Il ruolo delle neuroscienze nel caso di Como: la prospettiva del difensore di Albertani

Oggi possiamo affermare con certezza che l’Italia è una delle nazioni Europee più all’avanguardia per quanto riguarda le neuroscienze forensi. Due sono i casi “apripista” in cui queste discipline si sono rivelate fondamentali per la decisione dei magistrati: il processo di Trieste ed il processo di Como. In entrambi i casi, la conclusione fu una riduzione della responsabilità criminale basata sui risultati della neurogenetica e del neuroimaging.
Nel caso di Triste un cittadino algerino (A.B.) uccise un giovane colombiano nella stazione di Udine perché quest’ultimo lo aveva additato come “omosessuale”. Sulla base dei già presenti report psichiatrici risalenti al 2005 e quindi con dei pregressi psicopatologici conclamati, la Corte di Udine condannò l’imputato a nove anni e due mesi.
Nel corso del procedimento, le indagini furono svariate; a quelle di personalità si aggiunsero, su richiesta della difesa, quelle condotte dai professori Giuseppe Sartori e Pietro Pietrini, i quali approfondirono l’aspetto neurologico ma soprattutto quello genetico dell’imputato. Grazie alle loro perizie, si è giunti alla conclusione che l’algerino avesse delle predisposizioni violente causate da una variante genetica e che quindi ci potessero essere delle attenuanti relative all’atto compiuto. La Corte di Trieste ha concluso affermando che l’imputato aveva un quadro psichiatrico compromesso, più specificamente un Disturbo di Personalità di tipo psicotico con pensieri deliranti accompagnato da allucinazioni. Pertanto, la Corte ha deciso di condannare l’imputato a 8 anni e due mesi di reclusione, tenendo presente il contributo neuroscientifico fondamentale che i periti Sartori e Pietrini hanno apportato al caso.
In questo articolo si fa riferimento all’importanza della commistione tra neuroscienze e ambito penale e quanto questi elementi siano interdipendenti, motivo per cui l’interazione prende il nome di “neurolaw”. I criteri epistemologici per la veridicità scientifica, così come nelle neuroscienze, sono la coerenza dei risultati e la possibilità di adattare questi ultimi ad altre possibili teorie, ma anche l’integrazione di diversi risultati con altre procedure, come quelle che approfondiscono gli aspetti comportamentali.
Per quanto riguarda il caso di Como, questo ha suscitato grande interesse negli studiosi a livello mondiale poiché riflette uno di quei rari casi in cui le neuroscienze e la genetica comportamentale hanno fortemente inciso sulla decisione del magistrato, ampiamente motivata dal medesimo. Proprio per questo, è considerato uno dei casi pioneristici della pratica delle neuroscienze forensi nel contesto europeo e dei metodi di neurogenetica e neuroimaging funzionale (Sirgiovanni, Corbellini e Caporale, 2016)[1]. La differenza sostanziale tra i due casi sta nel fatto che nel caso di Trieste l’imputato aveva precedentemente già avuto delle diagnosi psichiatriche, quindi la perizia è stata una conferma di quanto già era noto; mentre per quanto riguarda il caso di Como, i periti furono incaricati appositamente per approfondire la situazione neuropsicologica dell’imputata della quale si sapeva ben poco fino ad allora.
In sintesi, Stefania Albertani, 26 anni residente a Como, era accusata di aver commesso diversi reati, tra i quali aver ucciso la sorella dopo averla drogata e successivamente incendiato il corpo. Sono stati i vicini della stessa a testimoniare di aver visto la sorella dell’Albertani barcollare nei pressi del domicilio dell’imputata. In un secondo momento il corpo della vittima fu ritrovato bruciato nel giardino della casa dove la stessa abitava. L’Albertani era accusata inoltre di aver tentato di uccidere la madre e il padre incendiando l’auto sulla quale viaggiavano, ma anche di aver derubato il padre direttamente dalla cassa della ditta di famiglia causandogli così grossi problemi finanziari. L’avvocato difensore Gerardo Spinelli (avv. presso il Foro di Como) mi ha interpellato, in quanto necessitava del mio contributo in ragione del fatto che la situazione si presentava piuttosto intricata sotto il profilo psicopatologico. L’imputata era stata dichiarata pienamente capace di intendere e di volere dal perito nominato dal giudice mentre il consulente della difesa si era espresso per la piena incapacità. Il caso, dunque, suscitava in me particolare interesse sotto il profilo psicoforense.
Dallo studio dei documenti riguardanti il caso e dai colloqui con la giovane, mi sono reso conto che il suo comportamento era “apparentemente” astuto. La pianificazione strategica nella condotta della Albertani - precedente e successiva all’omicidio della sorella, occorso nel maggio 2009 - era, infatti, a prima vista complessa, ma in realtà prevedibilmente smascherabile e irrazionale.
Per esempio, dopo ben due mesi dalla scomparsa della sorella Mariarosa, si è recata spontaneamente dai Carabinieri a denunciarla - falsamente - per truffa. Nell’occasione mostrava queste lettere a firma falsa di Mariarosa all’interno delle quali quest’ultima si sarebbe assunta la responsabilità del furto presso la ditta del padre e comunicava di essere partita per cambiare vita (perché andare nella tana del lupo?); avvertì i vicini di casa di non chiamare i pompieri nel caso in cui avessero sentito odore di bruciato, lasciando, però, il cadavere dietro un telone nel retro della casa (perché avvertire i vicini senza, poi, spostare il cadavere?); raccontò che il padre era morto per posticipare la data di un contratto che avrebbe permesso alla sorella di acquistare una casa di proprietà (perché addurre tale scusa quando facilmente - il paese è piccolo - è possibile scoprire che la morte del padre non fosse vera); usò il bancomat bruciacchiato della sorella dopo la sua scomparsa (perché andare in posta, utilizzare il suo bancomat, fingersi di essere Mariarosa e così, essere riconosciuta? Ma soprattutto perché il fuoco: brucia il corpo della sorella dopo averla uccisa, tenta di uccidere padre e madre incendiando l’autovettura sulla quale viaggiano, incendia gli abiti della madre svenuta per il tentativo di strangolamento; risultò da indagini difensive che quando era piccola, mentre era a casa della nonna, scoppiò un incendio che i pompieri non seppero spiegare: si trattò dell’esordio del suo incendiarismo o del trauma che lo avrebbe poi strutturato?).
È proprio grazie alla denuncia, sporta nei confronti della sorella Mariarosa, che gli agenti, insospettitisi dato il tempo trascorso dalla scomparsa di quest’ultima, hanno messo delle microspie nell’abitazione famigliare riuscendo a sentire Stefania mentre cercava di strangolare la madre (ciò accadeva nell’ottobre 2009). Mirava, forse inconsciamente, ad essere scoperta per via di una sorta di impulso a confessare? (Reik, 1967)[2]. Voleva sfidare gli inquirenti? Sperava, andando incontro al suo castigo, di rimuovere l’insostenibile peso del delitto compiuto?
Ad ogni modo, l’aspetto centrale restava il fatto che più che di comportamenti machiavellici, si trattasse evidentemente di condotte irrazionali e soprattutto miopi, frutto dell’incapacità dell’imputata di traguardare le conseguenze delle proprie azioni.
Le lettere falsamente attribuite alla mano di Mariarosa, in realtà redatte da Stefania Albertani, non solo posso essere considerate marcatamente proiettive, cioè cosa lei pensa di sé stessa, ma ci permettono di osservare come l’imputata riteneva di poter essere percepita dagli altri per lei significativi (“Stefania è una cretina, io la drogavo, sono io che ho rubato”).
Le condotte poste in essere, infatti, - anche quelle non legate a degli agiti propriamente criminali - sono connotate da una cronica e pervasiva mendacità che la porta a costruire interi scenari fittizi, storie inverosimili: delle vere e proprie vite parallele. Le ragioni di queste alterazioni della realtà non risultano mai propriamente intelligibili: alle volte sembra lo faccia per procurarsi del denaro, altre volte per costruirsi delle identità fasulle, altre ancora per rimediare a precedenti bugie, talvolta per trarne vantaggi materiali; in tutti i casi sembra, però, che oltre alle ragioni manifeste vi sia sempre un sovrappiù di carattere psicologico ed esistenziale.
Affiora sempre il dubbio che Stefania volesse essere qualcun’altro, sentirsi stimata, amata e rispettata come tutte le altre persone che non fossero lei. È palese, allora, che il castello di menzogne eretto da Stefania - sono un architetto, mio padre è morto, ho un fidanzato, recentemente ho abortito, ecc… - non appena si abbandona il piano esteriore della strumentalità, sollecita la necessità di un diverso piano interpretativo che possa indagare come delle possibili disfunzioni cerebrali si possano tradurre sul piano psicologico - “il cervello che trasforma la mente” - e si concretizzino, dunque, in un particolare modo di stare al mondo.
Sintetizzando il caso, dopo aver letto la documentazione e parlato con l’imputata, mi sono rivolto ai miei collaboratori, affermando: “non è fuori di testa, è fuori di cervello”.
Ho ipotizzato, così, che l’imputata potesse avere dei disturbi a livello delle “funzioni esecutive”, ossia nella previsione delle conseguenze, nel ragionamento in astratto, nella programmazione e pianificazione di comportamenti orientati al raggiungimento di un obiettivo, ecc. Questo mi faceva facilmente presumere, dunque, che vi fosse una disfunzione al lobo frontale, sede delle capacità.
Gli aspetti fondamentali da approfondire sembravano essere comprendere se l’imputata fosse una simulatrice, quindi capire se fingesse di non ricordare o se, effettivamente, non ricordasse l’omicidio della sorella, quindi concludere fosse una psicopatica.
Da questa complessa prospettiva è discesa la necessità di avvalersi di un team forense che fosse in grado di abbracciare, in una prospettiva interdisciplinare, l’insieme di queste tematiche. Da un lato, l’attività propriamente giuridica - la prospettiva dell’avvocato in senso stretto - dall’altro, l’apporto scientifico dei pareri specialistici che, congiuntamente alla strategia difensiva, potessero contribuire se non alla spiegazione, quantomeno alla comprensione del caso.
In altri termini, occorreva che la valutazione clinica, neuropsicologica e criminologica si intrecciassero corroborandosi reciprocamente. Si creò, così, un pool di consulenti composto dai professori Pietro Pietrini e Giuseppe Sartori, i quali avevano lavorato anche al caso di Trieste, supportati da Anna Balabio, Sara Codognotto e Georgia Zara[3].
In virtù di quale filtro psicologico - mi domandavo - Stefania vede alterata la realtà? Quali sono i processi cerebrali che la caratterizzano e che la guidano in determinate circostanze e che la portano a pensare che le isole Maldive siano un luogo orribile? O quando la sera si chiude in stanza tutta sola a cenare e a cercare un surrogato della realtà nella virtualità di Internet? Quando spende ingenti quantità di denaro dall’estetista per apparire - o essere - diversa da com’è o da come si percepisce essere agli occhi altrui?
L’aspetto centrale, a mio modo di vedere, era comprendere quale fosse il punto di intersezione tra un ipotetico danno cerebrale - prima delle perizie si trattava evidentemente di un’ipotesi - e come questo, interagendo con le specifiche esperienze di vita dell’imputata, si fosse potuto estrinsecare sul piano esistenziale traducendosi in uno specifico stile comportamentale. Il tutto in una prospettiva circolare nella quale aspetti dolorosi, come il non sentirsi amata - forse legato ad una cattiva percezione del dato di realtà ma anche al fatto che i genitori, come emerso in seguito, non avrebbero voluto neanche che lei nascesse - potesse aver retroagito sui suoi circuiti cerebrali corrodendone e aggravandone ulteriormente il precario equilibrio psicologico. Del resto, non a caso, le sue spinte omicide si sono rivolte esclusivamente ai membri del nucleo famigliare. A presiedere la furia omicida di Stefania, sembrava vi fosse una sorta di ragionamento di questo genere: “ebbene, voi non mi amate, non mi apprezzate, non avreste neanche voluto che io venissi al mondo, vi comportate come se voleste cancellarmi, allora sarò io a cancellare voi con il fuoco, che tutto distrugge e tutto purifica”.
In conclusione, dalla lettura dei fascicoli di questo caso, l’aspetto che mi ha colpito all’interno della perizia elaborata dall’incaricato del giudice è stata la risposta che quest’ultimo ha restituito alla domanda se fosse possibile che, così come malamente ricordava il tentativo di omicidio della madre (che vide l’intervento dei carabinieri poiché allertati dai rumori uditi grazie a una microspia posta in casa sua) non potesse, allo stesso modo, aver dimenticato l’omicidio della sorella. La risposta fu: “se le dicessi sì mentirei, se le dicessi no mentirei”. Riusciva così a superare il principio di non contraddizione aristotelico: essere e non essere possono convivere. A questo punto del caso, i consulenti parleranno di dissociazione e sdoppiamento della personalità.
A questo punto ho deciso di presentare, dunque, un’istanza volta a richiedere la concessione di un’integrazione peritale di tipo neuropsicologico da parte dei consulenti tecnici della difesa, ipotizzando il fatto che potessero esserci dei deficit cerebrali. Occorreva, peraltro, il consenso del tribunale affinché l’imputata lasciasse il carcere per potersi recare nelle sedi idonee a svolgere gli accertamenti necessari. Il giudice accolse l’istanza consentendo che Stefania uscisse dal carcere al fine di sottoporsi ad una risonanza magnetica.
I consulenti della difesa Pietrini e Sartori hanno, quindi, studiato il caso ampliando la valutazione psichiatrica, affiancando ad un consistente colloquio clinico, l’uso di test neuroscientifici, di tecniche di neuroimaging cerebrale e studi di genetica molecolare. Attraverso le indagini neuroscientifiche, nella fattispecie elettroencefalogramma (EEG), risonanza magnetica (MRI) e morfometria basata sui voxel (VBM – Voxel Based Morphometry) è emerso un difetto di integrità e funzionalità del cingolato anteriore e dell’insula, parti del cervello le cui alterazioni, secondo la letteratura prevalente, sono collegate a disturbi ossessivo - compulsivi e aggressività, mancando nel soggetto la piena capacità di sostituire un comportamento automatico con uno differente e maggiormente adeguato e adattivo.
Gli studi di genetica hanno, inoltre, dimostrato come nella giovane fosse possibile constatare una precisa correlazione tra anomalie di certe aree sensibili del cervello riguardanti il cingolo anteriore, dovute ad una anormale densità della sostanza grigia, e comportamenti aggressivi unitamente alla presenza di tre alleli (particolari tipologie di geni) in grado di predisporre il soggetto a mettere in atto comportamenti antisociali, ossia marcatamente aggressivi e violenti. Nel corso della perizia, alla Albertani erano stati somministrati una serie di test tra cui il Millon Clinical Multiaxial Inventory-III (MCMI III), Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI-2) e, infine, il Psycopathic Personality Inventory Revised (PPI-R). Oltre alla ormai classica batteria testale di valutazione neuropsicologica, un importante apporto è stato dato dalla somministrazione dello IAT (Implicit Association Test) che permise di indagare i processi di memorizzazione degli eventi ed il ricordo che l’imputata conservava dei fatti avvenuti, riducendo al minimo il margine d’errore.
Alla luce dei vari dati raccolti, i consulenti hanno concluso per un vizio di mente parziale, dovuto alla presenza di “pseudologia fantastica, disturbo dissociativo della personalità e grave deficit di intelligenza sociale”.
Da un punto di vista strettamente processuale quindi, strategico-difensivo, il dilemma che si poneva in relazione alla diagnosi era quello che una volta ottenuta la semi infermità, e anche scongiurando la carcerazione immediata, non si sarebbe corso il rischio che, in virtù della sua presunta pericolosità sociale, venissero applicate delle misure di sicurezza estremamente lunghe.
In altri termini, alla luce della storia degli agiti aggressivi e violenti di Stefania Albertani - alla cui base stanno dei difetti neurologici e genetici strutturali e quindi cronici - quale avrebbe potuto essere la garanzia che l’imputata non avrebbe commesso in futuro altri atti simili a quelli già posti in essere?
Il rischio era dunque rappresentato dallo spettro, mai completamente svanito nel senso comune, che il giudice potesse compiere un’equazione deterministica tra disturbi psichiatrici e cerebrali da un lato e condotte imprevedibili e violente dall’altro. A tal riguardo è stato cruciale far emergere, anche durante l’esame dibattimentale dei due consulenti, alcuni aspetti chiave.
In primo luogo, il fatto che tutta l’aggressività e la violenza espresse dall’imputata avessero come obiettivo sempre i membri del proprio nucleo famigliare; il professor Pietrini, in particolare, su domanda esplicita del difensore, si è soffermato proprio sul fatto che dalla storia di vita di Stefania Albertani si potesse evincere che la sua aggressività avesse come bersaglio sistematico solo i componenti della propria famiglia, in tal senso in sede processuale si è parlato di una marcata pericolosità ma di matrice endofamigliare. Sembrava, pertanto, che l’imputata, una volta allontanata dal proprio contesto famigliare, difficilmente avrebbe potuto mostrarsi nuovamente violenta.
In secondo luogo, per scongiurare la prospettiva deterministica secondo la quale a partire da un difetto congenito ne discenda automaticamente un preciso comportamento, si è passati a sottolineare come nella scienza, ed in particolare nella scienza medica, possano essere stabiliti solo dei nessi di carattere probabilistico in relazione al rapporto tra determinati fattori di rischio ed esiti patologici manifesti.
In particolare, l’esempio fatto dal professor Pietrini, ha riguardato il rischio di infarto: il fatto che un individuo possieda un tasso colesterolico tre volte superiore alla norma o che presenti una pressione sanguigna abnorme, non indica necessariamente che quel soggetto dovrà necessariamente andare incontro a patologie quali l’infarto o l’ictus cerebrale. Per converso, un soggetto perfettamente sano, ovvero senza valori abnormi in relazione al colesterolo o alla pressione sanguigna, potrebbe lo stesso andare soggetto ai fenomeni patologici appena menzionati.
Un fattore di rischio, quindi, tanto in medicina quanto nella valutazione del rischio di recidiva criminale, rappresenta un indicatore che segnala un incremento nella probabilità che un determinato esito si realizzi (Zara, 2005)[4]. In altri termini, alcuni elementi psicopatologici e neuropatologici si pongono in rapporto esclusivamente probabilistico rispetto a determinati esiti comportamentali manifesti; nel caso di specie, il fatto che l’imputata esibisse delle alterazioni anatomo-funzionali a livello dei lobi frontali, rappresentava solo un fattore di rischio rispetto alla possibilità che tenesse nuovamente delle condotte violente: il fatto che Stefania Albertani avrebbe potuto nuovamente commettere dei delitti non equivale a dire che avrebbe necessariamente dovuto compierli.
Infine, per sgomberare ulteriormente il campo dall’idea che l’imputata, sempre in ragione delle sue disfunzioni cerebrali (teoricamente irreversibili), fosse destinata ad un’immodificabilità della propria condotta, è stato particolarmente proficuo sottolineare come i suoi disturbi potessero essere curati attraverso un intervento terapeutico interdisciplinare e composito. In particolare, tanto il professor Sartori quanto il professor Pietrini in udienza hanno sottolineato come vi fossero buone possibilità che, una volta collocata in una struttura protetta e sottoposta ad un trattamento integrato di cure farmacologiche e psicoterapiche, i disturbi dell’imputata sarebbero potuti regredire ponendola nelle condizioni di addivenire ad una condotta differente e maggiormente positiva rispetto al passato.
Le più recenti acquisizioni neuroscientifiche hanno mostrato, infatti, che il cervello umano possiede una spiccata plasticità in virtù della quale le strutture neurali possono subire delle modificazioni morfologiche e funzionali in relazione sia alle esperienze di vita che ai diversi tipi di trattamento.
In altre parole, è anche l’ambiente che modella il cervello umano: le condizioni di vita, la qualità delle esperienze affettive, educative e la ricchezza dell’ambiente incidono sullo sviluppo cerebrale già ereditariamente disposto (Bianchi, Gulotta, Sartori, 2009).
Stefania Albertani, come evidenziato dal professor Pietrini, non ha letteralmente avuto la possibilità di costruire la propria personalità in ragione tanto delle sue disfunzioni cerebrali, quanto di un’esperienza di vita che l’ha privata dell’affetto, dell’amicizia e di tutti quei fattori che concorrono alla creazione di un’identità adulta e matura.
Concludendo, il processo a carico di Stefania Albertani per il contenuto trattato, la modalità di svolgimento ed i risultati ottenuti dalla sua difesa può essere definito come unico in Europa. La Sentenza, emessa dal G.u.p. di Como il 20 maggio 2011, non essendo stata impugnata, è passata in giudicato. In data 20 agosto 2011 sono state esposte le motivazioni alla Sentenza; di seguito, alcuni tra i più significativi frammenti della medesima.
“(…) in ordine al coinvolgimento dell’imputata nei fatti di reato oggi a lei addebitati, occorre in questa sede rimarcare che le emergenze processuali, rivisitate con l’ausilio dell’apporto tecnico- scientifico offerto dai consulenti psichiatrici delle parti, e dal perito d’ufficio, consentono di ritenere sufficientemente approfondito ogni aspetto relativo alla capacità di intendere e di volere dell’imputata e, conseguentemente di concludere, per quanto si dirà, che A. S. ha agito senza avere il pieno controllo delle sue facoltà mentali. Nel presente processo, infatti, sono molteplici gli indicatori che consentono di ritenere che A. S. al momento del suo agire criminale fosse in condizioni di parziale incapacità di intendere e volere. Tanto risulta confermato in atti sia dalle emergenze processuali - rivisitate alla luce delle motivazioni dell’agire e della dinamica dell’accaduto, visto che il comportamento criminale dell’imputata non è certo apparso sempre concentrato nell’esecuzione di azioni logiche ed adeguatamente finalizzate all’obiettivo avuto di mira - che dalle emergenze psichiatriche di cui si dirà in dettaglio.”
“(…) l’indagine svolta dai consulenti della difesa si è composta di procedure valutative complesse e, a conforto, anche di procedure maggiormente fondate sull’obiettività e sull’evidenza dei dati perché corroborate dalle risultanze di “imaging cerebrale” e di “genetica molecolare” e, per ciò stesso, in grado di ridurre la variabilità diagnostica e di offrire risposte meno discrezionali rispetto a quelle ottenibili col solo metodo di indagine tradizionale clinico. […] Convince, sul punto, quanto rilevato in premessa dai consulenti quando affermano che l’approccio psichiatrico convenzionale, basato essenzialmente sulla valutazione delle manifestazioni della malattia mentale, ben può trovare utile completamento nelle neuroscienze che oggi, tra le altre cose, consentono di studiare il cervello, ed in particolare quelle aree del cervello che, secondo le acquisizioni tecnico-scientifiche internazionali condivise, sono poste a presidio di alcune funzioni specifiche.”
“non può, però, essere disconosciuto, che le tecniche neuroscientifiche, garantiscano oggi nuove metodologie di approfondimento e di supporto che rappresentano un utile completamento alla tradizionale diagnosi psichiatrica permettendo sia di aumentare il tasso di oggettività della valutazione psichiatrico-forense, sia di introdurre una descrizione più completa della sintomatologia e dei suoi correlati neuronali e genetici […]. Per questo è consentito al giudice ricorrere anche all’ausilio di queste nuove tecniche che, grazie al processo scientifico, offrono spunti ulteriori verso la conferma o la falsificazione di ciò che deve costituire oggetto di prova nel processo penale.”
Indubbiamente, il caso discusso, le nuove modalità di approccio della difesa, nonché gli esiti probatori avanzati dalla stessa e la sentenza emessa hanno aperto la strada ad un nuovo scenario in cui le neuroscienze hanno avuto un ruolo fondamentale all’interno del processo; si è riusciti ad integrare i vari approcci, riuscendo a prendere in considerazione gli aspetti sia comportamentali che genetici degli imputati, tarando in base ad essi la suddetta pena.
Alla luce delle vicende del caso di Como e di Trieste, molti di noi hanno sentito la necessità di redigere un documento che formalizzasse quelle che sono le valutazioni rispetto a questa nuova prospettiva. Spiegare sinteticamente l’apporto delle neuroscienze nella giurisprudenza facendo riferimento ad un unico atto, il “Memorandum Patavino”, risultato della collaborazione dei maggiori esponenti in materia[5].
Lo scopo del documento è quello di sottolineare l’importanza di valutare le capacità del singolo grazie ad elementi empirici che contribuiscano alla buona riuscita del processo decisionale in campo giudiziario. Viene sottolineato quanto un’attenta analisi dei circuiti neuronali e una valutazione neurologica, possano fare luce su alcuni aspetti che in passato sono stati poco considerati, ma che invece possono compromettere, in alcuni casi, la capacità di giudizio dell’individuo.
Il trattato interessa sia il campo civile, che quello penale e minorile ed è un’esposizione sintetica per tutti gli operatori del diritto interessati ad integrare quelle che possono essere le competenze neuro-scientifiche, consentendo loro una visione integrata e approfondita.
[1] Sirgiovanni E., Corbellini G., Caporale C. (2016). A recap on Italian neurolaw: Epistemological and ethical issues. Mind & Society, 1-19, 1860-1839.
[2] Reik, T., & Costantino, A. (1967). L’impulso a confessare. Feltrinelli.
[3] Tale gruppo di esperti, unitamente ad altri collaboratori, hanno lavorato con me alla fondazione dell’associazione DI.ME.CE (Diritto, Mente, Cervello) e alcuni di loro sono coautori di una mia pubblicazione in tema di scienze naturali ed ermeneutica giudiziaria, il Manuale di neuroscienze forensi, a cura di Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., pubblicato dalla casa editrice Giuffrè, Milano, 2009.
[4] Zara, G. (2005). Le carriere criminali (Vol. 42, pp. 1-700). Giuffrè.
[5] Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione, Associazione DI.ME.CE., Università degli Studi di Padova; disponibile sul sito www.fondazionegulotta.org nella sezione “Documenti”.