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Coltivazione domestica di marijuana

Tribunale di Roma, Sez. V - sent. 2 luglio 2020, n. 5325 - Est. Politi, Imp. M.
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All’indomani della recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione le quali, rivedendo il proprio orientamento espresso nel 2008, hanno fissato un punto fermo con riguardo alla querelle interpretativa in materia di coltivazione di sostanze stupefacenti, il Tribunale di Roma ha emesso, all’esito di giudizio abbreviato, un’interessante sentenza assolutoria - ai sensi dell’articolo 530 secondo comma codice procedura penale – coerente con i principi di diritto ricavabili dalla sentenza N. 12348/20.

La polizia giudiziaria nel corso di un’attività finalizzata al controllo di due cittadini albanesi, effettuava una perquisizione presso l’abitazione di G.M. rinvenendo quattro piantine di marijuana, riconosciute come proprie dall’interessato. Quest’ultimo, nell’immediatezza, dichiarava di fare un massiccio uso personale della sostanza stupefacente de qua, a causa di alcune patologie psichiatriche di cui era sofferente.

Arrestato in flagranza di reato, il M. era presentato innanzi il Tribunale di Roma per la convalida dell’arresto ed il contestuale giudizio direttissimo. Nelle more, mediante consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, si accertava che dalle piante sequestrate, alte all’incirca 110 cm ciascuna, dopo la procedura di essiccamento sarebbe stato possibile ricavare un quantitativo pari a g. 150,3 di marijuana, con una presenza di THC pari al 3,1% per un totale di 186 dosi medie singole. 

Era contestato il delitto di cui all’articolo 73, comma 4 d.P.R. 9.10.1990 n. 309, in relazione agli articoli 26 e 28 dello stesso d.P.R., perché, senza essere in possesso di autorizzazione, l’imputato poneva in essere una coltivazione di n. 4 piantine di “Cannabis Indica”.  

In occasione dell’interrogatorio ex articolo 391 comma 3 codice procedura penale l’arrestato ribadiva di essere il proprietario delle piantine in sequestro e di averle coltivate ai fini di un esclusivo consumo personale per le ragioni sopra evidenziate. Convalidata la precautela personale, in assenza di richieste cautelari, l’imputato chiedeva definirsi il giudizio con le forme di cui all’articolo 438 codice procedura penale. Con la sentenza in commento il Tribunale ha affrontato e risolto, in sintonia con il più recente arresto delle Sezioni Unite, la questione circa la liceità penale o non della coltivazione di piante da cui possa ricavarsi sostanza stupefacente per uso personale.

La risposta a siffatto quesito non è stata univoca nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni: da un lato una corrente interpretativa ha sostenuto - a prescindere dalle caratteristiche della coltivazione - la rilevanza penale della condotta in esame, dall’altro un opposto filone ha affermato che la condotta non è punibile quando sono integrati determinati requisiti, che la rendono concretamente inoffensiva del bene giuridico tutelato e, dunque, non riconducibile all’ambito di applicazione della norma penale. 

Secondo un primo orientamento delle Sezioni Unite, quando la pianta risulta conforme al tipo botanico previsto, a nulla rileva la modalità di coltivazione o la destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente raccolta, poiché «qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alla fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere, pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave» (Cass., Sez. Un., 10 luglio 2008, n. 28605). Tale corrente giurisprudenziale propendeva a ricondurre nel fuoco dell’articolo 73 d.P.R. 309/1990 tutte le condotte di coltivazione non autorizzata di piante da cui fossero estraibili principi attivi di sostanze stupefacenti, specificando inoltre - in conformità con la sentenza n. 360 del 1995 della Corte Costituzionale - l’impossibilità di un’equiparazione punitiva tra la condotta di detenzione per uso personale (costituente illecito amministrativo) e quella di coltivazione, in quanto ontologicamente differenti in concreto; difettando nella prima quel nesso di immediatezza con il consumo che è invece presente nella detenzione, essendo quest’ultima la fase prettamente antecedente all’assunzione.  

Nulla quaestio sulla connotazione di reato di pericolo della condotta di coltivazione che rimane integrata in relazione all’idoneità a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, nonché di incrementare la sostanza stupefacente sul mercato e potenzialmente, quindi, l’attività di spaccio.

La Corte costituzionale ha evidenziato in diverse pronunce - in particolare la sentenza n. 109 del 2016 - che il principio di offensività è compatibile con il reato di pericolo presunto, in particolar modo considerando la valutazione prognostica, e quindi in astratto, dell’idoneità della condotta a ledere il bene giuridico tutelato, ed ha così ritenuto legittima la previsione di una tutela anticipata quando il legislatore operi seguendo il canone dell’id quod plerumque accidit.

Dopo il 2008 si sono formate due differenti correnti giurisprudenziali in merito all’offensività in concreto: in alcune pronunce è stata ritenuta sufficiente, ai fini della punibilità della condotta, la conformità della pianta al tipo botanico vietato e la sua capacità a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente; in altre, si è ritenuto necessario per l’integrazione della fattispecie di reato, valutare un elemento in più -oltre alla conformità della pianta coltivata al tipo botanico proibito e alla capacità della stessa a produrre sostanza drogante -, ovvero la concreta idoneità della suddetta condotta ad aumentare la disponibilità della sostanza stupefacente in circolazione sul mercato, mettendo a rischio la salute pubblica.

L’innovativa interpretazione delle Sezioni Unite che caratterizza la sentenza n. 12348 del 2020, aggiunge un quid pluris alla considerazione che le condotte di coltivazione, fabbricazione e produzione siano maggiormente pericolose rispetto alle altre elencate dall’articolo 73 d.P.R. n. 309/1990, mettendo in luce l’importanza di una differenziazione tra “coltivazione di tipo tecnico-agrario” e “coltivazione domestica” e reputando quest’ultima non riconducibile nell’alveo del penalmente rilevante quando, sussistendo dati requisiti, sia evidente l’oggettivo nesso di immediatezza con l’uso personale.

Il Tribunale in composizione monocratica nella motivazione della sentenza in esame si è uniformato pedissequamente alle indicazioni degli Ermellini.

Alla base della dissertazione è stata in primis individuata la sussistenza della rilevanza penale quando la pianta sia conforme al tipo botanico previsto e ne sia acclarata l’attitudine a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente, anche per le modalità di coltivazione, in base al principio di tipicità. Tuttavia, restano escluse dall’ambito di applicazione della norma penale «le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore» (Cass., Sez. Un. 12348/20).

Nel caso di specie, il Tribunale monocratico ha assolto l’imputato poiché il fatto non è previsto dalla legge come reato, ricorrendo la fattispecie di illecito amministrativo di cui all’articolo 75 d.P.R. 309/90 ed ha ritenuto sussistenti tutti i predetti indici oggettivi elaborati dal Supremo Collegio: esclusa l’esistenza di collegamenti del M. con organizzazioni dedite allo spaccio, ha considerato esiguo il numero di piantine sottoposte a cautela reale (quattro, di cui una secca e quindi non idonea a produrre sostanza stupefacente) da cui era ricavabile un quantitativo di sostanza stupefacente pari a g. 150,3 di marijuana, peraltro coltivate in una piccola stanza, con due lampade, con modalità chiaramente rudimentali.

A ben vedere nel testo dell’articolo 75 d.P.R. 309/90, rubricato «Condotte integranti illeciti amministrativi», non compare la condotta di coltivazione di stupefacenti per uso personale, ma solo quella della detenzione per il medesimo fine; ne consegue che, come nel caso in esame, il soggetto agente non risulterà destinatario di sanzioni amministrative in qualità di coltivatore, bensì quale detentore di sostanza stupefacente a scopo di autoconsumo; al contrario, nel caso in cui la condotta di coltivazione sia penalmente rilevante, la detenzione si considererà assorbita dalla coltivazione e risulterà come un post factum non punibile.

La novità della sentenza delle Sezioni Unite e, conseguentemente, della pronuncia in commento, è da riscontrarsi nella decisiva introduzione di requisiti oggettivi della condotta che, allorquando risulti provato l’uso personale della sostanza drogante quale scopo della coltivazione, ne escludono la tipicità, rendendola penalmente irrilevante.