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Commento al Memorandum Patavino: le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze

Commento al Memorandum Patavino: le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze
Commento al Memorandum Patavino: le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze

Il Memorandum Patavino è un documento confezionato all’esito del convegno “Attualità, prospettive e limiti delle neuroscienze forensi. Presentazione di un memorandum”, organizzato dal Dipartimento di psicologia dell'Università degli Studi di Padova e la Di.Me.Ce. con il patrocinio della Fondazione Gulotta, tenutosi il 9 Ottobre 2015.

Esso ha l’ambizione di porsi quale compendio, memorandum appunto, circa le più recenti tecniche neuroscientifiche adoperate nell’ambito forense del nostro Paese; si tratta, quindi, di uno strumento indispensabile per gli addetti ai lavori: periti, consulenti tecnici di parte, magistrati, avvocati e tutti coloro che si trovano a dover far fronte ad un sapere sì affascinante quanto in continua evoluzione come quello neuroscientifico.

Il Memorandum si suddivide in diverse parti: dopo il Preambolo e l’Introduzione, approfondisce, infatti, i punti di forza e le problematiche connesse all’utilizzo delle neuroscienze, dapprima, nell’ambito del processo penale  e, successivamente, in quello civile. Infine, dopo aver altresì trattato la questione dell’accertamento del danno psichico da tossicodipendenza, problematizza, illustrando le posizioni di alcuni autorevoli esperti, i limiti della c.d. “Neurogiustizia”.

Sul terreno del processo penale, con particolare riferimento alla vexata quaestio inerente l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato (nei cui confronti occorre verificare la presenza o meno di un disturbo mentale al momento della realizzazione del fatto di reato), la prova neuroscientifica sembrerebbe erigersi, rispetto all’incertezza del sapere psichiatrico - notoriamente etichettato come “scienza in crisi” - quale sorta di invincibile strumento probatorio posto al servizio dell’autorità giudicante. L’indiscusso quid pluris di tale inferenza probatoria, infatti, sta in questo: non solo nell’essere in grado di individuare la malformazione (neuro-imaging strutturale) o la disfunzione cerebrale (neuro-imaging funzionale), ma, altresì, nel rendere tali diagnosi concretamente visualizzabili e, quindi, tangibili all’interno dell’organismo umano.

Sussisterebbe, tuttavia, un limite - attualmente ritenuto invalicabile - nell’utilizzo di queste innovative scienze hard nel giudizio sull’imputabilità penale: queste infatti, non sarebbero in grado di emanciparsi dalla pur importante funzione descrittiva della malattia mentale, non essendo infatti sufficientemente corroborate e certe da poter provare anche l’eventuale nesso eziologico intercorrente tra il disturbo mentale e la realizzazione della condotta criminosa.

Il fenomeno umano, infatti, in quanto profondamente complesso e votato alla multifattorialità, deve essere compreso e declinato secondo il linguaggio interazionistico; i concetti di “mente”, “coscienza” e “consapevolezza”, infatti, altro non sono se non singoli elementi del ben più grande contesto dell’interazione tra funzionamento cognitivo, risposte psicologiche e psicofisiologiche individuali, influenze socio- ambientali e culturali; è alla luce di tale prospettiva, dunque, che si parla di responsabilità individuale intesa come derivato del c.d. “cervello sociale”, la cui cifra è rappresentata dall’interazione umana.

Differenti, invece, sono le premesse che caratterizzano l’applicazione delle neuroscienze nell’ambito civilistico, lì dove la categoria giuridica regina è costituita dalla capacità di agire (articolo 2 del codice civile) intesa come l’idoneità del soggetto di autoregolamentare i propri interessi. A livello cognitivo, inoltre, tale capacità presuppone che il soggetto in questione vanti, altresì, la capacità di comprendere e di calare le informazioni ricevute nel caso concreto, di essere autoconsapevole di sé e delle proprie decisioni. Numerosi sono i risvolti pratici che la valutazione della suddetta capacità di agire vanta nell’ordinamento civile italiano: dall’amministrazione di sostegno, alla valutazione delle capacità genitoriali a quella inerente il discernimento del minore, fino alla valutazione del dolore (con particolare rilievo per il dolore cronico) ai fini del risarcimento del danno cagionato da terzi.

Se, in conclusione, il punto di forza delle neuroscienze forensi sta nel proporsi quali scienze dure (hard sciences), ammantate, per definizione, di oggettività e propostesi, quindi, quali vessilli di scientificità, tuttavia è necessario che il giurista non si lasci sedurre dal fascinum di tali inferenze (neuro-riduzionismo), le quali devono essere sempre valutate alla luce della loro specifica rilevanza processual-penalistica o civilistica nel caso concreto.

Solo attraverso tale approccio, si perviene alla consapevolezza delle notevoli problematiche sottostanti ad un utilizzo leggero e poco riflettuto delle hard sciences per eccellenza; una prima questione - solo accennata nel Memorandum- attiene alla possibile messa in crisi del fondamento filosofico-giuridico proprio della cultura Occidentale: il libero arbitrio. La problematica più rilevante e pratica, tuttavia, è ancora quella inerente alla incapacità della neuroscienza di erigersi autonomamente a prova dell’eziopatogenesi criminale sì da poter integrare il famoso nesso eziologico intercorrente tra il disturbo mentale e la realizzazione del crimine. In linea con questa posizione, condivisa dalla maggior parte della dottrina tanto giuridica quanto scientifica è, tra tutti, Stephen Morse, il quale, mettendo in guardia il giurista dal rischio della seduzione neuroscientifica, evidenzia come responsabilizzare anche penalmente mente e cervello per i crimini realizzati dalla persona umana sia sintomatico di un eccessivo cerebralismo che caratterizza i codici penali occidentali e che, se preso alla lettera, rischierebbe di mettere in secondo piano l’umanità che contraddistingue l’imputato, inteso come qualcosa di ben di più che un mero prodotto dell’attività cerebrale o mentale.

Lo stesso autore, inoltre, avanza dubbi di natura pratica circa l’effettivo contributo processuale della prova neuroscientifica la quale potrebbe sì analizzare il funzionamento o la struttura cerebrale dell’imputato nel corso della perizia o della consulenza tecnica di parte, ma,  come ogni altra prova, non sarebbe dotata della capacità di vedere tali possibili anomalie al momento della realizzazione del crimine (tempus commissi delicti), evento avvenuto, infatti, nel passato e, come tale, irripetibile. Anche Jones e Shen avanzano dubbi circa l’effettivo contributo delle tecniche di imaging funzionale, con particolare riferimento alla fMRI, nell’ambito del giudizio sull’imputabilità: dire, infatti, che vi sia stato un rilevante cambiamento di ossigenazione di una data regione cerebrale equivale a sostenere, per certo, che quella persona stia, senza ombra di dubbio, provando determinate emozioni o stia pensando in una certa maniera?

E che dire, inoltre, della teoria G2i (Group  to  individual) lì dove questa pone a confronto l’attività cerebrale dell’individuo in esame con un gruppo di soggetti controllo? Se infatti ciascun individuo è unico ed insostituibile nel suo genere, se ciascuno è a sé stante, con particolare riferimento al bagaglio emotivo e ai pensieri più intimi che costituiscono la nostra persona, come è possibile applicare l’analisi statistica la quale, per definizione, dovrebbe rasentare - attraverso il confronto a campione- il massimo grado di esattezza?

Alla luce di tutte queste considerazioni emerge nel Memorandum Patavino, conformemente al Brain Waves Module 4: Neuroscience and the law (2011), che, allo stato attuale dell’arte, le neuroscienze non sono in grado di costituire da sole la chiave di volta delle diagnosi giudiziarie, costituendo, piuttosto, un contributo che, per quanto autorevole ed affascinante, necessita continuamente dell’interazione con le altre scienze, in particolare, quelle empirico-sociali.

Il Memorandum Patavino è un documento confezionato all’esito del convegno “Attualità, prospettive e limiti delle neuroscienze forensi. Presentazione di un memorandum”, organizzato dal Dipartimento di psicologia dell'Università degli Studi di Padova e la Di.Me.Ce. con il patrocinio della Fondazione Gulotta, tenutosi il 9 Ottobre 2015.

Esso ha l’ambizione di porsi quale compendio, memorandum appunto, circa le più recenti tecniche neuroscientifiche adoperate nell’ambito forense del nostro Paese; si tratta, quindi, di uno strumento indispensabile per gli addetti ai lavori: periti, consulenti tecnici di parte, magistrati, avvocati e tutti coloro che si trovano a dover far fronte ad un sapere sì affascinante quanto in continua evoluzione come quello neuroscientifico.

Il Memorandum si suddivide in diverse parti: dopo il Preambolo e l’Introduzione, approfondisce, infatti, i punti di forza e le problematiche connesse all’utilizzo delle neuroscienze, dapprima, nell’ambito del processo penale  e, successivamente, in quello civile. Infine, dopo aver altresì trattato la questione dell’accertamento del danno psichico da tossicodipendenza, problematizza, illustrando le posizioni di alcuni autorevoli esperti, i limiti della c.d. “Neurogiustizia”.

Sul terreno del processo penale, con particolare riferimento alla vexata quaestio inerente l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato (nei cui confronti occorre verificare la presenza o meno di un disturbo mentale al momento della realizzazione del fatto di reato), la prova neuroscientifica sembrerebbe erigersi, rispetto all’incertezza del sapere psichiatrico - notoriamente etichettato come “scienza in crisi” - quale sorta di invincibile strumento probatorio posto al servizio dell’autorità giudicante. L’indiscusso quid pluris di tale inferenza probatoria, infatti, sta in questo: non solo nell’essere in grado di individuare la malformazione (neuro-imaging strutturale) o la disfunzione cerebrale (neuro-imaging funzionale), ma, altresì, nel rendere tali diagnosi concretamente visualizzabili e, quindi, tangibili all’interno dell’organismo umano.

Sussisterebbe, tuttavia, un limite - attualmente ritenuto invalicabile - nell’utilizzo di queste innovative scienze hard nel giudizio sull’imputabilità penale: queste infatti, non sarebbero in grado di emanciparsi dalla pur importante funzione descrittiva della malattia mentale, non essendo infatti sufficientemente corroborate e certe da poter provare anche l’eventuale nesso eziologico intercorrente tra il disturbo mentale e la realizzazione della condotta criminosa.

Il fenomeno umano, infatti, in quanto profondamente complesso e votato alla multifattorialità, deve essere compreso e declinato secondo il linguaggio interazionistico; i concetti di “mente”, “coscienza” e “consapevolezza”, infatti, altro non sono se non singoli elementi del ben più grande contesto dell’interazione tra funzionamento cognitivo, risposte psicologiche e psicofisiologiche individuali, influenze socio- ambientali e culturali; è alla luce di tale prospettiva, dunque, che si parla di responsabilità individuale intesa come derivato del c.d. “cervello sociale”, la cui cifra è rappresentata dall’interazione umana.

Differenti, invece, sono le premesse che caratterizzano l’applicazione delle neuroscienze nell’ambito civilistico, lì dove la categoria giuridica regina è costituita dalla capacità di agire (articolo 2 del codice civile) intesa come l’idoneità del soggetto di autoregolamentare i propri interessi. A livello cognitivo, inoltre, tale capacità presuppone che il soggetto in questione vanti, altresì, la capacità di comprendere e di calare le informazioni ricevute nel caso concreto, di essere autoconsapevole di sé e delle proprie decisioni. Numerosi sono i risvolti pratici che la valutazione della suddetta capacità di agire vanta nell’ordinamento civile italiano: dall’amministrazione di sostegno, alla valutazione delle capacità genitoriali a quella inerente il discernimento del minore, fino alla valutazione del dolore (con particolare rilievo per il dolore cronico) ai fini del risarcimento del danno cagionato da terzi.

Se, in conclusione, il punto di forza delle neuroscienze forensi sta nel proporsi quali scienze dure (hard sciences), ammantate, per definizione, di oggettività e propostesi, quindi, quali vessilli di scientificità, tuttavia è necessario che il giurista non si lasci sedurre dal fascinum di tali inferenze (neuro-riduzionismo), le quali devono essere sempre valutate alla luce della loro specifica rilevanza processual-penalistica o civilistica nel caso concreto.

Solo attraverso tale approccio, si perviene alla consapevolezza delle notevoli problematiche sottostanti ad un utilizzo leggero e poco riflettuto delle hard sciences per eccellenza; una prima questione - solo accennata nel Memorandum- attiene alla possibile messa in crisi del fondamento filosofico-giuridico proprio della cultura Occidentale: il libero arbitrio. La problematica più rilevante e pratica, tuttavia, è ancora quella inerente alla incapacità della neuroscienza di erigersi autonomamente a prova dell’eziopatogenesi criminale sì da poter integrare il famoso nesso eziologico intercorrente tra il disturbo mentale e la realizzazione del crimine. In linea con questa posizione, condivisa dalla maggior parte della dottrina tanto giuridica quanto scientifica è, tra tutti, Stephen Morse, il quale, mettendo in guardia il giurista dal rischio della seduzione neuroscientifica, evidenzia come responsabilizzare anche penalmente mente e cervello per i crimini realizzati dalla persona umana sia sintomatico di un eccessivo cerebralismo che caratterizza i codici penali occidentali e che, se preso alla lettera, rischierebbe di mettere in secondo piano l’umanità che contraddistingue l’imputato, inteso come qualcosa di ben di più che un mero prodotto dell’attività cerebrale o mentale.

Lo stesso autore, inoltre, avanza dubbi di natura pratica circa l’effettivo contributo processuale della prova neuroscientifica la quale potrebbe sì analizzare il funzionamento o la struttura cerebrale dell’imputato nel corso della perizia o della consulenza tecnica di parte, ma,  come ogni altra prova, non sarebbe dotata della capacità di vedere tali possibili anomalie al momento della realizzazione del crimine (tempus commissi delicti), evento avvenuto, infatti, nel passato e, come tale, irripetibile. Anche Jones e Shen avanzano dubbi circa l’effettivo contributo delle tecniche di imaging funzionale, con particolare riferimento alla fMRI, nell’ambito del giudizio sull’imputabilità: dire, infatti, che vi sia stato un rilevante cambiamento di ossigenazione di una data regione cerebrale equivale a sostenere, per certo, che quella persona stia, senza ombra di dubbio, provando determinate emozioni o stia pensando in una certa maniera?

E che dire, inoltre, della teoria G2i (Group  to  individual) lì dove questa pone a confronto l’attività cerebrale dell’individuo in esame con un gruppo di soggetti controllo? Se infatti ciascun individuo è unico ed insostituibile nel suo genere, se ciascuno è a sé stante, con particolare riferimento al bagaglio emotivo e ai pensieri più intimi che costituiscono la nostra persona, come è possibile applicare l’analisi statistica la quale, per definizione, dovrebbe rasentare - attraverso il confronto a campione- il massimo grado di esattezza?

Alla luce di tutte queste considerazioni emerge nel Memorandum Patavino, conformemente al Brain Waves Module 4: Neuroscience and the law (2011), che, allo stato attuale dell’arte, le neuroscienze non sono in grado di costituire da sole la chiave di volta delle diagnosi giudiziarie, costituendo, piuttosto, un contributo che, per quanto autorevole ed affascinante, necessita continuamente dell’interazione con le altre scienze, in particolare, quelle empirico-sociali.