Art. 600 - Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (1)
1. Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi, è punito con la reclusione da otto a venti anni (2).
2. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona (3).
3. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (4).
(1) Articolo così sostituito dall’art. 1, L. 228/2003.
(2) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1), DLGS 24/2014.
(3) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), DLGS 24/2014.
(4) Comma abrogato dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 3, L. 108/2010.
Rassegna di giurisprudenza
L’espressione “condizione analoga alla schiavitù”, contenuta nella formulazione dell’art. 600, prima delle modifiche apportate a tale disposizione normativa dall’art. 1, L. 228/2003, integra un elemento normativo della fattispecie del reato di riduzione in schiavitù, che non indica una situazione disciplinata in tassative previsioni legislative (diversamente la statuizione sarebbe “inutiliter data”) ma quella di fatto, parificabile al parametro legale di schiavitù, indicata nella convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con RD 1723/1928, come Io “stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o di uno di essi”; situazione che la mutevole realtà può presentare con connotati volta a volta diversi ma fondamentalmente identici nell’ambito dei rapporti interpersonali, nei quali un individuo ha un potere pieno e incontrollato su un altro, assoggettato appunto al suo dominio (Sez. 3, 2793/2000).
Si trattava, dunque, di un reato a condotte alternative (“riduzione in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù”), che risulta integrato dalla consumazione di una delle condotte previste, per l’appunto alternativamente, al pari della fattispecie contemplata dall’art. 600, di nuovo “conio”, dalla norma citata, che, pur non definendo in modo dettagliato le condotte vietate, rispondeva in modo, comunque, soddisfacente all’esigenza di tassatività delle disposizioni penali, in virtù del recepimento nell’ordinamento italiano della menzionata convenzione di Ginevra.
Quest’ultima, infatti, individua il nucleo essenziale delle diverse situazioni in cui si può declinare la schiavitù nell’assoggettamento di un individuo ai poteri ovvero ad uno dei poteri tipici del diritto di proprietà da un terzo esercitati nei suoi confronti, proprio come sancito dall’attuale formulazione della prima parte dell’art. 600, comma 1, in una logica di tendenziale continuità con la precedente previsione normativa e con l’interpretazione che ne era stata fornita dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, 1781/2015).
Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è a fattispecie plurima, risultando integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, che, implicando la “reificazione” della vittima, ne comporta “ex se” lo sfruttamento, ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, in relazione alla quale, invece, è richiesta la prova dell’ulteriore elemento costituito dalla imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (Sez. 5, 10426/2015).
Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, come delineato dall’art.1, L. 228/2003, si pone in rapporto di continuità normativa con quello originariamente configurato dall’art. 600, avendo la nuova disciplina soltanto definito la nozione di schiavitù, che in precedenza doveva trarsi dalle Convenzioni internazionali di Ginevra sulla abolizione della schiavitù, rispettivamente del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con il RD 1723/1928, e del 7 settembre 1956, ratificata ed resa esecutiva in Italia con la L. 1354/1957 (Sez. 3, 50561/2015).
Per la configurabilità del delitto di riduzione in schiavitù non è necessaria un’integrale negazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice. Pertanto, lo stato di soggezione continuativa – richiesto dall’art. 600 – deve essere rapportato all’intensità del vulnus arrecato all’altrui libertà di autodeterminazione, nel senso che esso non può essere escluso qualora si verifichi una qualche limitata autonomia della vittima, tale da non intaccare il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato (Sez. 5, 49594/2014).
L’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste, nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, violenza, inganno o profittando di una situazione di inferiorità psichica o fisica o di necessità e in tale fattispecie è previsto che l’agente debba ricorrere alternativamente a violenza o a inganno o ad approfittamento di uno stato di inferiorità o di una situazione di necessità o, infine, a promesse di vantaggi a chi eserciti autorità sulla persona (Sez. 5, 12574/2013).
Integra il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù colui che proceda alla vendita ad altri di un essere umano, atteso che, in tal modo, egli esercita sullo stesso un potere corrispondente al diritto di proprietà (Sez. 5, 10784/2012).
Non è necessaria, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 600, un’integrale negazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice.
Pertanto, lo stato di soggezione continuativa – richiesto dall’art. 600 – deve essere rapportato all’intensità del vulnus arrecato all’altrui libertà di autodeterminazione, nel senso che esso non può essere escluso qualora si verifichi una qualche limitata autonomia della vittima, tale da non intaccare il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato (Sez. 5, 25408/2014).
Risponde del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù colui che sfrutta la prostituzione della persona offesa eccedendo il normale rapporto di meretricio (Sez. 5, 12574/2013).