all’accusato il ruolo di mandante di un omicidio l’esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto (SU, 20804/2013).
Omicidio aggravato dall’art. 7 DL 152/1991
Ai fini della configurabilità dell’aggravante ex art. 7 DL 152/1991, convertito con L. 203/1991, è richiesto che il delitto sia commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis, ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso.
La prima nozione (metodo mafioso) sì determina avendo riguardo ai profili costitutivi dell’azione propria dell’associazione di tipo mafioso, consistenti nell’impiego della forza di intimidazione del vincolo associativo e nella condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (non assumendo invece valore qualificante gli ulteriori aspetti presi in considerazione dall’art. 416-bis: Sez. 6, 1783/2015), che devono essere logicamente funzionali alla più pronta ed agevole perpetrazione del crimine. L’aver ingenerato nella vittima la consapevolezza che l’agente appartenga ad un’associazione mafiosa (esistente o meno, non importa: Sez. 2, 49090/2015), o agisca su suo mandato: Sez. 1, 22629/2004), è alla base dello stato di peculiare soggezione della vittima stessa, che la rende soccombente di fronte alla forza della prevaricazione, facilitando l’esecuzione del reato e rendendone poi difficoltosa la repressione.
La sola connotazione mafiosa della condotta, ovvero l’ostentazione evidente e provocatoria dei comportamenti propri di un’organizzazione mafiosa, idonea ad intimidire non già il soggetto passivo del reato ma (al più ed a futura memoria) o la collettività presente sul territorio, non compone viceversa, in questa parte, il paradigma dell’aggravante.
Resta ferma, in tale ipotesi, la possibilità di ravvisare l’aggravante nella sua ulteriore componente, ove si ritenga che una condotta di tal fatta sia in concreto funzionale al rafforzamento dell’egemonia dell’organizzazione sul territorio, ed assuma così finalità agevolatrice, per la cui integrazione è sufficiente (Sez. 5, 12010/2017) che l’attività illecita, così come conformata, sia diretta a favorire in qualunque modo il perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione. Su tali premesse, è inadeguata la desunzione del metodo mafioso dal mero carattere eclatante di un omicidio, siccome commesso in pieno giorno, nel centro cittadino (sia pure di una zona a sicuro radicamento mafioso), nonché dalla sua efficiente pianificazione, elementi privi tuttavia di nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa (Sez. 1, 26399/2018).
Tentato omicidio
In tema di tentato omicidio, in linea generale la prova del dolo, quando, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta e deve essere desunta mediante un procedimento inferenziale, analogo a quello indiziario, in modo da ricavare il fine perseguito dall’agente, partendo da dati certi, ossia dagli elementi della condotta, ed applicando consolidate massime di esperienza. Allo scopo può farsi ricorso ai seguenti indici, apprezzabili ex post, dotati della capacità di rivelare in via sintomatica l’atteggiamento soggettivo dell’agente: il comportamento antecedente e susseguente al reato; la natura del mezzo usato e le sue caratteristiche intrinseche di potenzialità lesiva; le parti del corpo della vittima attinte; la reiterazione dei colpi; le ragioni della mancata verificazione dell’evento (nel caso di specie, la Corte ha stabilito che la decisione impugnata ha rispettato anche la tradizionale distinzione tra la fattispecie di lesioni personali e quella di tentato omicidio, incentrata sul diverso atteggiamento psicologico dell’agente e sulla differente potenzialità dell’azione lesiva: nel primo reato l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, eccedendo l’evento realizzato, tende ed è idoneo a cagionare un esito ulteriore e più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore dello stesso soggetto, senza però poter sortire il risultato perseguito per ragioni estranee alla volontà dell’agente). (Sez. 1, 36079/2020).
Con specifico riferimento al tentato omicidio, il giudice deve compiere una complessa ed articolata valutazione per stabilire non solo se gli atti posti in essere risultino dotati, per la loro potenzialità lesiva, di oggettiva idoneità e destinazione univoca a realizzare la morte della vittima e non altre e più contenute forme di aggressione all’integrità fisica sufficienti ad integrare il reato di lesione personale ma anche se l’agente sia stato animato da un atteggiamento psicologico qualificabile in termini di animus necandi; nella formulazione di detto complessivo giudizio, specie in difetto di assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, concorrono, quindi, in misura prevalente elementi di carattere oggettivo, quali la natura del mezzo usato, la parte del corpo della vittima presa di mira, le caratteristiche della lesione inferta (Sez. 1, 11594/2019).
La specifica finalità di uccidere non è necessaria nel delitto di omicidio tentato, nel senso che il tentativo di omicidio non deve necessariamente essere sorretto dal dolo intenzionale, essendo sufficiente il dolo diretto e generico, rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta che, in base a regole di comune esperienza, è idonea a provocare – con alto grado di probabilità – la morte della persona verso cui si dirige l’azione. L’azione posta in essere con accettazione del rischio dell’evento può implicare, per l’autore, un maggiore o minore grado di adesione della volontà, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell’evento.
Se questo venga ritenuto certo o altamente probabile, l’autore non si limita ad accettare il rischio, ma accetta l’evento stesso; se l’evento, oltre che accettato, è perseguito, il dolo si colloca in un più elevato livello di gravità. In relazione a tali diversi gradi di intensità, il dolo va qualificato come “eventuale” nel caso di accettazione del rischio, e come “diretto” negli altri casi, con l’ulteriore precisazione che, se l’evento è perseguito come scopo finale, si ha il dolo “intenzionale” (Sez. 1, 13364/2019).
Il dolo eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, poiché, quando l’evento voluto non sia comunque realizzato e quindi manchi la possibilità del collegamento ad un atteggiamento volitivo diverso dall’intenzionalità diretta, la valutazione del dolo deve avere luogo esclusivamente sulla base dell’effettivo volere dell’autore, ossia della volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificato (Sez. 1, 11554/2019).
In tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.
Ne consegue che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’«animus necandi», assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso. Pertanto, anche la mancata inflizione di più colpi dopo quelli già inferti alla vittima non esclude la configurabilità del dolo omicida, ove sia accertato che, per le modalità operative e per gli strumenti utilizzati, l’azione era idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente (Sez. 1, 13364/2019).
In tema di tentato omicidio, la scarsa entità (o anche l’inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee ad escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa (Sez. 1, 52043/2014).
In tema di delitto tentato, il giudizio di idoneità degli atti consiste in una prognosi compiuta “ex post” con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni meramente prevedibili nel caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (Sez. 1, 32851/2011). Pertanto, l’uso, da breve distanza, di un fucile caricato a pallettoni è certamente idoneo, anche in una logica postuma di ricostruzione del momento dell’azione, a cagionare la morte di chi si trova nella linea di fuoco creata dalla rosa prodotta dall’arma (Sez. 1, 13628/2019).
Discrimine tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale
Si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale – qualora la condotta dell’agente, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte del medesimo anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa in concreto derivare la morte del soggetto passivo. Il delitto di omicidio preterintenzionale è caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida (nella forma diretta o indiretta) e l’atteggiamento doloso si dirige solo verso i fatti di lesioni o percosse, risultando la condotta, secondo lo stesso linguaggio normativo, e rispetto all’evento morte, oltre l’intenzione dell’agente. L’evento morte è pertanto fuori dall’oggetto del dolo e non deve rientrarvi neppure come mera accettazione del rischio relativo.
Il delitto previsto dall’art. 586 (morte come conseguenza di altro delitto) si differenzia, contrariamente, dall’omicidio preterintenzionale, poiché nella fattispecie di cui all’art. 586 l’azione è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre nel secondo l’attività è finalizzata a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe reato di percosse o lesioni (Sez. 5, 23606/2018). Si tratta, allora, di un’ipotesi di aberratio in cui il delitto doloso cui è diretta la volontà dell’agente può essere qualsiasi fatto ad eccezione di quelli di percosse o lesioni, morte o lesioni che, anche in questo caso, derivano dalla condotta dell’agente come conseguenza non voluta (neppur indirettamente) (Sez. 1, 5540/2019).
Discrimine tra omicidio volontario e maltrattamenti aggravati dalla morte
Non può configurarsi l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, secondo comma, ma va invece ritenuta quella di omicidio volontario di cui all’art. 575, quando la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere, rappresentando l’azione consapevolmente e volontariamente indirizzata anche alla morte della vittima un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento (Sez. 1, 21329/2008, richiamata da Sez. 1, 3253/2019).
Discrimine tra tentato omicidio e lesioni
In tema di delitti contro la persona, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dell’atto lesivo (Sez. 1, 13364/2019).