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Art. 25-quinquiesdecies - Reati tributari [52-quinquies]

Reati tributari [25-quinquies]

1.  In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

    a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'articolo 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

    b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

    c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall'articolo 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

    d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

    f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall'articolo 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

    g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall'articolo 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.

  1-bis. 

    a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall'art. 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;

    b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall'art. 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

    c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall'art. 10-quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.

  2. Se, in seguito alla commissione dei delitti indicati ai commi 1, 1-bis e 2 l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.

  3. Nei casi previsti dai commi 1, 1-bis e 2, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e).

 [52-quinquies] Articolo inserito dall'art. 39, comma 2, del DL 124/2019, convertito con modificazioni con la L. 157/2019.

Reati richiamati dalla norma

Art. 2, commi 1 e 2-bis, DLGS 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti)

Art. 3, DLGS 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici)

Art. 8, DLGS 74/2000 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti)

Art. 10, DLGS 74/2000 (Occultamento o distruzione di documenti contabili)

Art. 11, DLGS 74/2000 (Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte).

Si consideri che l'art. 39 del DL 124/2019, nella versione modificata dalla Legge di conversione 157/2019, ha introdotto modifiche a varie disposizioni del DLGS 74/2000 e tra queste, per ciò che qui interessa, agli artt. 2, 3, 8 e 10.

Si riporta di seguito, per comodità di consultazione, il testo risultante dalla riforma, evidenziando in corsivo le parti modificate o aggiunte.

Art. 2

Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

2 -bis. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

 

Art. 3

Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

1. Fuori dai casi previsti dall’articolo 2, è punito con la reclusione da tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila.

2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

3. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali.

Art. 8

Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni

inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.

2 -bis. Se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Art. 10

Occultamento o distruzione di documenti contabili

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre a sette anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui

redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

Rassegna di giurisprudenza

Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

…Natura del reato e bene giuridico protetto

L'art. 2 del DLGS 74/2000 individua un reato commissivo, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto (SU, 1235/2011), che si consuma nel momento della presentazione o della trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi (Sez. 3, 37848/2017; Sez. 3, 52752/2014). La dichiarazione annuale, come è noto, è atto che realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo, ma definitivo dell'evasione di quanto dovuto in forza della dichiarazione stessa; infatti la dichiarazione annuale "fraudolenta", ossia non solo mendace, ma caratterizzata altresì da un particolare "coefficiente di insidiosità" per essere supportata da un impianto contabile o documentale fittizio e non corrispondente alla realtà delle operazioni commerciali poste in essere, costituisce di certo la fattispecie criminosa ontologicamente più grave. È stato sottolineato che tale delitto di tipo commissivo e di mera condotta, ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non avendo rilievo le dichiarazioni periodiche e quelle relative ad imposte diverse, con la conseguenza che il comportamento di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito. Ciò in quanto il delitto di cui all'art. 2 citato è posto a tutela dell'interesse patrimoniale dello Stato a riscuotere ciò che è fiscalmente dovuto e nell'ambito e nei limiti in cui è dovuto in forza del diritto tributario (Sez. 3, 53318/2018).

L'interesse protetto dalla fattispecie di cui all'art. 2 DLGS 74/2000 è quello dell'Erario alla percezione dei tributi dovuti, prescindendo dalla realizzazione dell'evasione stessa, di qui l'illiceità penale della dichiarazione fraudolenta, trattandosi di reato di pericolo o di mera condotta (ed a consumazione istantanea), avendo il legislatore inteso rafforzare in via di anticipazione la tutela del bene giuridico protetto (SU, 1235/2011).

…Consumazione del reato

I delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, DLGS 74/2000 si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall'agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l'uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l'accertamento (Sez. 3, 43416/2019).

Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti è un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell'evento di danno, per cui, ai fini dell'individuazione della data di consumazione dell'illecito, non rileva l'effettività dell'evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l'accertamento della frode (in applicazione di questo principio è stata considerato altresì irrilevante ai fini dell'estinzione del reato il fatto che l'imputato, successivamente alla presentazione alla Agenzia delle entrate della dichiarazione fraudolenta, ne avesse presentata un'altra corretta, entro il termine di cui all'art. 2, comma 7, DPR 322/1988, che sostituiva la precedente dichiarazione) (Sez. 3, 16459/2017).

In tema di reati tributari, i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, DLGS 74/2000, si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall'agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l'uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l'accertamento (Sez. 3, 52752/2014).

Siccome per il perfezionamento del reato è necessario il dolo specifico, l'elemento soggettivo richiesto per l'integrazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti deve sussistere al momento della consumazione del reato, coincidente con la presentazione o la trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi, e non, invece, in quello, antecedente, dell'annotazione in contabilità della fattura falsa (Sez. 3, 37848/2017).

…Elemento psicologico

Il fatto che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia costituito da una finalità (evasiva) ulteriore rispetto a quella diretta alla realizzazione dell'evento tipico (presentazione della dichiarazione fraudolenta) non esclude affatto, ma anzi presuppone, che il dolo richiesto per detta realizzazione sia invece quello generico, comprensivo, quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile appunto nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione materialmente posta in essere abbia ad oggetto fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, quindi, che detta azione sia finalizzata ad evadere le imposte dirette o l'IVA. Va anche ricordato, a questo proposito, che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti si connota come reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell'evento di danno, per cui non rileva l'effettività dell'evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l'accertamento della frode (Sez. 3, 52411/2018).

Il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 2 DLGS 74/2000, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'IVA (Sez. 3, 52411/2018).

Siccome per il perfezionamento del reato è necessario il dolo specifico, l'elemento soggettivo richiesto per l'integrazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti deve sussistere al momento della consumazione del reato, coincidente con la presentazione o la trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi, e non, invece, in quello, antecedente, dell'annotazione in contabilità della fattura falsa (Sez. 3, 37848/2017).

Il fatto che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia costituito da una finalità (evasiva) ulteriore rispetto a quella diretta alla realizzazione dell'evento tipico (presentazione della dichiarazione fraudolenta) non esclude affatto, ma anzi presuppone, che il dolo richiesto per detta realizzazione sia invece quello generico, comprensivo, quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile appunto nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione materialmente posta in essere abbia ad oggetto fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, quindi, che detta azione sia finalizzata ad evadere le imposte dirette o l'IVA. Va anche ricordato, a questo proposito, che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti si connota come reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell'evento di danno, per cui non rileva l'effettività dell'evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l'accertamento della frode (Sez. 3, 25808/2016).

Il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all'art. 2 DLGS 74/2000, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extra-evasiva (Sez. 3, 27112/2015) e va ribadito che il relativo accertamento è riservato al giudice di merito e, se adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. Deve inoltre essere aggiunto che ai fini della integrazione della fattispecie di cui all'art. 2 non ha rilievo che non vi sia stata alcuna incidenza dell'annotazione in contabilità delle fatture per operazioni inesistenti quanto alla base imponibile ai fini delle imposte dirette (Sez. 3, 53318/2018).

Nel delitto di cui all'art. 2 DLGS 74/2000, il dolo è ravvisabile nella consapevolezza, in chi utilizza il documento in dichiarazione, che colui che ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall'emittente, conseguendo in tal modo un indebito vantaggio fiscale in quanto l'iva versata dall'utilizzatore della fattura non è stata pagata dall'esecutore della prestazione medesima (in motivazione, la Corte ha precisato che il principio di diritto tributario, per il quale incombe sull'Erario l'onere di provare che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento della detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore, non può essere automaticamente trasposto in sede penale, attesa l'autonomia fra i relativi procedimenti, donde è esclusivamente al giudice penale che, sulla base degli elementi di fatto oggetto di libera valutazione ai fini probatori, compete accertare la configurabilità di eventuali illeciti penali) (Sez. 3, 19012/2015).

…Nozione di operazioni inesistenti

Il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti  è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni indicate nelle fatture, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all'iva, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura; in definitiva, la fattispecie di cui all'art. 2 DLGS 74/2000 deve ritenersi ravvisabile, con riferimento all'evasione delle imposte dirette, solo laddove vengano in rilievo operazioni oggettivamente inesistenti, ovvero vengano esposti nelle dichiarazioni dei costi mai sostenuti, mentre è solo in ordine all'evasione dell'IVA che rilevano, oltre alle operazioni oggettivamente inesistenti, anche quelle che integrino una simulazione soggettiva, cioè quando la fattura riporti l'indicazione di nominativi diversi rispetto agli effettivi partecipanti all'operazione imponibile; l'indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è infatti circostanza indifferente ai fini dell'IVA, dal momento che la qualità dei venditore può incidere sulla misura dell'aliquota e, conseguentemente, sull'entità dell'imposta che l'acquirente può legittimamente detrarre, fondandosi il sistema dell'Iva sul presupposto che tale imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, non entrando nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, per cui esporre dati fittizi anche solo soggettivamente significa creare le premesse per un rimborso al quale non si ha diritto (Sez. 3, 16768/2019).

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti sussiste sia nell'ipotesi di inesistenza oggettiva dell'operazione (ovvero quando la stessa non sia mai stata posta in essere nella realtà), sia in quella di inesistenza relativa (ovvero quando l'operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura) sia, infine, nel caso di sovrafatturazione "qualitativa" (ovvero quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti), in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Sez. 3, 52411/2018).

Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 2 DLGS 74/2000, assume rilievo anche l'inesistenza soggettiva dell'operazione, che si ha quando la prestazione oggetto di imposizione c'è stata, ma tra soggetti diversi da quelli indicati nelle fatture (sul concetto di operazioni inesistenti in tema di reati tributari (Sez. 3, 38185/2017).

…Concorso dell'extraneus

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti di cui all'art. 2 DLGS 74/2000 è reato proprio nel senso che di esso risponde colui che è tenuto, a norma delle leggi tributarie, alla presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Ciò, peraltro, non esclude, alla stregua dei principi generali che regolano il concorso dell'extraneus nei reati propri, che anche costui possa essere chiamato a rispondere del reato in questione, essendo tuttavia necessario, a tale riguardo, che egli abbia posto in essere un comportamento che abbia contribuito, anche solo agevolandola, alla realizzazione della condotta posta in essere dall'autore principale (Sez. 3, 22304/2017).

L'amministratore della persona giuridica tenuta alla presentazione delle dichiarazioni tributarie, sebbene ricopra solo formalmente la predetta veste, è responsabile, se del caso in concorso con l'amministratore di fatto, quanto meno a titolo di dolo eventuale, nei reati fiscali derivanti dalla omessa presentazione delle prescritte dichiarazioni fiscali, dovendo egli, per effetto della accettazione della carica rivestita, svolgere un'attività di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto (Sez. F, 42897/2018).

In tema di reati tributari, il prestanome non risponde dei delitti in materia di dichiarazione previsti dal DLGS 74/2000 solo se è privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società. Deve, infatti, ricordarsi come il prestanome che, accettando la carica ha anche accettato i rischi ad essa connessi, risponde comunque a titolo di dolo eventuale esponendosi alle conseguenze dell'operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi pongano in essere, attraverso il paravento loro prestato con la carica ricoperta, attività non legali, in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 CC, in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi  (Sez. 3, 47110/2013, richiamata adesivamente da Sez. F, 42897/2018).

Non risulta, almeno in giurisprudenza, alcuna controversia circa la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente né, in generale, nei reati previsti dal DLGS 74/2000, né, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni. Invero, sin dall'entrata in vigore del DLGS 74/2000, si è affermato che il commercialista può concorrere, ex art. 110 CP, nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l'emittente di queste ultime (Sez. 3, 2834//2001). Lo stesso principio, inoltre, è stato affermato di recente in relazione al reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater DLGS 74/2000 (Sez. 3, 1999/2018). Più volte, inoltre, sono stati dichiarati inammissibili o rigettati ricorsi avverso decisioni di condanna del commercialista di una società per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, quale concorrente con il legale rappresentante dell'ente (Sez. 3, 7384/2019). Per quanto concerne l'individuazione delle modalità di partecipazione concorsuale rilevanti ex art. 110 CP, poi, è sufficiente rilevare che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, fermo restando l'obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell'esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (per un precedente in materia di concorso materiale, si confronti Sez. 4, 1236/2018, nonché, per precedenti in tema di concorso morale, SU,45276/2003, e Sez. 1, 7643/2015). Relativamente al profilo della colpevolezza, è incontestato, e condivisibile, l'indirizzo secondo cui il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 2 DLGS 74/2000, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'IVA (così, in particolare, Sez. 3, 52411/2018). Sulla base di tali  principi, il contributo causale alla commissione dei reati di cui all'art. 2 DLGS 74/2000 può essere correttamente individuato già nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall'inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l'indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un'ulteriore forma di contributo causale, rilevante se non altro come rafforzamento dell'altrui proposito criminoso, è correttamente individuata nella complessiva attività di supporto per la "sistemazione" documentale di gravi violazioni contabili (Sez. 3, 28158/2019).

…Sequestro e confisca

il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l'operazione posta in essere si realizza in un incremento patrimoniale del reo ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito e che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015). Ancorché il nostro ordinamento non conosca ipotesi di responsabilità penale degli enti o persone giuridiche, ciò nondimeno costituisce jus receptum che il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell'ente o della persona giuridica si configuri, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, come confisca diretta non potendosi considerare la società in tal caso estranea al reato, qualifica questa da cui discende l'ulteriore conseguenza che quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, ad eccezione dell'ipotesi in cui l'ente sia privo di autonomia e costituisca un mero schermo protettivo dell'attività illecita posta in essere dalla persona fisica cui è in via esclusiva riconducibile il profitto derivante dal reato (SU, 10561/2014). Pertanto l'impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica sussiste tutte le volte in cui non sia rintracciabile presso la persona giuridica il profitto del reato tributario commesso nell'interesse dell'ente, ma trattandosi di somme di danaro e dunque di beni di natura fungibili la prova può ritenersi raggiunta comunque quando emerga dagli atti o sia dimostrato che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario o comunque costituenti il profitto tangibile dell'illecito siano nella disponibilità della società. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. Quest'onere va normalmente assolto chiedendo al pubblico ministero di eseguire il sequestro in forma specifica - sempre che tale forma di sequestro sia stata chiesta e ottenuta dal PM, il quale innescherà il meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, CPP, a seguito del quale l'interessato avrà come rimedio, nei confronti dell'eventuale provvedimento negativo del giudice, l'appello cautelare - con contestuale richiesta di revoca del sequestro per equivalente (Sez. 3, 29574/2017).

Quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell'imputato sul presupposto dell'impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta. Ciò in quanto l'art. 322-ter CP, richiamato dall'art. 1, comma 143, L. 244/2007, stabilisce che, per procedere, nel corso del procedimento penale, al sequestro finalizzato alla confisca di altri beni di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto del reato, è necessario l'accertamento del presupposto costituito dalla impossibilità di sequestrare in via diretta i beni che costituiscono il profitto del reato stesso, quindi si può procedere a porre il vincolo preventivo, su beni diversi per un valore corrispondente, solo ove sia impossibile sottoporre a sequestro i beni che si identificano con il prezzo o il profitto del reato. In proposito, le Sezioni unite hanno ribadito che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito (SU, 31617/2015, Lucci) e che, qualora il prezzo o il profitto cd. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, il sequestro delle somme, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificato come sequestro cd. diretto e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto del vincolo preventivo e il reato. Le Sezioni unite hanno in precedenza anche affermato come sia consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia rimasto nella disponibilità della persona giuridica. In siffatto caso, ossia solo quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, che non può considerarsi, in questo caso, terza estranea al reato (SU, 10561/2014). Ne deriva che, quando il sequestro cd. diretto del profitto del reato tributario non è possibile nei confronti della società, non è di conseguenza consentito nei confronti dell'ente collettivo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, salvo che la persona giuridica costituisca uno schermo fittizio. La ragione di ciò scaturisce dal fatto che i reati tributari non sono ricompresi (ai sensi del DLGS 231/2001) nella lista di quelli che consentono il sequestro per equivalente nei confronti di una persona giuridica. Tuttavia l'impossibilità del sequestro del profitto del reato (sequestro cd. diretto o in forma specifica) può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato. È stato anche sottolineato che la fase della ricerca del profitto cd. diretto si esaurisce inevitabilmente nel periodo coincidente con la fase genetica della cautela reale ed immediatamente dopo la sua applicazione, perché il sequestro per equivalente nei confronti dell'autore del reato, soprattutto il suo mantenimento, supera la questione della reperibilità del profitto diretto da parte della persona giuridica in quanto l'aggressione dei beni per equivalente postula l'impossibilità genetica o funzionale, quantunque in ipotesi transitoria, di ricorrere al sequestro diretto (Sez. 3, 42946/2019).

In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione sulla consistenza patrimoniale della persona giuridica, condotta allo stato degli atti, risulti impossibile l'apprensione diretta del profitto del reato, ossia del denaro, dei beni fungibili o degli altri beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, rimasti nella disponibilità dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato stesso (Sez. 3, 3591/2019); mentre non è consentita la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, tenuta soltanto a responsabilità amministrativa ai sensi del DLGS 231/2000, e non a quella penale (Sez. 1, 33855/2019).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il profitto del reato tributario che si sostanzia in un mancato esborso dell'imposta dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente (Sez. 3, 49631/2014).

…"Doppio binario punitivo" e principio del ne bis in idem

È preclusa la deducibilità della violazione del divieto di "bis in idem" in conseguenza della irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura "sostanzialmente penale" - secondo l'interpretazione dell'art. 4 Protocollo n. 7 CEDU data dalle decisioni emesse dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle cause " Grande Stevens e altri contro Italia" del 4 marzo 2014, e "Nykanen contro Finlandia" del 20 maggio 2014 - quando la prima sanzione sia stata inflitta ad un soggetto giuridico diverso da quello al quale sia stata ascritta, nel successivo procedimento penale, la violazione costituente reato, non potendosi ritenere, in tal caso, che il fatto sia corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale (da ultimo: Sez. 3, 24309/2017). Dunque, non sussiste la preclusione all'esercizio dell'azione penale di cui all'art. 649 CPP, quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente "penale" ai sensi dell'art. 7 CEDU, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa (Sez. 3, 43809/2015). Il principio del ne bis in idem è dunque inapplicabile, come del resto riconosciuto anche dalla stessa giurisprudenza della CGUE. nella sentenza 5 aprile 2017 (cause riunite n. C-217/15 e C-350/15), in cui la Corte eurounitaria ha affermato che il "fatto di infliggere sia sanzioni tributarie che sanzioni penali non costituisce una violazione dell'articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, qualora le sanzioni di cui trattasi riguardino persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte". In ragione di ciò, l'articolo 50 CDFUE, conclude la CGUE, non osta ad una normativa nazionale che consenta di avviare un procedimento penale (nella specie, per omesso versamento dell'IVA), in seguito all'applicazione della sanzione tributaria, qualora la sanzione sia stata inflitta ad una società con personalità giuridica mentre il procedimento penale venga avviato nei confronti della persona fisica, legale rappresentante (riassunzione dovuta a Sez. F, 42897/2018).

…Frodi gravi in materia di Iva (cosiddetta vicenda Taricco)

Come è noto la CGUE (Grande Sezione), con sentenza resa in data 8 settembre 2015 (in causa C-105/14), ha affermato che il combinato disposto dell'articolo 160, ultimo comma, come modificato dalla L. 251/2005, e dell'articolo 161 e, nella parte in cui prevedono che un atto interruttivo della prescrizione verificatosi nell'ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA, comporti il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, nell'ipotesi in cui tali disposizioni nazionali impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'UE, o in cui prevedano, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'UE. In questa prospettiva, il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dalle menzionate disposizioni normative. Investita della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2 della L. 130/2008, sulla ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, nella parte in cui, imponendo di applicare l'articolo 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza "Taricco", determina la disapplicazione, in alcuni casi, del disposto degli articoli 160, terzo comma, e 161, secondo comma, c.p., in relazione ai reati in materia di IVA, che costituiscono frode in danno degli interessi finanziari dell'UE, la Corte costituzionale, con ordinanza 24/2017, disponeva un rinvio pregiudiziale alla CGUE per l'interpretazione relativa al significato da attribuire all'art. 325 TFUE ed ai principi affermati nella sentenza "Taricco". Secondo la Corte costituzionale, l'eventuale applicazione della "regola Taricco" nel nostro ordinamento potrebbe condurre alla violazione del contenuto degli articoli 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, non consentita neppure alla luce del primato del diritto UE. In particolare, il giudice delle leggi si soffermava sul profilo di un'eventuale violazione del principio di legalità dei reati e delle pene che potrebbe derivare dall'obbligo, enunciato dalla "sentenza Taricco", di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, in considerazione, da un lato, della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione stabilite nell'ordinamento giuridico italiano, la quale implica che dette norme siano ragionevolmente prevedibili per i soggetti dell'ordinamento al momento della commissione dei reati contestati senza poter essere modificate retroattivamente in peius; dall'altro, della necessità che qualunque normativa nazionale relativa al regime di punibilità si fondi su una base giuridica sufficientemente determinata, al fine di poter delimitare e orientare la valutazione del giudice nazionale. Nell'affrontare le questioni poste dalla Corte costituzionale, la Grande Sezione della CGUE, con sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, ha, innanzitutto, riconosciuto che i requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività inerenti al principio di legalità dei reati e delle pene si applicano, nell'ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA. Ne discende, da un lato, l'affermazione secondo cui spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dalla "sentenza Taricco", secondo cui le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'UE, conduca a una situazione di incertezza nell'ordinamento giuridico italiano, quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile, per cui, se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161. Dall'altro, il principio che i menzionati requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività, ostano a che, nei procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della  pronuncia della "sentenza Taricco", ovvero anteriormente all'8 settembre 2015, il giudice nazionale possa disapplicare le disposizioni del codice penale in precedenza indicate, in quanto tali persone verrebbero ad essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. Alla luce di tali considerazioni, il giudice europeo ha risolto la questione pregiudiziale posta dalla Corte Costituzionale dichiarando che «l'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell'ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all'inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell'insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell'applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato». Alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza cd. "Taricco-bis"- che, nella sostanza, ha ribadito i contorni della "regola Taricco", ma ha confermato che essa può trovare applicazione solo se è rispettosa del principio di legalità in materia penale, nella duplice componente della determinatezza e del divieto di retroattività - la Corte costituzionale, con sentenza 115/2018 del 31 maggio 2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale (sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d'appello di Milano) dell'articolo 2 della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona (L. 130/2008), là dove dà esecuzione all'articolo 325 del TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia con la "sentenza Taricco", ritenendo che i giudici non siano tenuti ad applicare la "regola Taricco" sul calcolo della prescrizione, stabilita dalla CGUE con la sentenza dell'8 settembre 2015 per i reati in materia di IVA. Ad avviso della Consulta, in particolare, indipendentemente dalla collocazione del momento di consumazione dei reati, prima o dopo l'8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare la "regola Taricco", perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Un istituto, infatti, che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l'effetto di impedire l'applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell'alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall'art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza, sicché appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la "regola Taricco"), sia la "regola Taricco" in sé. Quest'ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell'art. 325 TFUE, risulta irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.). Nella prospettiva fatta propria dalla Corte costituzionale, peraltro, indeterminato appare il contenuto normativo dell'art. l'art. 325 TFUE, in punto di prevedibilità, non consentendo ai consociati di prospettarsi la vigenza della "regola Taricco". Sotto tale profilo il giudice delle leggi ribadisce che il principio di determinatezza ha una duplice direzione, non limitandosi a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale, mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma (e verrebbe da dire soprattutto) anche assicurando a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (sentenze 327/2008 e 5/2004; nello stesso senso, sentenza 185/1992). Pertanto, quand'anche la "regola Taricco" potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a «colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza 327/2008). Infatti, se è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed interpretazioni sistematiche» (sentenza 364/1988), resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d'azione» (sentenza 364/1988). Fermo restando, dunque, che compete alla sola CGUE interpretare con uniformità il diritto UE, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la "sentenza Taricco-bis", un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento. L'inapplicabilità della "regola Taricco", peraltro, ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto UE, sicché non vi è, ad avviso del giudice delle leggi, alcuna ragione di contrasto. Ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all'ingresso della "regola Taricco" nel nostro ordinamento. Nel solco interpretativo sinteticamente riassunto, si colloca un recente e condivisibile arresto di legittimità, in cui, partendo proprio dai principi affermati nella sentenza della CGUE "Taricco-bis" e nella ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, si afferma che in tema di reati tributari commessi antecedentemente alla sentenza della Grande Sezione della CGUE, pronunciata l'8/09/2015 in causa C105/14, Taricco, continua ad applicarsi integralmente la normativa sulla prescrizione, non potendo il giudice nazionale disapplicarla stante il divieto di irretroattività, ai sensi dell'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, così come interpretato dalla CGUE (Grande Sezione) con sentenza del 05/12/2017, in causa C- 42/17 (Sez. 2, 9494/2018) (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 5, 41419/2018).

…Possibilità di accedere al patteggiamento

Ai sensi dell'art. 13-bis, comma 2, DLGS. 74/2000, introdotto dall'art. 12 DLGS 158/2015, l'applicazione della pen ex art. 444 CPP, per i delitti tributari previsti dal medesimo d.lgs. n. 74/2000, può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all'art. 13, commi 1 e 2; a sua volta, il comma 1 dell'art. 13-bis, richiamato espressamente dal comma 2, prevede che, fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al DLGS 74/2000 sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell'art. 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie. Dunque, in forza del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 13-bis, la condizione per accedere al patteggiamento, per i reati tributari previsti dal DLGS 74/2000, è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso (Sez. 3, 10800/2019).

 

Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

…Caratteristiche della fattispecie

La fattispecie delineata dall'art. 3 DLGS 74/2000 è un reato a soggettività ristretta, potendo essere realizzato solo da coloro che sono obbligati alla presentazione della dichiarazione dei redditi, e a condotta bifasica che si articola in due segmenti: 1) la dichiarazione mendace e 2) l'attività ingannatoria a sostegno del mendacio materializzato nella dichiarazione, attività ingannatoria che si risolve, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, nella realizzazione di condotte tipiche tra loro alternative [= a) compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero b) ricorso a documenti falsi o c) ricorso a mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria] (Sez. 3, 15500/2019).

…Elementi differenziali rispetto ad altri reati tributari

Il reato di frode fiscale ex art. 2 DLGS 74/2000 è configurabile ogniqualvolta il contribuente, per effettuare una dichiarazione fraudolenta, si avvalga di fatture o altri documenti che attestino operazioni non realmente effettuate, non rilevando la circostanza che la falsità sia ideologica o materiale, distinguendosi la frode sanzionata dall'art. 2 da quella di cui al successivo art. 3 non per la natura del falso, ma per il rapporto di specialità reciproca esistente tra le condotte previste dagli art. 2 e 3, nel senso che a un nucleo comune, costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono in chiave specializzante, da un lato (art. 2), l'utilizzazione di fatture e documenti analoghi relativi a operazioni inesistenti e, dall'altro (art. 3), una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie congiunta con l'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento, nonché la previsione di una soglia minima di punibilità. Tale orientamento deve essere ribadito anche all'indomani delle modifiche apportate dal DLGS 158/2015 all'art. 3 DLGS 74/2000. Mentre la disposizione previgente era articolata in tre segmenti distinti, ovvero una falsa dichiarazione dei redditi o Iva, una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie posta a base del predetto mendacio e una utilizzazione di "mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l'accertamento", con la modifica del comma 1 dell'art. 3, la struttura dell'illecito è stata semplificata, tramite l'eliminazione dell'elemento della "falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie" e una più articolata descrizione delle condotte artificiose. Dunque, la condotta illecita presenta ora una struttura "bifasica", passando attraverso l'effettuazione di operazioni simulate ovvero l'utilizzo di documenti falsi o altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento e, congiuntamente, a indurre in errore l'amministrazione finanziaria; peraltro, la soppressione del riferimento alle scritture contabili obbligatorie non significa che tale elemento abbia perso qualsiasi rilievo nella configurazione del reato, potendo la condotta essere integrata, oltre che compiendo operazioni simulate ovvero mediante mezzi fraudolenti, anche avvalendosi di "documenti falsi", i quali, ai sensi del nuovo comma secondo, valgono a integrare la condotta del reato solo in quanto "sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie" o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria". Il nuovo comma terzo dell'art. 3 stabilisce invece che non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione o di emissione di altri documenti di rilievo probatorio analogo (come scontrini fiscali, documenti di trasporto, ecc.) e di annotazione dei corrispettivi nelle scritture contabili, o la mera indicazione nelle fatture o nei documenti ovvero nelle annotazioni di corrispettivi inferiori a quelli reali, dovendosi intendere che non sono sanzionati dalla norma comportamenti meramente omissivi, quali la sola mancata fatturazione o registrazione, essendo, invece, necessaria una condotta di natura commissiva nella quale il supporto fraudolento deve tradursi in espressioni (le operazioni simulate, l'utilizzo di documenti falsi o di altri artifici) oggettivamente distinte dalle mere violazioni contabili, funzionali a dare credibilità alla dichiarazione mendace e dotate dunque di una qualificata idoneità decettiva. Tanto premesso, deve tuttavia escludersi che il riferimento del nuovo comma 3 a talune ipotesi di fatturazione possa incidere sul rapporto tra i reati di cui agli art. 2 e 3 quale delineato sin qui dalla prevalente giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, dovendosi innanzitutto evidenziare che è rimasta immutata la rubrica della norma incriminatrice, riferita alla "dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici", dove l'espressione "altri artifici" non può che essere letta in relazione alla norma precedente, ovvero l'art. 2, la cui rubrica è rimasta quella di "dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti", come pure non ha subito modifiche l'incipit dell'art. 3 ("Fuori dai casi previsti dall'articolo 2"), ciò a conferma della persistente natura residuale della fattispecie di cui all'art. 3 rispetto a quella prevista dall'art. 2. A ciò deve aggiungersi che non è cambiata neanche la definizione normativa cristallizzata nell'art. 1 lett. a) DLGS 74/2000, secondo cui per "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, definizione questa che invero risulta riferibile sia alle falsità ideologiche che a quelle materiali, per cui tale distinzione, in tale ambito, non appare pertinente. Viceversa, l'art. 1 lett. g-ter, introdotto dal DLGS 158/2015, definisce "mezzi fraudolenti", espressione richiamata dall'art. 3, le condotte artificiose attive, nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà. Dunque, analizzando l'intero quadro normativo di riferimento, deve ritenersi che il profilo distintivo tra le fattispecie di cui agli art. 2 e 3 sia rimasto quello non dell'operazione compiuta, ma del modo in cui è documentata, rilevando dunque la natura dello strumento usato per commettere la dichiarazione fraudolenta, dovendosi cioè circoscrivere l'ambito applicativo dell'art. 2 alle ipotesi in cui la frode fiscale venga attuata mediante l'utilizzo di una fattura o altro documento avente "rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie", essendo indifferente in tal senso che la falsificazione sia di tipo ideologico o materiale. Il disvalore della condotta si incentrata infatti proprio nell'utilizzo, a supporto della dichiarazione fraudolenta di elementi passivi fittizi, di quella particolare documentazione contabile che corrisponda, sia pure apparentemente, ai requisiti precisati dall'art. 21, comma 2, DPR 633/1972, stante l'idoneità di tale strumento a trarre più facilmente in inganno l'amministrazione finanziaria. Del resto, è proprio la considerazione del particolare valore probatorio, sul piano tributario, dello strumento documentale utilizzato a supporto della dichiarazione fraudolenta di elementi passivi fittizi, che ha indotto il legislatore a non fissare alcuna soglia di evasione per la configurabilità di tale condotta illecita, soglia che invece compare e si giustifica nella residuale ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante "altri artifici", di cui all'art. 3 in ragione del fatto che, in tal caso, la condotta illecita viene realizzata attraverso comportamenti diversi dall'utilizzo di fatture o documenti equipollenti, cioè con il compimento di operazioni simulate o mediante l'avvalimento di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti, idonei a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'amministrazione finanziaria. I commi 2 e 3 dell'art. 3, a ben vedere, non smentiscono la previsione del comma 1, ma forniscono criteri interpretativi per l'individuazione dei documenti falsi o dei mezzi fraudolenti, criteri che, anche alla luce della loro portata esemplificativa, non consentono di affermare che la norma si applichi nel caso di frode fiscale realizzata tramite l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, restando questo il campo applicativo esclusivo dell'art. 2, che a sua volta va letto congiuntamente alla norma definitoria di cui all'art. 1 lett. g-ter, suscettibile, come detto, di ricomprendere sia le falsità ideologiche che quelle materiali (Sez. 3, 6360/2019).

…Tipologie di dichiarazioni rilevanti per il reato

L'art. 3 DLGS 74/2000 indica come strumenti dell'evasione le dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi senza ulteriori distinzioni, solo specificando in proposito che per dichiarazioni intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche (art. 1, lett. c). Assumono pertanto rilevanza in ambito penale tutte le dichiarazioni obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e tra esse - in assenza di qualsiasi specifica distinzione o riserva ad opera del legislatore - anche quella della fiscal unit presentata dall'ente controllante ai sensi degli artt. 122 TUIR e 9 DM 9.6.2004. Con essa la consolidante calcola il reddito complessivo globale risultante dalla somma algebrica dei redditi complessivi netti dichiarati da ciascuna delle società partecipanti e liquida l'unica imposta dovuta o l'unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo (art. 118, comma 1, TUIR). Le società controllate, secondo la disposizione di legge, sono tenute solamente a compilare il modello della propria dichiarazione dei redditi al fine di comunicare alla società capogruppo la determinazione del proprio reddito complessivo (art. 121 TUIR); esse devono inoltre - ma solo per effetto della disciplina di esecuzione di cui all'art. 8 DM 9.6.2004, avente natura meramente amministrativa e non regolamentare secondo il disposto dell'art. 129 TUIR - presentare la stessa dichiarazione anche all'Agenzia delle entrate. La controllante è responsabile per la maggior imposta accertata riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione consolidata. Al di là dunque dalla questione teorica (definita in letteratura "tutta endotributaria") se la qualità di contribuente spetti o meno alla consolidante in quanto tale (a prescindere cioè dalla circostanza che sia dotata di una propria capacità reddituale), se essa possa attribuirsi a ciascuna consolidata e se si configuri autonomia soggettiva del gruppo societario rispetto ai singoli aderenti, le norme delineano un sistema in cui è con la dichiarazione consolidata che si assolve l'obbligo tributario della fiscal unit e si fornisce il parametro per la verifica dell'eventuale evasione in termini di differenza fra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata (Sez. 1, 43899/2013). Ne consegue che l'ipotesi delittuosa della dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 3 DLGS 74/2000 nell'ambito del consolidato fiscale può essere configurata con esclusivo riferimento alla dichiarazione consolidata, solamente con riguardo alla quale, dunque, può essere effettuata la verifica della sussistenza dell'elemento costitutivo del reato consistente nel superamento della duplice soglia di punibilità (Sez. 3, 3098/2016). Il delitto ha natura istantanea e si perfeziona - secondo il principio costantemente affermato in tema di reati dichiarativi - nel momento e nel luogo in cui è presentata la dichiarazione consolidata del gruppo societario. Ciò posto - e richiamando ancora il valore della stretta legalità in campo penale - si deve rilevare come la struttura tipica del delitto in esame come delineata dalla norma incriminatrice si configuri complessa ("trifasica" ovvero, secondo la recente riforma di cui al DLGS 158/2015, "bifasica") ed implichi la realizzazione di condotte decettive diverse e di regola non contestuali ma realizzate in tempi successivi (in questo senso deve intendersi il richiamo effettuato dai giudici di merito al concetto di "progressione"), unificate dal fine di evasione: la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie, l'avvalimento di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l'accertamento (ora il compimento di operazioni simulate o l'avvalimento di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento), l'indicazione nella dichiarazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi. Sotto un profilo oggettivo, le condotte fraudolente così descritte possono essere realizzate in qualunque momento dell'iter di formazione della dichiarazione consolidata, cioè sia nel momento conclusivo sia in quello di predisposizione della dichiarazione della singola o delle singole partecipanti la cui falsità determini la falsità di quella unitaria e l'evasione fiscale superiore alle soglie di legge. È opportuno chiarire fin da subito che - a prescindere delle questioni sull'elemento soggettivo che saranno successivamente esaminate - nel gioco delle compensazioni fra profitti e perdite delle società consolidate, la rilevante falsità della dichiarazione di una di esse, che avrebbe potuto condurre in sé ad un'evasione penalmente rilevante, sia neutralizzata dalle perdite subite dalle altre partecipanti con la conseguenza che il saldo complessivo netto dell'imposta dovuta non superi la soglia che rende punibile l'evasione ed il fatto non assuma quindi rilievo penale: ma ciò, come sottolineato in premessa, è conseguenza della disciplina di sistema e corrisponde alle intenzioni del legislatore. La necessaria pluralità delle condotte, come descritta nella norma incriminatrice, non implica necessariamente una pluralità di soggetti attivi, atteso che esse possono essere poste in essere dalla medesima persona che agisca con la finalità di evasione. Nell'ipotesi in cui - come sotto un profilo meramente fattuale appare probabile possa con maggior frequenza verificarsi considerata la struttura del consolidato - più siano gli agenti che partecipano a realizzare la complessa condotta che integra la fattispecie criminosa, si rendono necessariamente applicabili le norme generali sul concorso di persone dettate dall'art. 110 CP: rispondono del reato tutti coloro che con azioni o omissioni abbiano partecipato alle condotte fraudolente agendo al fine di evasione con la consapevolezza del possibile superamento (cioè con accettazione dell'evento del superamento e non del relativo mero "rischio") delle soglie di punibilità nella dichiarazione consolidata, e ciò anche senza un accordo preventivo. E' infatti principio condiviso in giurisprudenza quello secondo cui la volontà di concorrere non presuppone necessariamente il previo accordo, in quanto l'attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell'altrui proposito criminoso, talché assume carattere decisivo l'unitarietà del "fatto collettivo" realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza anche unilaterale (esclusa dunque la mera conoscibilità) del contributo recato alla condotta altrui. Dunque è responsabile del reato anche colui che, consapevole delle condotte e finalità altrui, avendo titolo, per legge, per statuto o ordinamento interno, ad intervenire nel rapporto dell'ente con l'amministrazione finanziaria, inserisca consapevolmente e finalisticamente la propria azione od omissione nella serie causale destinata all'evasione dell'imposta oltre le soglie di legge. Può accadere che si verifichi, come ipotizzato in dottrina, anche l'ipotesi del reato determinato dall'altrui inganno. Fermo restando quanto precedentemente rilevato, e cioè che il reato si perfeziona con la presentazione della dichiarazione consolidata, la falsità di quest'ultima, così come può derivare da vizi propri, può conseguire anche al recepimento di falsi dati contabili - prodotto delle operazioni decettive descritte dalla norma incriminatrice - comunicati dalla società consolidata. In tal caso gli amministratori della controllante privi del potere di accertamento sulla veridicità dei dati trasmessi dalle controllate ed estranei a dette operazioni non rispondono della falsità fraudolenta della dichiarazione consolidata, la quale rimane addebitabile agli amministratori della controllata ai sensi dell'art. 48 CP, sempre che la falsità dei dati trasmessi abbia determinato il superamento delle soglie di punibilità (Sez. 2, 1673/2017).

…Concorso tra amministratore di diritto e amministratore di fatto

L'amministratore della persona giuridica tenuta alla presentazione delle dichiarazioni tributarie, sebbene ricopra solo formalmente la predetta veste, è responsabile, se del caso in concorso con l'amministratore di fatto, quanto meno a titolo di dolo eventuale, nei reati fiscali derivanti dalla omessa presentazione delle prescritte dichiarazioni fiscali, dovendo egli, per effetto della accettazione della carica rivestita, svolgere un'attività di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto (Sez. F, 42897/2018).

…Possibilità di accedere al patteggiamento

Ai sensi dell'art. 13-bis, comma 2, DLGS. 74/2000, introdotto dall'art. 12 DLGS 158/2015, l'applicazione della pen ex art. 444 CPP, per i delitti tributari previsti dal medesimo d.lgs. n. 74/2000, può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all'art. 13, commi 1 e 2; a sua volta, il comma 1 dell'art. 13-bis, richiamato espressamente dal comma 2, prevede che, fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al DLGS 74/2000 sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell'art. 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie. Dunque, in forza del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 13-bis, la condizione per accedere al patteggiamento, per i reati tributari previsti dal DLGS 74/2000, è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso (Sez. 3, 10800/2019).

…Confisca

il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l'operazione posta in essere si realizza in un incremento patrimoniale del reo ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito e che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015). Ancorché il nostro ordinamento non conosca ipotesi di responsabilità penale degli enti o persone giuridiche, ciò nondimeno costituisce jus receptum che il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell'ente o della persona giuridica si configuri, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, come confisca diretta non potendosi considerare la società in tal caso estranea al reato, qualifica questa da cui discende l'ulteriore conseguenza che quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, ad eccezione dell'ipotesi in cui l'ente sia privo di autonomia e costituisca un mero schermo protettivo dell'attività illecita posta in essere dalla persona fisica cui è in via esclusiva riconducibile il profitto derivante dal reato (SU, 10561/2014). Pertanto l'impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica sussiste tutte le volte in cui non sia rintracciabile presso la persona giuridica il profitto del reato tributario commesso nell'interesse dell'ente, ma trattandosi di somme di danaro e dunque di beni di natura fungibili la prova può ritenersi raggiunta comunque quando emerga dagli atti o sia dimostrato che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario o comunque costituenti il profitto tangibile dell'illecito siano nella disponibilità della società. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. Quest'onere va normalmente assolto chiedendo al pubblico ministero di eseguire il sequestro in forma specifica - sempre che tale forma di sequestro sia stata chiesta e ottenuta dal PM, il quale innescherà il meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, CPP, a seguito del quale l'interessato avrà come rimedio, nei confronti dell'eventuale provvedimento negativo del giudice, l'appello cautelare - con contestuale richiesta di revoca del sequestro per equivalente (Sez. 3, 29574/2017).

In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione sulla consistenza patrimoniale della persona giuridica, condotta allo stato degli atti, risulti impossibile l'apprensione diretta del profitto del reato, ossia del denaro, dei beni fungibili o degli altri beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, rimasti nella disponibilità dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato stesso (Sez. 3, 3591/2019); mentre non è consentita la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, tenuta soltanto a responsabilità amministrativa ai sensi del DLGS 231/2000, e non a quella penale (Sez. 1, 33855/2019).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il profitto del reato tributario che si sostanzia in un mancato esborso dell'imposta dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente (Sez. 3, 49631/2014).

 

Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

…Natura del reato

L'emissione di fatture per operazioni inesistenti è reato istantaneo, che si consuma nel momento in cui l'emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest'ultimo lo utilizzi (Sez. 3, 25816/2016).

Il reato di cui all'art. 8 DLGS 74/2000, in palese controtendenza rispetto al principio di offensività che informa il suddetto decreto legislativo il cui impianto generale risulta diretto a sanzionare condotte evasive produttive attraverso la mancata riscossione di quanto dovuto di effettivo danno all'Erario, si configura come una norma che sottopone a tutela penale l'interesse giuridico, in quanto strumentale alla reale ricostruzione della posizione reddituale del contribuente, al corretto esercizio della funzione pubblica di accertamento fiscale da parte dell'amministrazione finanziaria. Avendo il legislatore ritenuto siffatto interesse esposto a pericolo dalla condotta di chi, mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, realizzi una divergenza tra la realtà commerciale e l'espressione documentale della stessa, la fattispecie in esame risulta quindi finalisticamente orientata a contrastare le condotte di evasione fiscale, anticipando le soglie di intervento penale a comportamenti ritenuti prodromici e strumentali all'evasione medesima, ponendosi la suddetta disposizione in rapporto di unitarietà strutturale con la contrapposta figura delittuosa di cui all'art.2 del medesimo decreto che punisce invece l'utilizzatore delle fatture medesime. Ciò premesso, la condotta punibile si configura quanto all'elemento oggettivo solo mediante la condotta attiva di chi, secondo la descrizione normativa, emette o rilascia fatture o altri documenti ideologicamente falsi al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui rediti o sul valore aggiunto, indipendentemente dall'effettivo uso che questi potranno farne, mero post-factum privo di rilievo penale nell'ambito del reato in esame. E poiché il significato dei termini "emissione" e "rilascio si ricava direttamente dal DPR 633/1973, il cui art. 21 dispone che "la fattura si ha per emessa all'atto della consegna o spedizione all'altra parte" dell'operazione commerciale, ne consegue che ai fini del perfezionamento del reato è sufficiente che il documento fuori esca dalla sfera individuale dell'emittente, ovverosia dalla sua disponibilità. Come infatti ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti è reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l'emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest'ultimo lo utilizzi (Sez. 3, 37091/2018).

…Competenza per territorio

In via generale e salvo talune deroghe, l'art. 18, comma 1, DLGS 74/2000 rinvia, per determinare la competenza territoriale in tema di reati tributari, ai criteri previsti dall'art. 8 CPP. Ne consegue che, in siffatta materia, il criterio principale determinativo della competenza per territorio è quello del locus commissi delicti, divenendo sussidiario il criterio fondato sul luogo dell'accertamento del reato ed al quale si potrà fare riferimento solamente nel caso in cui sia impossibile individuare il luogo di consumazione del reato tributario. Ne deriva che, con riferimento ai reati di cui al DLGS 74/2000, va esclusa l'operatività delle regole suppletive di cui all'art. 9 CPP. Una deroga ai principi generali in materia di competenza territoriale è tuttavia prevista con riferimento all'ipotesi di emissione plurima di fatture, fattispecie disciplinata dall'art. 8, comma 2, DLGS 74/2000, nel senso che "ai fini dell'applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato". A tale proposito, l'art. 18, comma 3, - che mutua, con gli opportuni temperamenti, il criterio suppletivo ordinario previsto rispettivamente agli artt. 9, comma 3, e 10, comma 2, CPP - dispone che, con esclusivo riferimento alla fattispecie di cui all'art. 8, comma 2, "è competente il giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p.". Con riguardo all'art. 18, comma 3, la Relazione governativa di accompagnamento del decreto legislativo precisa che il suddetto criterio ha "di mira la fattispecie (...) dell'emissione di più fatture o documenti per operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso periodo d'imposta: ipotesi che (...) è stata configurata come integrativa di un unico reato. Stante la particolare strutturazione dell'ipotesi criminosa, nella quale confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile, in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali). Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo: soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le questioni di competenza, specie nel caso - tutt'altro che infrequente - di scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei singoli documenti, presso il quale ha sede l'ufficio del pubblico ministero che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p.: criterio che ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dagli artt. 9, comma 3, e 10, comma, CPP. Ne deriva che, con la regula iuris di cui all'art. 18, comma 3, il legislatore si è preoccupato di stabilire un criterio legale nel caso di emissione plurima di fatture nel medesimo periodo d'imposta, con la conseguenza che il criterio del luogo di iscrizione nel registro degli indagati del primo procedimento penale opera unicamente nel caso di plurima emissione di fatture nell'ambito del medesimo periodo d'imposte, sicché la disposizione non è, invece, applicabile nel caso di emissione di fatture in diversi periodi d'imposta (Sez. 3, 29519/2019).

…Elemento psicologico

Il dolo specifico di favorire l'evasione fiscale di terzi connota l'elemento soggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (Sez. 3, 7254/2019).

Non ha alcun rilievo il fatto che i destinatari delle false fatture non abbiano coltivato il proposito di evadere o conseguito il fine evasivo, perché il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti si connota come reato di pericolo o di mera condotta, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto anticipandola al momento della commissione della condotta tipica (SU, 1235/2011).

Il fine di "consentire a terzi l'evasione", in quanto oggetto del dolo (specifico), non è evento del reato, tant'è che neppure la presenza di una ulteriore finalità nell'azione delittuosa incide sulla compiuta integrazione della fattispecie di emissione di fatture per operazioni inesistenti, attesa la natura di reato di pericolo astratto per la cui configurabilità è sufficiente il mero compimento dell'atto tipico (Sez. 3, 52411/2018).

L'elemento soggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti è rappresentato dal dolo specifico di favorire l'evasione fiscale di terzi, finalità che può anche concorrere con altri scopi, come quello di trarre un profitto personale (Sez. 3, 44449/2015).

…Irrilevanza del tipo di falsità

Il reato ex art. 8 DLGS 74/2000 si realizza a prescindere dal tipo di falsità (ideologica o materiale), della fattura. Quello che rileva, infatti, è la sostanziale inesistenza delle operazioni - sia sotto il profilo oggettivo e sia soggettivo - di cui alla fattura (Sez. 3, 42458/2018).

Il delitto di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, quando cioè l'operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita e tuttavia non vi sia corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nella fattura od altro documento fiscalmente rilevante e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione, in quanto anche in tal caso è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, finalità questa rivelatasi ben nota al ricorrente (Sez. 3, 25606/2018).

Fatture per operazioni inesistenti sono anche quelle che contengono importi divergenti rispetto a quelli che la medesima prestazione avrebbe giustificato; il rinvio, dunque, è a quella "sovrafatturazione qualitativa" che, per un verso, è stata valorizzata dalla costante giurisprudenza di legittimità proprio per configurare i delitti in esame e, per altro verso, trova preciso fondamento normativo nell'art. 1, comma 1, lett. a), DLGS 74/2000, che - a muover dal testo originario - stabilisce che per "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi (Sez. 3, 37054/2019).

…Profitto del reato

Il profitto del delitto ex art. 8 DLGS 74/2000 è costituito dal prezzo ottenuto per l'emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato (Sez. 3, 25061/2019).

…Concorso tra emittente e utilizzatore

Il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti concorre con l'emittente, secondo l'ordinaria disciplina dettata dall'art. 110 CP, non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dall'art. 9 DLGS 74/2000. Si è ulteriormente chiarito che la disciplina in deroga al concorso di persone nel reato prevista dall'art. 9 citato non si applica laddove il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistenti coincida con l'utilizzatore delle stesse (Sez. 58331/2018).

L'art. 9 DLGS 74/2000, contenente una deroga alla regola generale fissata dall'art. 110 cod. pen. in tema di concorso di persone nel reato, esclude la rilevanza penale del concorso dell'utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente, ma non trova applicazione quando la medesima persona proceda in proprio sia all'emissione delle fatture per operazioni inesistenti, sia alla loro successiva utilizzazione (Sez. 3, 5434/2017).

…Ripartizione dell'onere probatorio

Ai fini della configurabilità del delitto di emissione di fatture od altri documenti per operazioni soggettivamente inesistenti, quando risulti provata dalla pubblica accusa la fittizietà dell'intestazione delle fatture, è onere del soggetto emittente dimostrare la corrispondenza fra il dato fattuale, relativo ai rapporti giuridici che si affermano essere effettivamente intercorsi, e quello documentale, attraverso il quale tali rapporti sono attestati (Sez. 3, 34534/2017).

…Confisca

il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l'operazione posta in essere si realizza in un incremento patrimoniale del reo ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito e che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015). Ancorché il nostro ordinamento non conosca ipotesi di responsabilità penale degli enti o persone giuridiche, ciò nondimeno costituisce jus receptum che il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell'ente o della persona giuridica si configuri, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, come confisca diretta non potendosi considerare la società in tal caso estranea al reato, qualifica questa da cui discende l'ulteriore conseguenza che quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, ad eccezione dell'ipotesi in cui l'ente sia privo di autonomia e costituisca un mero schermo protettivo dell'attività illecita posta in essere dalla persona fisica cui è in via esclusiva riconducibile il profitto derivante dal reato (SU, 10561/2014). Pertanto l'impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica sussiste tutte le volte in cui non sia rintracciabile presso la persona giuridica il profitto del reato tributario commesso nell'interesse dell'ente, ma trattandosi di somme di danaro e dunque di beni di natura fungibili la prova può ritenersi raggiunta comunque quando emerga dagli atti o sia dimostrato che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario o comunque costituenti il profitto tangibile dell'illecito siano nella disponibilità della società. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. Quest'onere va normalmente assolto chiedendo al pubblico ministero di eseguire il sequestro in forma specifica - sempre che tale forma di sequestro sia stata chiesta e ottenuta dal PM, il quale innescherà il meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, CPP, a seguito del quale l'interessato avrà come rimedio, nei confronti dell'eventuale provvedimento negativo del giudice, l'appello cautelare - con contestuale richiesta di revoca del sequestro per equivalente (Sez. 3, 29574/2017).

In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione sulla consistenza patrimoniale della persona giuridica, condotta allo stato degli atti, risulti impossibile l'apprensione diretta del profitto del reato, ossia del denaro, dei beni fungibili o degli altri beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, rimasti nella disponibilità dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato stesso (Sez. 3, 3591/2019); mentre non è consentita la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, tenuta soltanto a responsabilità amministrativa ai sensi del DLGS 231/2000, e non a quella penale (Sez. 1, 33855/2019).

L'art. 12-bis, DLGS 74/2000, che ha sostituito la analoga disposizione di cui all'art. 1, comma 143, L. 244/2007, dispone che nel caso di condanna per uno dei reati previsti dallo stesso decreto è sempre ordinata la confisca dei beni, salvo che appartengano a persona estranea al delitto, che ne costituiscono il profitto od il prezzo (confisca diretta) ovvero, quando essa non è possibile, dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente (confisca per equivalente). Misura questa che deve essere pertanto obbligatoriamente disposta, rispondendo alla ratio di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume "i tratti distintivi di una vera e propria sanzione" (SU, 26654/2008), anche quando non sia stata preceduta in fase cautelare dal sequestro preventivo dei beni medesimi. Sebbene non possa essere disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell'emittente fatture per operazioni inesistenti per il valore corrispondente al profitto conseguito dall'utilizzatore delle fatture medesime, in quanto il regime derogatorio previsto dall'art. 9, DLGS 74/2000 - escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale - impedisce l'applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo, ciò non toglie che la suddetta misura debba essere applicata sul prezzo o profitto del delitto, da identificarsi nell'utilità economica derivante dalla commissione del reato. È ben vero che solo l'utilizzatore delle fatture relative ad operazioni inesistenti ottiene automaticamente un profitto pari al risparmio di imposta che consegue con l'inserimento nella dichiarazione dei redditi o sul valore aggiunto delle fatture per operazioni inesistenti realizzando l'accrescimento, per l'appunto fittizio, dei costi, e che altrettanto non avviene per l'emittente che, realizzando invece una divergenza tra la realtà commerciale e l'espressione documentale della stessa, non acquisisce con l'emissione della falsa fattura alcun vantaggio fiscale: ma non per questo può omettersi di considerare che il reato di cui all'art. 8 DLGS 74/2000, proprio perché finalizzato a consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, implica, di norma,, l'incameramento da parte del suo autore di un compenso, quand'anche inferiore al profitto, ovverosia al risparmio di imposta, conseguito dall'utilizzatore delle fatture ideologicamente false, corrispondente al prezzo del reato medesimo (Sez. 3, 40323/2018).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il profitto del reato tributario che si sostanzia in un mancato esborso dell'imposta dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente (Sez. 3, 49631/2014).

…Possibilità di accedere al patteggiamento

Ai sensi dell'art. 13-bis, comma 2, DLGS. 74/2000, introdotto dall'art. 12 DLGS 158/2015, l'applicazione della pen ex art. 444 CPP, per i delitti tributari previsti dal medesimo d.lgs. n. 74/2000, può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all'art. 13, commi 1 e 2; a sua volta, il comma 1 dell'art. 13-bis, richiamato espressamente dal comma 2, prevede che, fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al DLGS 74/2000 sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell'art. 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie. Dunque, in forza del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 13-bis, la condizione per accedere al patteggiamento, per i reati tributari previsti dal DLGS 74/2000, è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso (Sez. 3, 10800/2019).

 

Occultamento o distruzione di documenti contabili

…Natura del reato

In tema di reati tributari, il delitto di occultamento della documentazione contabile ha natura di reato permanente, in quanto la condotta penalmente rilevante si protrae sino al momento dell'accertamento fiscale, che coincide con il dies a quo da cui decorre il termine di prescrizione» (Sez. 3, 5974/2013).

…Condotte da cui deriva il reato

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la condotta del reato previsto dall'art. 10 DLGS 74/2000, può consistere sia nella distruzione che nell'occultamento delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, con conseguenze diverse rispetto al momento consumativo, giacché la distruzione realizza un'ipotesi di reato istantaneo, che si consuma con la soppressione della documentazione, mentre l'occultamento - consistente nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori - costituisce un reato permanente, che si protrae sino al momento dell'accertamento fiscale, dal quale soltanto inizia a decorre il termine di prescrizione (Sez. 5, 46169/2019).

La condotta del reato previsto dall'art. 10 DLGS 74/2000, può consistere sia nella distruzione che nell'occultamento delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, con conseguenze diverse rispetto al momento consumativo, giacché la distruzione realizza un'ipotesi di reato istantaneo, che si consuma con la soppressione della documentazione, mentre l'occultamento - consistente nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori - costituisce un reato permanente, che si protrae sino al momento dell'accertamento fiscale, dal quale soltanto inizia a decorre il termine di prescrizione (Sez. 7, 56573/2018).

…Impossibilità di ricostruzione del reddito o del volume d'affari

In tema di reati tributari, l'impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d'affari derivante dalla distruzione o dall'occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando è necessario procedere all'acquisizione presso terzi della documentazione mancante (Sez. 7, 46775/2019).

L'irrilevanza - ai fini dell'esclusione del delitto ex art. 10 DLGS 74/2000 - della possibilità di ricostruzione alternativa dei redditi e del volume degli affari discende dalla ratio dell'incriminazione e dal bene giuridico tutelato dalla norma, da individuarsi nell'interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente. L'art. 10 citato sanziona, dunque, l'obbligo di questi di non sottrarre all'accertamento fiscale le scritture ed i documenti contabili. Così individuato l'oggetto giuridico del reato, ne discende che non è rilevante che la ricostruzione delle operazioni prive di documentazione contabile sia possibile attraverso percorsi esterni all'impresa, quali i riscontri incrociati con gli altri soggetti economici con i quali vi sono stati rapporti commerciali, situazione nella quale è palese la violazione del bene giuridico alla trasparenza fiscale del contribuente. In altri termini, la norma sanziona la violazione dell'obbligo di trasparenza fiscale che ricorre in tutti i casi in cui la documentazione dell'impresa non consenta la ricostruzione delle operazioni in ragione della mancanza totale o parziale di questa, restando escluso il reato solo quanto il risultato economico delle operazioni prive di documentazione obbligatoria possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall'imprenditore (Sez. 3, 3057/2018).

In tema di reati tributari, il delitto di cui all'art. DLGS 74/2000, tutelando il bene giuridico della trasparenza fiscale, è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l'occultamento della documentazione contabile dell'impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall'imprenditore e senza necessità di reperire aliunde elementi di prova (Sez. 3, 20748/2016).

L'art. 10 DLGS 74/2000, ai fini dell'individuazione dell'oggetto materiale della condotta di occultamento o distruzione, rimanda, implicitamente, a quelle scritture contabili e a quei documenti che, alla stregua di altre norme, il cui novero è lasciato, peraltro, del tutto "aperto", devono essere obbligatoriamente conservate. Allo stesso tempo, occorre considerare che la ratio della norma incriminatrice, in continuità normativa con la precedente disposizione dell'art. 4 comma 1, lett. b) L. 516/1982, è quella di garantire l'esatto adempimento delle obbligazioni tributarie, per cui i documenti e le scritture contabili in oggetto non possono che essere quelle (e solo quelle) aventi rilievo sotto il profilo fiscale. È per questo motivo, dunque, che ai fini della individuazione di tali documenti, deve guardarsi al DPR 600/1973, recante "disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi" e, in particolare, all'art. 22, ove si specifica, al comma secondo, che «le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d'imposta anche oltre il termine stabilito dall'art. 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie, salvo il disposto dell'articolo 2457 del detto codice», dovendosi al riguardo evidenziare il predetto art. 2220 CC fissa in 10 anni il termine di conservazione delle scritture contabili, prevedendosi che per lo stesso periodo devono conservarsi le fatture, le lettere e i telegrammi ricevuti e le copie di tali documenti spediti. Quanto all'individuazione in concreto delle scritture contabili obbligatorie, il comma secondo della norma sopra citata rimanda, a propria volta, tra le altre disposizioni normative, al codice civile; ne deriva, dunque, che, in forza dell'art. 2214 CC, da intendersi, per quanto appena detto, richiamato dal comma 2 dell'art. 22 DPR 600/1973, tra le scritture contabili obbligatorie devono ritenersi ricomprese, a norma del comma 1, il libro giornale e il libro degli inventari, oltre che, a norma del comma 2, le altre scritture che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa (Sez. 3, 48269/2018).

…Elemento psicologico

In tema di reati tributari, l'accertamento del dolo specifico richiesto per la sussistenza del delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili al fine di evasione presuppone la prova della produzione di reddito e del volume di affari, che può desumersi, in base a norme di comune esperienza, dal fatto che l'agente sia titolare di un'attività commerciale (Sez. 3, 51836/2018).

…Non sono necessari il profitto e il danno

L'art. 10 DLGS 74/2000 configura un delitto che, a differenza degli altri reati previsti dal medesimo decreto, non è ancorato all'esistenza di un profitto o di un danno erariale quantificabili, né prevede un meccanismo automatico di irrogazione di una sanzione amministrativa, ad esempio ai sensi del DLGS 471/1997, per cui rispetto a tale fattispecie il preventivo accertamento dell'estinzione integrale del debito o del ravvedimento operoso risulta inesigibile, a meno che non si verifichi che nei confronti dell'imputato, in relazione alla peculiare condotta illecita descritta dal predetto art. 10, sia eventualmente maturato uno specifico debito erariale che avrebbe potuto essere estinto dal contribuente con gli istituti all'uopo previsti dal sistema tributari (Sez. 3, 10800/2019).

…Accesso al patteggiamento

Ai sensi dell'art. 13-bis, comma 2, DLGS. 74/2000, introdotto dall'art. 12 DLGS 158/2015, l'applicazione della pen ex art. 444 CPP, per i delitti tributari previsti dal medesimo d.lgs. n. 74/2000, può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all'art. 13, commi 1 e 2; a sua volta, il comma 1 dell'art. 13-bis, richiamato espressamente dal comma 2, prevede che, fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al DLGS 74/2000 sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell'art. 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie. Dunque, in forza del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 13-bis, la condizione per accedere al patteggiamento, per i reati tributari previsti dal DLGS 74/2000, è costituita dal preventivo e integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, nonché dal ravvedimento operoso (Sez. 3, 10800/2019).

…Confisca

il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l'operazione posta in essere si realizza in un incremento patrimoniale del reo ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito e che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015). Ancorché il nostro ordinamento non conosca ipotesi di responsabilità penale degli enti o persone giuridiche, ciò nondimeno costituisce jus receptum che il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell'ente o della persona giuridica si configuri, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, come confisca diretta non potendosi considerare la società in tal caso estranea al reato, qualifica questa da cui discende l'ulteriore conseguenza che quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, ad eccezione dell'ipotesi in cui l'ente sia privo di autonomia e costituisca un mero schermo protettivo dell'attività illecita posta in essere dalla persona fisica cui è in via esclusiva riconducibile il profitto derivante dal reato (SU, 10561/2014). Pertanto l'impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica sussiste tutte le volte in cui non sia rintracciabile presso la persona giuridica il profitto del reato tributario commesso nell'interesse dell'ente, ma trattandosi di somme di danaro e dunque di beni di natura fungibili la prova può ritenersi raggiunta comunque quando emerga dagli atti o sia dimostrato che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario o comunque costituenti il profitto tangibile dell'illecito siano nella disponibilità della società. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. Quest'onere va normalmente assolto chiedendo al pubblico ministero di eseguire il sequestro in forma specifica - sempre che tale forma di sequestro sia stata chiesta e ottenuta dal PM, il quale innescherà il meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, CPP, a seguito del quale l'interessato avrà come rimedio, nei confronti dell'eventuale provvedimento negativo del giudice, l'appello cautelare - con contestuale richiesta di revoca del sequestro per equivalente (Sez. 3, 29574/2017).

In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione sulla consistenza patrimoniale della persona giuridica, condotta allo stato degli atti, risulti impossibile l'apprensione diretta del profitto del reato, ossia del denaro, dei beni fungibili o degli altri beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, rimasti nella disponibilità dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato stesso (Sez. 3, 3591/2019); mentre non è consentita la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, tenuta soltanto a responsabilità amministrativa ai sensi del DLGS 231/2000, e non a quella penale (Sez. 1, 33855/2019).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il profitto del reato tributario che si sostanzia in un mancato esborso dell'imposta dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente (Sez. 3, 49631/2014).

 

Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte

…Natura del reato

La fattispecie prevista dall'art. 11 DLGS 74/2000 costituisce reato di pericolo, integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei - secondo un giudizio "ex ente" che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell'Erario - a pregiudicare l'attività recuperatoria dell'amministrazione finanziaria, a prescindere dalla sussistenza di un'esecuzione esattoriale in atto (tra le molte, Sez. 3, 46975/2018). Ai fini dell'integrazione del reato in esame - che sanziona la condotta di chiunque alieni simulatamente o compia atti fraudolenti su beni al fine di sottrarsi al versamento delle imposte o di sanzioni ed interessi pertinenti a dette imposte - non è necessario che sussista una procedura di riscossione in atto, considerato che nella previsione vigente il riferimento a tale procedura appartiene al momento intenzionale e non alla struttura del fatto e non vi è alcun riferimento alle condizioni previste precedentemente dall'art. 97, comma 6, DPR 602/1973, come modificato dall'art. 15, comma 4, L. 413/1991, a mente della quale l'esecuzione tributaria coattiva la quale non configura un presupposto della condotta, in quanto è prevista dalla legge solo come evenienza futura che la condotta, idonea, tende a neutralizzare (Sez. 7, 46523/2019).

L'art. 11 DLGS 74/2000, disposizione la quale mira ad evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche, creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell'Erario. La fattispecie criminosa va qualificata come reato di pericolo concreto, integrato dall'uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare, secondo un giudizio ex ante, l'attività recuperatoria della Amministrazione finanziaria. Oggetto giuridico del reato, pertanto, non è il diritto di credito dell'Erario, bensì la garanzia rappresentata dai beni dell'obbligato, potendosi, pertanto, configurare il reato anche nel caso in cui, dopo il compimento degli atti fraudolenti, si verifichi comunque il pagamento dell'imposta e delle relative sanzioni (Sez. 3, 35853/2016).

Il delitto previsto dall'art. 11 DLGS 74/2000 è reato di pericolo, integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei - secondo un giudizio ex ante che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell'Erario - a pregiudicare l'attività recuperatoria dell'amministrazione finanziaria (Sez. 3, 46975/2018). Ed è evidente che tale giudizio ex ante non può che svolgersi attraverso una comparazione - seppure effettuata in via sommaria e allo stato degli atti - tra il valore del denaro o dei beni occultati e la pretesa dell'erario, dovendosi in ultima analisi valutare se la residua consistenza patrimoniale del debitore sia sufficiente a soddisfare tale pretesa (Sez. 3, 23467/2019).

Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo e si consuma nel momento e nel luogo in cui venga posto in essere qualsiasi atto che possa mettere in pericolo l'adempimento di un'obbligazione tributaria e la consumazione può prolungarsi sino a quando, in ipotesi di più atti tutti idonei a porre in essere una fraudolenta sottrazione, l'offesa permanga per tutto il tempo in cui tali atti vengano posti in essere atti (Sez. 3, 7645/2019).

…Nozione di atto fraudolento

Con riguardo alla nozione di atto fraudolento contenuta nella disposizione dell'art. 11 DLGS 74/2000, laddove, con terminologia mutuata dall' art. 388 CP, si sanziona la condotta di chi, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, deve essere considerato atto fraudolento ogni comportamento che, formalmente lecito (analogamente, del resto, alla vendita di un bene), sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno, ovvero che è tale ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero (per la verità con una sovrapposizione rispetto alla simulazione) ovvero qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione (SU, 12213/2018).

La fraudolenza o la simulazione richieste dall'art. 11 DLGS 74/2000 possono essere realizzate anche mediante il trasferimento di soldi all'estero (Sez. 3, 42936/2019).

Sul rilievo che il reato di cui all'articolo 11 DLGS 74/2000 è integrato dall'uso di mezzi fraudolenti per occultare i propri o altrui beni al fine di sottrarsi al pagamento del debito tributario, delle sanzioni e relativi interessi e che tra tali mezzi fraudolenti vi sono anche le condotte che riguardano specificamente la possibilità di sottoporre ad esecuzione forzata i beni della società - è stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità che anche lo spostamento di sede sociale, con tutte le conseguenze che determina anche in punto di giurisdizione dell'eventuale giudice procedente, costituisce un ostacolo a tale procedura in tutti i casi in cui esso sia giustificato con un trasferimento di proprietà non effettivo, costituendo il risultato finale delle manovre elusive (Sez. 3 , 46975/2018).

Pur integrando la fattispecie ex art. 11 DLGS 74/2000 un reato di pericolo concreto, il delitto si configura attraverso il compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei - secondo un giudizio "ex ante" che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell'Erario - a pregiudicare l'attività recuperatoria dell'amministrazione finanziaria, con la conseguenza che un aumento del capitale sociale - effettuato per consentire ad una società di disporre dell'unico cespite immobiliare di proprietà del contribuente in modo da far apparire, contrariamente al vero, che i beni di detto contribuente non potessero formare oggetto di soddisfazione della pretesa creditoria - integra pienamente il delitto in esame (Sez. 3, 46975/2018).

Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte - qualora si articoli attraverso il compimento di una pluralità di trasferimenti immobiliari, costituenti una operazione unitaria finalizzata a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva - si perfeziona nel momento in cui viene realizzato l'ultimo atto dispositivo (Sez. 3, 51837/2018).

…Competenza per territorio

Per quanto riguarda la competenza per territorio, in relazione all'art. 11, DLGS 74/2000, si osservano gli ordinari criteri fissati dall'articolo 8 CPP, dunque deve farsi riferimento, ai fini dell'individuazione del giudice competente, al luogo ove stato consumato il reato e quindi compiuto l'atto fraudolento. È opportuno sottolineare che si tratta di reato che può consumarsi istantaneamente, sia per quanto riguarda il primo comma per il quale rileva il momento in cui si aliena simulatamente o si compiono altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, sia in relazione al secondo comma, per il quale deve guardarsi al momento in cui si si presenta la documentazione ai fini della procedura di transazione fiscale corredandola di elementi attivi/passivi diversi da quelli reali. Tuttavia, nel caso in cui la condotta si articoli attraverso il compimento di una pluralità di trasferimenti immobiliari, costituenti una operazione unitaria finalizzata a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, il delitto si perfeziona nel momento in cui viene realizzato l'ultimo atto dispositivo e, quindi, la competenza territoriale dovrà essere individuata nel luogo in cui è avvenuta l'ultima vendita dei beni. Qualora sia poi impossibile determinare la competenza, l'articolo 18 DLGS 74/2000 stabilisce che è competente il giudice del luogo di accertamento del fatto di reato. Nei casi di connessione di cui all'articolo 12 CPP, tuttavia, si attua uno spostamento della competenza in quanto la connessione è causa originaria di attribuzione della competenza ad un unico giudice naturale precostituito per legge. Tale connessione può essere oggettiva, nel caso in concorso di persone nel reato doloso e di cooperazione colposa o di più persone che con condotte indipendenti hanno determinato l'evento; soggettiva, nel caso in cui una persona abbia commesso più reati con un'azione o omissione o con più azioni o omissioni poste in essere in tempi diversi ma in esecuzione del medesimo disegno criminoso; teleologica, in caso di reati commessi per eseguire o occultare gli altri. Peraltro, nell'ipotesi di concorso di persone nel reato continuato la connessione fondata sull'astratta configurabilità del vincolo della continuazione può determinare lo spostamento della competenza solo quando l'identità del disegno criminoso è comune a tutti i compartecipi (Sez. 6, 46420/2018). In tali casi risulta pertanto competente il giudice del luogo ove è stato commesso il reato più grave o in caso di pari gravità il primo reato (Sez. 3, 49891/2019).

…Momento della consumazione

Il delitto previsto dall'art. 11, DLGS 74/2000 è reato di pericolo, integrato dall'uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare - secondo un giudizio "ex ante" - l'attività recuperatoria della amministrazione finanziaria. Ne consegue che per individuarne il momento di consumazione può farsi riferimento al primo momento di realizzazione della condotta finalizzata ad eludere le pretese del fisco (Sez. 3, 49891/2019).

…Profitto confiscabile

il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l'operazione posta in essere si realizza in un incremento patrimoniale del reo ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito e che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015). Ancorché il nostro ordinamento non conosca ipotesi di responsabilità penale degli enti o persone giuridiche, ciò nondimeno costituisce jus receptum che il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell'ente o della persona giuridica si configuri, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, come confisca diretta non potendosi considerare la società in tal caso estranea al reato, qualifica questa da cui discende l'ulteriore conseguenza che quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, ad eccezione dell'ipotesi in cui l'ente sia privo di autonomia e costituisca un mero schermo protettivo dell'attività illecita posta in essere dalla persona fisica cui è in via esclusiva riconducibile il profitto derivante dal reato (SU, 10561/2014). Pertanto l'impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica sussiste tutte le volte in cui non sia rintracciabile presso la persona giuridica il profitto del reato tributario commesso nell'interesse dell'ente, ma trattandosi di somme di danaro e dunque di beni di natura fungibili la prova può ritenersi raggiunta comunque quando emerga dagli atti o sia dimostrato che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario o comunque costituenti il profitto tangibile dell'illecito siano nella disponibilità della società. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. Quest'onere va normalmente assolto chiedendo al pubblico ministero di eseguire il sequestro in forma specifica - sempre che tale forma di sequestro sia stata chiesta e ottenuta dal PM, il quale innescherà il meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, CPP, a seguito del quale l'interessato avrà come rimedio, nei confronti dell'eventuale provvedimento negativo del giudice, l'appello cautelare - con contestuale richiesta di revoca del sequestro per equivalente (Sez. 3, 29574/2017).

Il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all'art. 11 DLGS 74/2000, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato. In altre parole, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell'amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase costituenti oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma. Inoltre, è confiscabile qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato che può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario (Sez. 3, 10214/2016; SU, 18374/2013). Infatti, il profitto non deve essere individuato nell'ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, bensì nella somma di denaro la cui sottrazione all'Erario viene perseguita attraverso l'atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, 40534/2015) (riassunzione dovuta a Sez. 3, 49891/2019).

Con riguardo al reato di cui all'art. 11 DLGS 74/2000, il profitto va individuato non nell'ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all'erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo della fattispecie, attraverso l'atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, 36345/2019).

In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione sulla consistenza patrimoniale della persona giuridica, condotta allo stato degli atti, risulti impossibile l'apprensione diretta del profitto del reato, ossia del denaro, dei beni fungibili o degli altri beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, rimasti nella disponibilità dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato stesso (Sez. 3, 3591/2019); mentre non è consentita la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, tenuta soltanto a responsabilità amministrativa ai sensi del DLGS 231/2000, e non a quella penale (Sez. 1, 33855/2019).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il profitto del reato tributario che si sostanzia in un mancato esborso dell'imposta dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente (Sez. 3, 49631/2014).

…Concorso con altre fattispecie

È configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico) (Sez. 5, 35591/2017).

Reato richiamato dalla norma

Art. 2 D. LGS. 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti)

 

Rassegna di giurisprudenza

N. B.: tutte le massime riportate sono precedenti all’entrata in vigore del D. L. 124/2019.

 

Natura del reato e bene giuridico protetto

L’art. 2 del D. LGS. 74/2000 individua un reato commissivo, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto (SU, 1235/2011, Giordano), che si consuma nel momento della presentazione o della trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi (Sez. 3, 37848/2017; Sez. 3, 52752/2014).

La dichiarazione annuale, come è noto, è atto che realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo, ma definitivo dell’evasione di quanto dovuto in forza della dichiarazione stessa; infatti la dichiarazione annuale “fraudolenta”, ossia non solo mendace, ma caratterizzata altresì da un particolare “coefficiente di insidiosità” per essere supportata da un impianto contabile o documentale fittizio e non corrispondente alla realtà delle operazioni commerciali poste in essere, costituisce di certo la fattispecie criminosa ontologicamente più grave.

 È stato sottolineato che tale delitto di tipo commissivo e di mera condotta, ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non avendo rilievo le dichiarazioni periodiche e quelle relative ad imposte diverse, con la conseguenza che il comportamento di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito. Ciò in quanto il delitto di cui all’art. 2 citato è posto a tutela dell’interesse patrimoniale dello Stato a riscuotere ciò che è fiscalmente dovuto e nell’ambito e nei limiti in cui è dovuto in forza del diritto tributario (Sez. 3, 53318/2018).

L’interesse protetto dalla fattispecie di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000 è quello dell’Erario alla percezione dei tributi dovuti, prescindendo dalla realizzazione dell’evasione stessa, di qui l’illiceità penale della dichiarazione fraudolenta, trattandosi di reato di pericolo o di mera condotta (ed a consumazione istantanea), avendo il legislatore inteso rafforzare in via di anticipazione la tutela del bene giuridico protetto (SU, 1235/2011).

 

Elemento oggettivo

 …Consumazione del reato

I delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, D. LGS. 74/2000 si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall’agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento (Sez. 3, 43416/2019).

 Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti è un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno, per cui, ai fini dell’individuazione della data di consumazione dell’illecito, non rileva l’effettività dell’evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l’accertamento della frode (in applicazione di questo principio è stata considerato altresì irrilevante ai fini dell’estinzione del reato il fatto che l’imputato, successivamente alla presentazione alla Agenzia delle entrate della dichiarazione fraudolenta, ne avesse presentata un’altra corretta, entro il termine di cui all’art. 2, comma 7, DPR 322/1988, che sostituiva la precedente dichiarazione) (Sez. 3, 16459/2017).

 In tema di reati tributari, i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, D. LGS. 74/2000, si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall’agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento (Sez. 3, 52752/2014).

 

…Operazioni inesistenti

Il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti  è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni indicate nelle fatture, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’iva, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura; in definitiva, la fattispecie di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000 deve ritenersi ravvisabile, con riferimento all’evasione delle imposte dirette, solo laddove vengano in rilievo operazioni oggettivamente inesistenti, ovvero vengano esposti nelle dichiarazioni dei costi mai sostenuti, mentre è solo in ordine all’evasione dell’IVA che rilevano, oltre alle operazioni oggettivamente inesistenti, anche quelle che integrino una simulazione soggettiva, cioè quando la fattura riporti l’indicazione di nominativi diversi rispetto agli effettivi partecipanti all’operazione imponibile; l’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è infatti circostanza indifferente ai fini dell’IVA, dal momento che la qualità dei venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre, fondandosi il sistema dell’Iva sul presupposto che tale imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, non entrando nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, per cui esporre dati fittizi anche solo soggettivamente significa creare le premesse per un rimborso al quale non si ha diritto (Sez. 3, 16768/2019).

 Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione (ovvero quando la stessa non sia mai stata posta in essere nella realtà), sia in quella di inesistenza relativa (ovvero quando l’operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura) sia, infine, nel caso di sovrafatturazione “qualitativa” (ovvero quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti), in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Sez. 3, 52411/2018).

 Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000, assume rilievo anche l’inesistenza soggettiva dell’operazione, che si ha quando la prestazione oggetto di imposizione c’è stata, ma tra soggetti diversi da quelli indicati nelle fatture (sul concetto di operazioni inesistenti in tema di reati tributari (Sez. 3, 38185/2017).

 

Elemento soggettivo

Il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 D. LGS. 74/2000, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (Sez. 3, 52411/2018).

 Siccome per il perfezionamento del reato è necessario il dolo specifico, l’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti deve sussistere al momento della consumazione del reato, coincidente con la presentazione o la trasmissione in via telematica della dichiarazione nella quale sono indicati gli elementi passivi fittizi, e non, invece, in quello, antecedente, dell’annotazione in contabilità della fattura falsa (Sez. 3, 37848/2017).

 Il fatto che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia costituito da una finalità (evasiva) ulteriore rispetto a quella diretta alla realizzazione dell’evento tipico (presentazione della dichiarazione fraudolenta) non esclude affatto, ma anzi presuppone, che il dolo richiesto per detta realizzazione sia invece quello generico, comprensivo, quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile appunto nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione materialmente posta in essere abbia ad oggetto fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, quindi, che detta azione sia finalizzata ad evadere le imposte dirette o l’IVA.

Va anche ricordato, a questo proposito, che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti si connota come reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno, per cui non rileva l’effettività dell’evasione, né, tanto meno, dispiega alcuna influenza l’accertamento della frode (Sez. 3, 25808/2016).

 Il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extra-evasiva (Sez. 3, 27112/2015) e va ribadito che il relativo accertamento è riservato al giudice di merito e, se adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. Deve inoltre essere aggiunto che ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 2 non ha rilievo che non vi sia stata alcuna incidenza dell’annotazione in contabilità delle fatture per operazioni inesistenti quanto alla base imponibile ai fini delle imposte dirette (Sez. 3, 53318/2018).

 Nel delitto di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000, il dolo è ravvisabile nella consapevolezza, in chi utilizza il documento in dichiarazione, che colui che ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall’emittente, conseguendo in tal modo un indebito vantaggio fiscale in quanto l’iva versata dall’utilizzatore della fattura non è stata pagata dall’esecutore della prestazione medesima (in motivazione, la Corte ha precisato che il principio di diritto tributario, per il quale incombe sull’Erario l’onere di provare che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento della detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore, non può essere automaticamente trasposto in sede penale, attesa l’autonomia fra i relativi procedimenti, donde è esclusivamente al giudice penale che, sulla base degli elementi di fatto oggetto di libera valutazione ai fini probatori, compete accertare la configurabilità di eventuali illeciti penali) (Sez. 3, 19012/2015).

 

Concorso dell’extraneus

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 2 D. LGS. 74/2000 è reato proprio nel senso che di esso risponde colui che è tenuto, a norma delle leggi tributarie, alla presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

Ciò, peraltro, non esclude, alla stregua dei principi generali che regolano il concorso dell’extraneus nei reati propri, che anche costui possa essere chiamato a rispondere del reato in questione, essendo tuttavia necessario, a tale riguardo, che egli abbia posto in essere un comportamento che abbia contribuito, anche solo agevolandola, alla realizzazione della condotta posta in essere dall’autore principale (Sez. 3, 22304/2017).

 In tema di reati tributari, il prestanome non risponde dei delitti in materia di dichiarazione previsti dal D. LGS. 74/2000 solo se è privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società.

Deve, infatti, ricordarsi come il prestanome che, accettando la carica ha anche accettato i rischi ad essa connessi, risponde comunque a titolo di dolo eventuale esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi pongano in essere, attraverso il paravento loro prestato con la carica ricoperta, attività non legali, in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 CC, in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi  (Sez. 3, 47110/2013, richiamata adesivamente da Sez. F, 42897/2018).

 

Sequestro e confisca

Quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta.

Ciò in quanto l’art. 322-ter CP, richiamato dall’art. 1, comma 143, L. 244/2007, stabilisce che, per procedere, nel corso del procedimento penale, al sequestro finalizzato alla confisca di altri beni di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto del reato, è necessario l’accertamento del presupposto costituito dalla impossibilità di sequestrare in via diretta i beni che costituiscono il profitto del reato stesso, quindi si può procedere a porre il vincolo preventivo, su beni diversi per un valore corrispondente, solo ove sia impossibile sottoporre a sequestro i beni che si identificano con il prezzo o il profitto del reato.

 In proposito, le Sezioni unite hanno ribadito che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (SU, 31617/2015, Lucci) e che, qualora il prezzo o il profitto cd. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, il sequestro delle somme, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificato come sequestro cd. diretto e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto del vincolo preventivo e il reato.

Le Sezioni unite hanno in precedenza anche affermato come sia consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia rimasto nella disponibilità della persona giuridica.

In siffatto caso, ossia solo quando sia possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, che non può considerarsi, in questo caso, terza estranea al reato (SU, 10561/2014, Gubert).

 Ne deriva che, quando il sequestro cd. diretto del profitto del reato tributario non è possibile nei confronti della società, non è di conseguenza consentito nei confronti dell’ente collettivo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, salvo che la persona giuridica costituisca uno schermo fittizio.

La ragione di ciò scaturisce dal fatto che i reati tributari non sono ricompresi (ai sensi del D. LGS. 231/2001) nella lista di quelli che consentono il sequestro per equivalente nei confronti di una persona giuridica. Tuttavia l’impossibilità del sequestro del profitto del reato (sequestro cd. diretto o in forma specifica) può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato.

 È stato anche sottolineato che la fase della ricerca del profitto cd. diretto si esaurisce inevitabilmente nel periodo coincidente con la fase genetica della cautela reale ed immediatamente dopo la sua applicazione, perché il sequestro per equivalente nei confronti dell’autore del reato, soprattutto il suo mantenimento, supera la questione della reperibilità del profitto diretto da parte della persona giuridica in quanto l’aggressione dei beni per equivalente postula l’impossibilità genetica o funzionale, quantunque in ipotesi transitoria, di ricorrere al sequestro diretto (Sez. 3, 42946/2019).

 

“Doppio binario punitivo” e principio del ne bis in idem

È preclusa la deducibilità della violazione del divieto di “bis in idem” in conseguenza della irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura “sostanzialmente penale” – secondo l’interpretazione dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU data dalle decisioni emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014 – quando la prima sanzione sia stata inflitta ad un soggetto giuridico diverso da quello al quale sia stata ascritta, nel successivo procedimento penale, la violazione costituente reato, non potendosi ritenere, in tal caso, che il fatto sia corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale (da ultimo: Sez. 3, 24309/2017).

 Dunque, non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 649 CPP, quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente “penale” ai sensi dell’art. 7 CEDU, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa (Sez. 3, 43809/2015).

Il principio del ne bis in idem è dunque inapplicabile, come del resto riconosciuto anche dalla stessa giurisprudenza della CGUE. nella sentenza 5 aprile 2017 (cause riunite n. C-217/15 e C-350/15), in cui la Corte eurounitaria ha affermato che il “fatto di infliggere sia sanzioni tributarie che sanzioni penali non costituisce una violazione dell’articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, qualora le sanzioni di cui trattasi riguardino persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte”.

In ragione di ciò, l’articolo 50 CDFUE, conclude la CGUE, non osta ad una normativa nazionale che consenta di avviare un procedimento penale (nella specie, per omesso versamento dell’IVA), in seguito all’applicazione della sanzione tributaria, qualora la sanzione sia stata inflitta ad una società con personalità giuridica mentre il procedimento penale venga avviato nei confronti della persona fisica, legale rappresentante (riassunzione dovuta a Sez. F, 42897/2018).

 

Frodi gravi in materia di Iva (cosiddetta vicenda Taricco)

In considerazione della sua pertinenza al genus dei reati tributari di cui è parte il delitto ex art. 2 D. LGS. 74/2000, si conclude la rassegna con una scelta giurisprudenziale sulla cosiddetta saga Taricco, originata da una notissima pronuncia della CGUE in tema di prescrizione delle frodi Iva di rilevante gravità.

 Come è noto la CGUE (Grande Sezione), con sentenza resa in data 8 settembre 2015 (in causa C-105/14), ha affermato che il combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, come modificato dalla L. 251/2005, e dell’articolo 161 e, nella parte in cui prevedono che un atto interruttivo della prescrizione verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA, comporti il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, nell’ipotesi in cui tali disposizioni nazionali impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’UE, o in cui prevedano, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’UE.

 In questa prospettiva, il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dalle menzionate disposizioni normative. Investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della L. 130/2008, sulla ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, nella parte in cui, imponendo di applicare l’articolo 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza “Taricco”, determina la disapplicazione, in alcuni casi, del disposto degli articoli 160, terzo comma, e 161, secondo comma, c.p., in relazione ai reati in materia di IVA, che costituiscono frode in danno degli interessi finanziari dell’UE, la Corte costituzionale, con ordinanza 24/2017, disponeva un rinvio pregiudiziale alla CGUE per l’interpretazione relativa al significato da attribuire all’art. 325 TFUE ed ai principi affermati nella sentenza “Taricco”.

Secondo la Corte costituzionale, l’eventuale applicazione della “regola Taricco” nel nostro ordinamento potrebbe condurre alla violazione del contenuto degli articoli 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, non consentita neppure alla luce del primato del diritto UE.

 In particolare, il giudice delle leggi si soffermava sul profilo di un’eventuale violazione del principio di legalità dei reati e delle pene che potrebbe derivare dall’obbligo, enunciato dalla “sentenza Taricco”, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, in considerazione, da un lato, della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione stabilite nell’ordinamento giuridico italiano, la quale implica che dette norme siano ragionevolmente prevedibili per i soggetti dell’ordinamento al momento della commissione dei reati contestati senza poter essere modificate retroattivamente in peius; dall’altro, della necessità che qualunque normativa nazionale relativa al regime di punibilità si fondi su una base giuridica sufficientemente determinata, al fine di poter delimitare e orientare la valutazione del giudice nazionale.

 Nell’affrontare le questioni poste dalla Corte costituzionale, la Grande Sezione della CGUE, con sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, ha, innanzitutto, riconosciuto che i requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività inerenti al principio di legalità dei reati e delle pene si applicano, nell’ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA.

Ne discende, da un lato, l’affermazione secondo cui spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dalla “sentenza Taricco”, secondo cui le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’UE, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano, quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile, per cui, se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161.

Dall’altro, il principio che i menzionati requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività, ostano a che, nei procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della  pronuncia della “sentenza Taricco”, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015, il giudice nazionale possa disapplicare le disposizioni del codice penale in precedenza indicate, in quanto tali persone verrebbero ad essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

 Alla luce di tali considerazioni, il giudice europeo ha risolto la questione pregiudiziale posta dalla Corte Costituzionale dichiarando che «l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».

 Alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza cd. “Taricco-bis” – che, nella sostanza, ha ribadito i contorni della “regola Taricco”, ma ha confermato che essa può trovare applicazione solo se è rispettosa del principio di legalità in materia penale, nella duplice componente della determinatezza e del divieto di retroattività – la Corte costituzionale, con sentenza 115/2018 del 31 maggio 2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale (sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Milano) dell’articolo 2 della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona (L. 130/2008), là dove dà esecuzione all’articolo 325 del TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia con la “sentenza Taricco”, ritenendo che i giudici non siano tenuti ad applicare la “regola Taricco” sul calcolo della prescrizione, stabilita dalla CGUE con la sentenza dell’8 settembre 2015 per i reati in materia di IVA.

 Ad avviso della Consulta, in particolare, indipendentemente dalla collocazione del momento di consumazione dei reati, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione.

Un istituto, infatti, che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza, sicché appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé.

 Quest’ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell’art. 325 TFUE, risulta irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita.

Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.). Nella prospettiva fatta propria dalla Corte costituzionale, peraltro, indeterminato appare il contenuto normativo dell’art. l’art. 325 TFUE, in punto di prevedibilità, non consentendo ai consociati di prospettarsi la vigenza della “regola Taricco”.

 Sotto tale profilo il giudice delle leggi ribadisce che il principio di determinatezza ha una duplice direzione, non limitandosi a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale, mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma (e verrebbe da dire soprattutto) anche assicurando a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (sentenze 327/2008 e 5/2004; nello stesso senso, sentenza 185/1992).

Pertanto, quand’anche la “regola Taricco” potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a «colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza 327/2008). Infatti, se è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche» (sentenza 364/1988), resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione» (sentenza 364/1988).

 Fermo restando, dunque, che compete alla sola CGUE interpretare con uniformità il diritto UE, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la “sentenza Taricco-bis”, un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento.

L’inapplicabilità della “regola Taricco”, peraltro, ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto UE, sicché non vi è, ad avviso del giudice delle leggi, alcuna ragione di contrasto. Ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento.

 Nel solco interpretativo sinteticamente riassunto, si colloca un recente e condivisibile arresto di legittimità, in cui, partendo proprio dai principi affermati nella sentenza della CGUE “Taricco-bis” e nella ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, si afferma che in tema di reati tributari commessi antecedentemente alla sentenza della Grande Sezione della CGUE, pronunciata l’8/09/2015 in causa C105/14, Taricco, continua ad applicarsi integralmente la normativa sulla prescrizione, non potendo il giudice nazionale disapplicarla stante il divieto di irretroattività, ai sensi dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, così come interpretato dalla CGUE (Grande Sezione) con sentenza del 05/12/2017, in causa C- 42/17 (Sez. 2, 9494/2018) (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 5, 41419/2018).