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Art. 15 - Commissario giudiziale

1. Se sussistono i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:

a) l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività;

b) l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione.

2. Con la sentenza che dispone la prosecuzione dell’attività, il giudice indica i compiti ed i poteri del commissario, tenendo conto della specifica attività in cui è stato posto in essere l’illecito da parte dell’ente.

3. Nell’ambito dei compiti e dei poteri indicati dal giudice, il commissario cura l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice.

4. Il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato.

5. La prosecuzione dell’attività da parte del commissario non può essere disposta quando l’interruzione dell’attività consegue all’applicazione in via definitiva di una sanzione interdittiva.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

L’articolo 15 disciplina le ipotesi in cui le sanzioni interdittive sono indirizzate verso enti che svolgono un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità.

La legge delega, dopo aver previsto come sanzione interdittiva quella dell’interdizione anche temporanea dall’esercizio dell’attività, prescrive l’eventuale nomina di un altro soggetto per l’esercizio vicario della medesima quando la prosecuzione dell’attività è necessaria per evitare pregiudizio a terzi (v. art. 11, comma 1, lettera l), n. 3).

Questa previsione impone un’attenta interpretazione, diretta a garantire una traduzione normativa che risulti coerente con la struttura e le finalità del sistema sanzionatorio.

In primo luogo, va rilevato che il riferimento al grave pregiudizio a terzi come condizione per la prosecuzione dell’attività da parte di un soggetto vicario, denota, se interpretato alla lettera, un’orbita applicativa troppo ampia e tale da vanificare l’applicabilità delle sanzioni interdittive che precludono l’esercizio di una attività.

È risaputo, infatti, che l’irrogazione di una qualsiasi sanzione è comunque in grado di provocare ripercussioni negative verso altri soggetti. Così, per fare un esempio, i familiari di un soggetto condannato ad una pena detentiva risentiranno, a livello di reddito familiare, dei mancati introiti derivanti dallo stato di detenzione del loro congiunto; come pure si troveranno costretti a cessare l’esercizio di un’attività imprenditoriale in cui il detenuto svolgeva un ruolo insostituibile.

Allo stesso modo, la sanzione interdittiva che impedisce all’ente di svolgere la sua attività può recare pregiudizio ai creditori o ai livelli occupazionali. Sta di fatto che non può certamente essere questo il tipo di pregiudizio sufficiente a vanificare l’applicazione della sanzione interdittiva.

Se così fosse, questo tipo di sanzioni non potrebbe mai avere luogo. Sembra allora indispensabile circoscrivere la tipologia del pregiudizio e il percorso privilegiato dal Governo è stato quello di accordare salvaguardia ai soli interessi della collettività: si è così previsto che la sanzione interdittiva possa essere sostituita dall’esercizio vicario dell’attività quando la sanzione colpisce un ente che svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica utilità, la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività.

Solo il riferimento allo svolgimento di un pubblico servizio è in grado di restituire l’immagine di un pregiudizio collettivo, che trascende dalla mera lesione di diritti individuali o di aspettative legati all’esercizio di attività economiche che non coinvolgono immediatamente l’interesse del pubblico alla fruizione di un servizio.

Detto in altri termini, non è immaginabile che un sistema sanzionatorio, che ambisca a definirsi tale, possa prevedere la non applicabilità di talune sanzioni quando dalla loro irrogazione possa derivare la lesioni di posizioni giuridiche soggettive o di interessi di mero fatto, destinati fisiologicamente a risentire degli svantaggi conseguenti all’applicazione di qualsiasi tipo di sanzione.

Solo se l’attività svolta dall’ente concerne servizi a cui attinge l’intera collettività, può prefigurarsi un meccanismo derogatorio, giustificato proprio dall’esigenza di garantire la continuità del servizio.

Ma non basta. La qualificazione in termini di gravità del pregiudizio appare comunque necessaria per evitare comodi aggiramenti delle sanzioni interdittive, specie quando la loro irrogazione non compromette in modo apprezzabile la funzionalità del pubblico servizio.

Quanto alla tipologia di sanzioni interdittive interessate da questo fenomeno di “sostituzione”, la legge delega sembrerebbe richiamare la sola sanzione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività. Si tratta, a ben vedere, di una limitazione non del tutto ragionevole: la rilevanza pubblica dell’attività svolta dall’ente impone di estendere il meccanismo sostitutivo a tutte quelle ipotesi in cui l’applicazione di alcune sanzioni interdittive comporti l’interruzione del servizio.

Ne deriva la necessità di ricomprendervi, ad esempio, la sanzione della revoca o della sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni che legittimano lo svolgimento dell’attività. Nel comma 1 dell’articolo 15, si è previsto, perciò, in via generale, che il giudice possa disporre la prosecuzione dell’attività da parte di un commissario in luogo di una sanzione interdittiva a cui consegua l’interruzione dell’attività.

La durata del commissariamento è pari a quella della sanzione che il giudice avrebbe inflitto. Con la sentenza di condanna, il giudice indica i compiti e i poter del commissario, tenendo conto del ramo di attività e del settore in cui è stato consumato l’illecito.

Ne deriva, pertanto, che il giudice calibrerà l’intensità della sostituzione gestoria sulle caratteristiche dell’illecito, con particolare riguardo alle attività in cui lo stesso si è verificato. Inoltre, il commissario curerà l’adozione e l’attuazione dei modelli organizzativi diretti a prevenire il rischio-reato, sulla base delle indicazioni che il giudice indicherà nella sentenza.

Si prevede, poi, che il commissario non possa svolgere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice. Egli provvederà, infine, alla confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività.

Quest’ultima disposizione è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta.Va, infine, chiarito che la sostituzione commissariale opera solo con riguardo alle sanzioni interdittive temporanee: quelle che comportano l’interruzione in via definitiva dell’attività si fondano  come si vedrà tra breve  su presupposti applicativi che restituiscono l’immagine di un ente ormai irrecuperabile ad una prospettiva di legalità.

 

Rassegna di giurisprudenza

Il commissariamento giudiziale è una misura finalizzata ad evitare che, in determinate situazioni, l’accertamento della responsabilità dell’ente si risolva in un pregiudizio per la collettività: al posto della sanzione o della misura cautelare interdittiva, idonea ad interrompere l’attività dell’ente, si prevede, per un periodo temporaneo, una sorta di “espropriazione” dei poteri direttivi e gestionali che sono assunti dal commissario, sulla base delle indicazioni impartite dall’autorità giurisdizionale.

In questo senso, si giustifica anche l’onere del commissario di attuare i MOG, in quanto la sostituzione trova la sua ragione d’essere anche nel far recuperare una situazione di legalità organizzativa all’ente, evitando che si possano ripetere gli stessi illeciti.

Peraltro, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, 43108/2011), in occasione della nomina in sede cautelare del commissario giudiziale, il giudice deve indicare i “compiti ed i poteri” dello stesso, tenendo conto della specifica attività svolta dall’ente e della situazione in cui si trovava il vertice della società.

Si tratta di indicazioni funzionali per la corretta gestione dell’ente nella delicata fase cautelare, ma che acquistano un rilievo particolare anche in relazione alla valutazione di adeguatezza della misura sostitutiva in questione: dinanzi alla forte invasività delle misure interdittive nella vita dell’ente il legislatore ha voluto che il giudice tenga conto della realtà organizzativa dell’ente sia per “neutralizzare il luogo nel quale si è originato l’illecito”, sia per applicare la misura valorizzandone l’adeguatezza e la proporzionalità, nel rispetto del criterio dell’extrema ratio, limitando, ove possibile, la misura solo ad alcuni settori dell’attività dell’ente.

Ed è quindi alla luce del ruolo e dei poteri conferiti al commissario nominato nella fase cautelare che va verificato il perimetro esatto della sua attività, con l’individuazione degli organi societari che devono essere sostituiti (Sez. 6, 54036/2017).

Qualora nel corso del procedimento per l’accertamento della sua responsabilità amministrativa da reato l’ente venga commissariato ai sensi dell’art. 45, comma 3, l’acconto sul compenso liquidato al commissario non può essere posto a carico dell’ente medesimo fino alla sua eventuale definitiva condanna e la relativa spesa deve nel frattempo essere anticipata dall’erario ai sensi dell’art. 4 d.P.R. n. 115 del 2002, norma applicabile anche nel suddetto procedimento (Sez. 4, 15157/2008).

A norma dell’art. 4 del T.U. sulle spese di giustizia infatti «le spese del processo penale sono anticipate dall’erario, ad eccezione di quelle relative agli atti chiesti dalle parti private e di quelle relative alla pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’articolo 694, comma 1, del codice di procedura penale e dell’articolo 76, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231».

Soltanto una volta divenuta esecutiva la condanna, l’art. 79 pone le spese relative all’attività svolta dal commissario e al suo compenso a carico dell’ente. Gli stessi principi valgono naturalmente, ai sensi dell’art. 4 citato, anche per il coadiutore del commissario, la cui opera è integrativa dell’attività di quest’ultimo, svolgendo funzioni di collaborazione e di assistenza nell’ambito e per gli scopi della procedura (Sez. 6, 54036/2017).

Nella fase cautelare, il provvedimento di nomina del commissario, a differenza del procedimento previsto dal disposto degli artt. 15 e 79, è contestuale alla verifica dei presupposti che giustificano la prosecuzione dell’attività dell’ente, sicché è il giudice della cautela che, nello stesso provvedimento con cui dispone la prosecuzione, nomina anche il commissario (Sez. 6, 20560/2010). Ne consegue che il contraddittorio anticipato spiega i suoi effetti anche sulla nomina del commissario giudiziale in fase cautelare (Sez. 6, 54036/2017).

Non può applicarsi la misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare con la p.a., ma deve nominarsi un commissario giudiziale ai sensi degli art. 15 e 45, nei confronti di un ente che lavori prevalentemente nel settore degli appalti pubblici, poiché l’interruzione dell’attività avrebbe ripercussioni negative sull’occupazione (Tribunale di Roma, 4 aprile 2003).

Nel corso di un procedimento per l’accertamento dell’illecito amministrativo, non è applicabile nei confronti dell’ente una misura cautelare interdittiva più gravosa di quella richiesta dal PM, (nella specie, il giudice ha rigettato l’istanza della difesa dell’ente, di nominare un commissario giudiziale in luogo della misura cautelare richiesta dall’accusa della revoca dei finanziamenti già concessi, sul presupposto che la nomina del commissario è consentita solo in conseguenza delle più gravi misure interdittive che determinano l’interruzione dell’attività dell’ente (Tribunale di Salerno, 28 marzo 2003).