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La critica alla c.d. teoria dell’imprenditore occulto

La critica alla c.d. teoria dell’imprenditore occulto
La critica alla c.d. teoria dell’imprenditore occulto

Abstract

L’autore analizza gli orientamenti dottrinali critici nei confronti della c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Vengono descritte sia le posizioni (Ferri, Pavone La Rosa) che, pur criticando le premesse della lezione di Walter Bigiavi, cercano di raggiungere i medesimi risultati pratici della prorompente teoria e sia le elaborazioni della dottrina commercialistica che accusano il Maestro bolognese di aver inavvertitamente scavalcato il diritto positivo, cadendo in una contaminazione tra ragione giuridica e ragione economica.

 

SOMMARIO: 1. La gestione indiretta dell’impresa e la traslazione del rischio di insolvenza - 2.La teoria dell’imprenditore occulto - 3. Gli orientamenti critici (premessa) - 4. La teoria della responsabilità di impresa (Ferri) - 5. L’inesistenza del criterio economico-sostanziale del potere di direzione - 6. La critica al ragionamento analogico - 7. Il pregiudizio del presupposto fallimentare - 8. La “correzione” di Pavone La Rosa - 9. La tendenza normativa all’eccezionalità del fallimento del gestore di impresa - 10.La tecnica dell’impresa fiancheggiatrice

1. La gestione indiretta dell’impresa e la traslazione del rischio di insolvenza

È problematica l’imputazione dello status di imprenditore, ossia la scelta della figura soggettiva alla quale applicare la disciplina che si attiva nel caso di adeguatezza del comportamento alla fattispecie “impresa” (descritta dall’articolo 2082 del Codice Civile). Si ritiene (tra i tanti, Campobasso) che, allo scopo, il criterio selettivo maggiormente adeguato sia quello che individua il centro di imputazione dei singoli atti compiuti nel soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Tale meccanismo di imputazione, c.d. spendita del nome, risponderebbe ad esigenze di certezza del diritto, giustamente pressanti nella realtà economica, e sarebbe espressamente enunciato in tema di mandato senza rappresentanza (ex articolo 1705 del Codice Civile). Insomma, bisognerebbe intendere l’articolo 2082 c.c. come se dicesse che “è imprenditore chi esercita in nome proprio …un’attività economica”. Ma davvero, nel sistema delineato dal legislatore, la detenzione dell’interesse sotteso all’esercizio dell’attività imprenditoriale, non gioca alcun ruolo? È sul serio irrilevante la figura di colui che ha titolo al conteggio dei risultati e, in forza di questo, possiede il potere di istruire l’agente o, più in generale, il governo dell’iniziativa economica? Attribuire lo status di imprenditore sulla base del solo criterio formale della spendita del nome suscita, appunto, qualche perplessità quando interesse e nome speso si dissociano. Sono i casi di comportamento imprenditoriale tenuto nel nome proprio dell’agente ma nell’interesse altrui, e comportamento imprenditoriale tenuto nel nome altrui ma nell’interesse proprio dell’agente. Qui, nell’esecuzione degli atti di impresa, diversi saranno il soggetto che compie gli stessi in proprio nome e quello che impartisce le direttive, somministra i capitali necessari ed intasca gli utili senza, però, mai palesarsi ai terzi. Problemi non sorgono quando l’impresa viene esercitata con profitto e gli affari prosperano. Tuttavia, quando l’esercizio cessa di essere lucrativo, è possibile che si lasci il prestanome od una società etichetta, probabilmente nullatenenti, nell’impossibilità di onorare i debiti contratti, anche se sottoposti alla ghigliottina concorsuale. A ben vedere, in questo caso, il rischio derivante dall’esercizio dell’attività economica verrebbe traslato su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’oculatezza di farsi garantire personalmente dal reale dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese, con tanto di pregiudizio inaccettabile specie per i creditori più deboli dal punto di vista finanziario.

2. La teoria dell’imprenditore occulto

Attesa l’insufficienza del criterio della c.d. spendita del nome a risolvere, da solo, situazioni in cui la costante ricerca di un posto comodo nel mondo degli affari può mettere capo a comportamenti socialmente irresponsabili, negli anni ’50 del secolo scorso, Walter Bigiavi, ostentando una notevole sensibilità tanto pratica quanto dogmatica, elaborava la c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Secondo la stessa, sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Più nello specifico, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: da un lato, la spendita del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e, dall’altro, l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, il quale, si ripete, attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile appendice della prima. Secondo Bigiavi, tale conclusione sarebbe ampiamente giustificabile alla luce dell’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). Ai sensi del vecchio comma 2 (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), infatti, qualora dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale dichiara il fallimento dei medesimi. Dunque, fallisce il socio occulto di società palese. Ma se può fallire costui, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non avere minimamente contato, non vi è ragione al mondo per cui non debba fallire anche il socio occulto di una società occulta, e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Data l’ovvia specularità tra le due ipotesi, insomma, apparirebbe giustificata l’analogia legis. Poiché, infine, è giuridicamente irrilevante se chi rimane tra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome, sarebbe lecito estendere anche al caso dell’imprenditore occulto il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere l’unico vero dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

3. Gli orientamenti critici (premessa)

Nonostante per qualcuno (Oppo) non pare esserci rottura col dato normativo, la c. d. teoria dell’imprenditore occulto ha fatto spesso storcere il naso di dottrina e giurisprudenza. Se, da un lato, c’è chi, come i sostenitori della teoria della responsabilità di impresa, ritiene che il dominus occulto, pur non essendo qualificabile come imprenditore, debba rispondere per i debiti di impresa, rischiando altresì di essere destinatario dell’estensione della procedura concorsuale che abbia investito il prestanome, dall’altro, c’è chi sostiene, senza alcuna pietà, che la teoria dell’imprenditore occulto rappresenti un “grimaldello con cui si forzano delle aperture destinate a restare chiuse” (Barbero). Anche se l’elaborazione di quest’ultima era mossa dal purissimo proposito di equilibrare la bilancia della giustizia, portando alla luce della responsabilità esterna tutti coloro che occultamente dirigono l’impresa, appropriandosi dei vantaggi senza, tuttavia, esporsi ai conseguenti rischi, si afferma che soltanto il diritto positivo sia legittimato, in tale questione, a pronunciare la parola decisiva. Proprio il diritto positivo sarebbe stato inavvertitamente scavalcato da Walter Bigiavi, essendo l’autore, nel tentativo di inseguire un’esigenza di equità ante norma, caduto in una contaminazione tra ragione giuridica e ragione economica.

Dopo aver descritto la c.d. teoria della responsabilità di impresa di Giuseppe Ferri, proveremo ad esporre le precipue accuse che vengono mosse alla prorompente elaborazione bigiaviana.

4. La teoria della responsabilità di impresa (Ferri)

Non tutti gli autori rigettano in blocco le premesse e gli approdi della lezione di Walter Bigiavi. È proprio questo il caso della c.d. teoria della responsabilità di impresa (la definizione è di Mario Notari), sviluppo della tesi sostenuta da Giuseppe Ferri qualche decennio fa. Si parte, pur sempre, dal respingere l’idea che il legislatore del ’42 abbia adottato un criterio attributivo della qualità di imprenditore ulteriore rispetto a quello della spendita del nome. Quest’ultimo continuerebbe a rappresentare uno dei cardini fondamentali del nostro sistema commerciale, quello per cui le conseguenze giuridiche di un atto o di una attività si producono esclusivamente a carico di colui nel cui nome tale atto o attività vengono compiuti. L’assunto viene giustificato con un’interpretazione dell’articolo 2208 del Codice Civile a dir poco  opposta a quella avanzata dai sostenitori della teoria dell’imprenditore occulto. Si ritiene, infatti, che l’azione esercitabile dal terzo nei confronti del preponente qualora l’institore ponga in essere un atto pertinente all’esercizio dell’impresa senza spendere il nome del primo, trovi fondamento nella circostanza che l’institore è inserito in modo stabile e permanente nell’organizzazione di quell’impresa, talché tale inserimento è esteriorizzato ai terzi. Insomma, non si tratterebbe di un’azione contro chi è rimasto dietro le quinte, bensì nei confronti di un soggetto che il mondo economico conosce come imprenditore e il cui nome solo nel singolo affare, eccezionalmente, non è stato speso. Non esistendo un criterio economico-sostanziale che concorra con quello formale della spendita del nome all’individuazione della figura soggettiva rilevante nell’esercizio dell’attività economica, allora, il dominus occulto non diventa affatto imprenditore. Tuttavia, si reputa non ammissibile che la creazione di un artificioso diaframma tra chi spende il nome all’esterno e chi di fatto gestisce l’attività possa esimere un soggetto dalla responsabilità di impresa che pure gli compete. Al fine di affermare che quest’ultima penda anche sul capo di colui che è pur sempre definito (dallo stesso Ferri) “imprenditore” occulto, si distingue l’agire per mezzo di altri, cioè mediante un gestore, e l’agire sotto nome altrui, ossia attraverso un prestanome. Anche se in entrambe le ipotesi la titolarità dell’interesse spetta ad un soggetto diverso da quello che esternamente appare, quando si agisce per mezzo di altri, le determinazioni rilevanti proverrebbero pur sempre del gestore, mentre, quando si agisce sotto nome altrui, la volontà apparterrebbe, esclusivamente, al titolare dell’interesse, giammai al prestanome. Ecco, allora, che, in virtù della spendita del nome, le conseguenze degli atti compiuti ricadono sul prestanome, ma, allorché si scopra che egli è pur sempre uno schermo, ricadranno anche sul soggetto che effettivamente li vuole, ossia sul dominus occulto. L’opzione si giustifica alla luce della ratio che regola l’ipotesi del contraente non nominato nel contratto di mediazione (prevista dall’articolo 1762 del Codice Civile). In tal caso, ai sensi del comma 2, una volta palesatasi la situazione occultata, ossia la figura dell’altro contraente, quest’ultimo non potrà sottrarsi alle conseguenze dell’atto voluto, pur esistendo, comunque, una responsabilità del mediatore. L’obbligazione del contraente originariamente occulto sorge in quanto il legislatore, al fine di attribuire gli effetti degli atti compiuti, considera  giuridicamente rilevante non solo la materialità dell’atto (chi l’ha compiuto spendendo il proprio nome), bensì anche la volontà dispositiva che lo ha ispirato. Ora, secondo la teoria della responsabilità di impresa, tale scelta dell’ordinamento, data l’analogia, può essere estesa alle ipotesi dell’agire sotto nome altrui. Si conclude osservando che, in caso di dissesto dell’impresa, la responsabilità del dominus occulto accanto a quella dell’imprenditore palese comporta l’assoggettabilità di entrambi alla procedura concorsuale di fallimento. Sarebbe stata, appunto, proprio questa la logica che ha ispirato l’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare.

5. L’inesistenza del criterio economico-sostanziale del potere di direzione

Alcuni autori (Barbero, Campobasso) considerano errato ritenere che esistano nel nostro ordinamento due diversi criteri generali di imputazione della responsabilità per debiti di impresa e, prima ancora, attributivi dello status di imprenditore. A farne le spese è, chiaramente, il criterio economico-sostanziale del potere di direzione. La tesi critica si ricaverebbe dalle norme in materia di società (dunque, argomenti diversi da quelli sostenuti dalla teoria della responsabilità di impresa), poiché, per quanto sia vero che nelle società di persone il socio amministratore non possa limitare la propria responsabilità, non sarebbe esatto ritenere che la responsabilità illimitata sia indissolubilmente legata al potere di direzione. Nella società in nome collettivo, infatti, tutti i soci rispondono illimitatamente, anche se, come è ben possibile ai sensi degli articoli 2293, 2257, comma 2 e 2259 del Codice Civile, la direzione dell’ente sia stata riservata solo ad alcuni soci. Stesso discorso vale per la società in accomandita semplice, essendo possibile riservare l’amministrazione solo ad alcuni soci accomandatari. L’apice giustificativo, poi, sarebbe rappresentato dalla disciplina della società di capitali (s.p.a. o s.r.l.) unipersonale. Ai sensi degli articoli 2325, comma 2 e 2462, comma 2, infatti, oggi non è più sufficiente essere l’unico socio per incorrere nella responsabilità illimitata, poiché, a tal fine, il legislatore richiede il concorso di ulteriori condizioni oggettive e formali. Inoltre, si sostiene (Campobasso) che, pur volendo ammettere che la spendita del nome non rappresenti il criterio di imputazione dei debiti di impresa in tutti i casi, i diversi criteri si baserebbero pur sempre su indici esclusivamente formali ed oggettivi, come la qualità di socio illimitatamente responsabile, il mancato rispetto della disciplina dei conferimenti e della pubblicità nelle società di capitali unipersonali o l’abuso del potere di direzione e coordinamento negli articoli 2497 e seguenti del Codice Civile.

6. La critica al ragionamento analogico

Qualche autore, poi, ripudia l’analogia su cui si basa la teoria dell’imprenditore occulto. Dai fallimenti del socio occulto di una società palese e del socio occulto di una società occulta, fattispecie, oggi, entrambe regolate, si passerebbe, attraverso un salto logico, al fallimento dell’imprenditore occulto. L’operazione, come è lecito nell’analogia, si nutre del presupposto che nelle tre fattispecie sia identica la situazione sostanziale. Tuttavia, i critici oppongono che non sia così. Come in precedenza osservato, afferma Bigiavi che, se può fallire il socio occulto di una società palese, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non aver minimamente contato, non v’è ragione al mondo per cui non debbano fallire anche il socio di una società occulta ed il dominus nascosto dietro l’imprenditore palese. Eppure, si sostiene (Barbero), la rilevanza meramente negativa di una data circostanza in un determinato caso non è idonea a costituire il fondamento di un’eadem ratio decidendi in tutti i casi in cui sia solo la rilevanza negativa della medesima circostanza ad essere comune. Ad esempio, se il non essere alto non costituisce impedimento per diventare avvocato, non per questo si è legittimati a dire che non v’è ragione al mondo che una persona non alta non debba diventare avvocato. Infatti, nel fallimento del socio occulto di una società palese, disciplinato dall’attuale comma 4 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, è fuori contestazione che esiste una società con soci illimitatamente responsabili, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di tale società e che gli atti siano stati posti in essere in nome della società. Qui, ad essere occultato è solo il reale numero dei soci. Dunque, il socio occulto fallirebbe non per l’applicazione del criterio della spendita del nome, dato che neanche il nome dei soci palesi è stato direttamente speso, bensì per lo stesso motivo per cui falliscono i soci palesi: l’esser parte, assumendo la responsabilità illimitata, della società. Anche nel fallimento del socio occulto di una società occulta, ipotesi disciplinata, invece, dall’attuale comma 5, è fuor di dubbio che esiste una società a responsabilità illimitata e che tutti i soci successivamente scoperti ne facciano parte. Pure qui, allora, il presupposto del fallimento sarebbe l’essere socio illimitatamente responsabile di una società di persone. È proprio quest’ultimo a mancare nella fattispecie non contemplata dalla Legge Fallimentare, ossia nell’ipotesi del dominus occulto che agisce mediante prestanome, difettando tutti gli elementi costitutivi del contratto di società. E allora, dall’articolo 147 si desumerebbe che il socio di una società a responsabilità illimitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione non è esteriorizzata o anche se non è esteriorizzata l’esistenza stessa della società, ma non risponderà mai, tuttavia, chi socio non è (motivo, questo, che porta Notari a ritenere non convincente neppure la teoria della responsabilità di impresa, la quale pure sostiene la possibile soggezione al fallimento pure del dominus occulto).

7. Il pregiudizio del presupposto fallimentare

Se il motivo per cui il socio illimitatamente responsabile, palese od occulto che sia, fallisce è unicamente l’esser parte, assumendo la responsabilità illimitata, di una società, a ben vedere la teoria dell’imprenditore occulto si risolverebbe in fumo. Nella produzione letteraria di Bigiavi, tuttavia, ci è dato rinvenire un tentativo di salvezza. Secondo il Maestro bolognese, nel nostro ordinamento, l’essere socio illimitatamente responsabile implica essere imprenditori dell’organizzazione sociale, e ciò proprio in virtù dell’esistenza nel sistema post ’42 dell’ulteriore criterio attributivo di tale qualifica, rappresentato dalla titolarità del potere di direzione dell’impresa. Dunque, il reale motivo per cui il socio illimitatamente responsabile, palese od occulto che sia, fallisce sarebbe proprio lo status di imprenditore, ragion per cui si azzererebbe il gap argomentativo nel passaggio analogico dal fallimento del socio occulto di una società occulta a quello del dominus occulto, imprenditore per lo stesso motivo del primo. Il punto è che, però, anche qui insiste un notevole rilievo critico. Si sostiene che Bigiavi sarebbe vittima di un pregiudizio frutto di una lettura superficiale dell’articolo 1 della Legge Fallimentare, ossia ritiene che il fallimento sia possibile soltanto per gli imprenditori e che, pertanto, se un soggetto fallisce, lo fa solo in ragione della sua qualità di imprenditore. Si afferma, di conseguenza, che, nel nostro sistema concorsuale, oltre agli imprenditori, possono fallire anche soggetti diversi, ossia proprio i soci a responsabilità illimitata delle società di persone. Dire che “tutti gli imprenditori sono soggetti al fallimento, ergo solo gli imprenditori sono soggetti al fallimento” sarebbe come dire “tutti i cani hanno quattro zampe, ergo solo i cani hanno quattro zampe” (la suggestiva similitudine appartiene a Barbero). Che il socio illimitatamente responsabile non sia imprenditore emergerebbe, almeno, dall’articolo 2267 del Codice Civile. I soci della società a base personalistica possono evitare la responsabilità illimitata con patto contrario fra soci portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Se davvero tale soggetto fosse un imprenditore, applicando l’articolo 147 della Legge Fallimentare, otterremmo l’incongruenza di un imprenditore non fallibile.

Giova, tuttavia, sottolineare che anche su questo punto la replica dei sostenitori (Pavone La Rosa) della teoria dell’imprenditore occulto risulta facile e coerente. Si afferma che sono imprenditori tutti coloro ai quali la legge imputa gli effetti tipici conseguenti all’esercizio di un’attività d’impresa. Ora, se dal sistema è possibile desumere che, accanto ai soggetti ai quali tali effetti sono imputati nella loro unità, esistono altri soggetti ai quali la legge ne estende alcuni soltanto, è più che corretto distinguere le due diverse forme di imputazione e le relative fattispecie, ma fino ad un certo punto. Insomma, esistono fattispecie in merito alle quali l’imputazione del regime d’impresa è immediata e completa ed altre, invece, in cui tale imputazione è solo parziale e riflessa. Proprio nelle società, accanto agli effetti dell’attività di impresa imputati al “gruppo” dei soci, ne esistono taluni che la legge attribuisce esclusivamente al singolo socio illimitatamente responsabile, tra i quali vi è, certamente, quello regolato dall’articolo 147. Ecco, allora, che attribuire lo status di imprenditore anche ai singoli soci cessa di essere un errore, purché si postuli (Spada) che il regime dell’imprenditore indiretto (quello dei soci, appunto) non sia in tutto e per tutto uguale a quello dell’imprenditore diretto (al quale la disciplina d’impresa si applica nella sua interezza).

8. La “correzione” di Pavone La Rosa

Secondo Antonio Pavone La Rosa, il vecchio comma 2 (attuale come 4) dell’articolo 147 della Legge Fallimentare non sarebbe indice della irrilevanza, in questo caso, della spendita del nome nell’attribuire la responsabilità, anche fallimentare, per i debiti di impresa. A ben vedere, però, l’assunto, piuttosto che un ostacolo alla teoria dell’imprenditore occulto, ne rappresenta uno sviluppo. Esso si giustifica in quanto non sarebbe possibile distinguere, nelle società che appaiono all’esterno, tra soci il cui nome è stato speso e soci il cui nome non lo è stato e, di conseguenza, desumere dalla norma citata l’intento di trattare questi ultimi al pari dei primi. L’effettivo elemento determinante nella disciplina della disposizione fallimentare sarebbe la qualità di socio illimitatamente responsabile, cui consegue la soggezione al fallimento, non la circostanza che l’esistenza del socio sia o meno nota. Ciò in quanto, poiché la legge considera la responsabilità illimitata del socio della s.n.c. e dell’accomandatario della s.a.s. una caratteristica essenziale ed insopprimibile (ai sensi degli articoli 2291, comma 2, 2315 e 2318, comma 1 del Codice Civile), nei rapporti esterni, di tali organizzazioni di impresa, appare naturale che ad essa i soci non possano sottrarsi in alcun modo, neppure mantenendosi occulti. Con tale ricostruzione, sembra quasi che il criterio economico-sostanziale attributivo della qualità di imprenditore, rappresentato dal potere di direzione dell’attività, premessa necessaria della teoria dell’imprenditore occulto, perda vigore scientifico oltre che utilità. Tuttavia, esso riacquista subito il suo ruolo nel momento in cui si tenta di rispondere ad un interrogativo fondamentale, ossia qual è il presupposto che determina la responsabilità illimitata dei soci delle società personali ed il divieto della sua limitazione esterna. Ritiene Pavone La Rosa che la risposta esatta a tale quesito sia, infatti, la partecipazione alla gestione della società di cui si è parte, dunque un criterio economico-sostanziale per nulla lontano dalla dottrina della sovranità difesa da Bigiavi. Il collegamento potere di gestione-responsabilità illimitata, inoltre, spiegherebbe anche perché, nell’accomandita semplice, l’accomandante decade dal beneficio della responsabilità limitata qualora partecipi, sia pure mediante atti di gestione meramente interna, all’amministrazione della società (ai sensi dell’articolo 2320, comma 1, seconda parte).

9La tendenza normativa all’eccezionalità del fallimento del gestore di impresa

Altri autori (su tutti, Notari) avanzano critiche agli approdi della lezione bigiaviana proprio ponendosi sul piano della sostanza e delle scelte politiche, punto di vista privilegiato della teoria dell’imprenditore occulto. Si ritiene, infatti, che l’attuale quadro normativo revochi in ipotesi veramente eccezionali quantomeno l’assoggettabilità al fallimento di chi abbia gestito, e male, l’impresa in deficit. E ciò per una serie di ragioni. Innanzitutto, l’articolo 147 della Legge Fallimentare impedisce che la procedura concorsuale possa colpire l’unico azionista o quotista di società di capitali, quand’anche costui, non rispettando gli oneri che la legge gli impone, assume responsabilità illimitata. In secundis, la possibilità di sfruttare il modello organizzativo delle società di capitali come uno strumento dell’esercizio dell’impresa nel proprio interesse esclusivo, nel linguaggio dei sostenitori della teoria dell’imprenditore occulto si direbbe “società di comodo”, sembra essere incentivata dal legislatore europeo ed italiano (come, ad esempio, pare mostrare l’articolo 9 del Decreto Legislativo 23 Luglio 1991 n. 240, in tema di gruppo europeo di interesse economico, prevedendo la responsabilità solidale ed illimitata di tutti i membri per le obbligazioni assunte dal gruppo stesso, ma al contempo precisando che, in caso di insolvenza, il fallimento del gruppo non determina il fallimento per estensione dei suoi membri). Infine, gli articoli 2497 e seguenti del Codice Civile dispongono che le conseguenze dell’abuso dello strumento societario, da parte del soggetto in grado di dominarlo, comportano, al più, un risarcimento del danno causato e non già la responsabilità per tutte le obbligazioni sociali comprensiva dell’assoggettamento al fallimento in caso di insolvenza della controllata. La tendenza, insomma, sembrerebbe essere quella non già di individuare una responsabilità quando si esercitano poteri gestori in un’impresa formalmente altrui, bensì quella di valutare negativamente la circostanza che ciò avvenga con modalità scorrette per sanzionarla mediante lo schema della responsabilità aquiliana.

10La tecnica dell’impresa fiancheggiatrice

Nonostante i vari tentativi di confutazione, si avverte comunque una tendenziale resistenza ad abbondonare ogni sforzo di reazione contro il reprensibile scopo di trarre vantaggi non giustificati dallo sfruttamento di schemi formali. Vi sarebbe una tecnica che, per qualcuno (Campobasso), raggiunge i medesimi risultati della lezione bigiaviana senza allontanarsi, però, dalla coerenza con le scelte effettuate dal nostro legislatore. Ci si riferisce all’elaborazione, soprattutto pratica, della c.d. impresa fiancheggiatrice. Secondo quest’ultima, comportamenti come il sistematico finanziamento della società con prestiti o garanzie a suo favore, la continua ingerenza negli affari sociali e la direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o più società paravento possono integrare gli estremi di una autonoma attività di impresa. Si tratterebbe di un’impresa di finanziamento o di gestione a latere di quella sociale formalmente esistente. Sempre che ricorrano i requisiti domandati dall’articolo 2082 del Codice Civile, il socio o i soci che hanno abusato dello schermo societario risponderanno quali titolari di un’autonoma impresa commerciale individuale o societaria (società di fatto) per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice, subiranno l’actio mandati contraria, ai sensi dell’articolo 1720 del Codice Civile,da parte della società abusata per il rimborso delle somme erogate nell’interesse della prima e per il risarcimento dei danni subiti dalla seconda e potranno, in caso di insolvenza della loro impresa, persino fallire. Giova sottolineare, però, che, in realtà, al di là della circostanza che la tecnica dell’impresa fiancheggiatrice ignora la fattispecie “classica” (per quanto empiricamente rara) dell’imprenditore occulto, ossia quella in cui vi è un’impresa individuale che spendendo il nome del prestanome è occultamente gestita da un altro soggetto, ci si rende facilmente conto che non si arriva affatto a quella coincidenza, in sede fallimentare, dei passivi dell’imprenditore palese e dell’imprenditore occulto, garantita, invece, dalla teoria di Bigiavi.

 

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Abstract

L’autore analizza gli orientamenti dottrinali critici nei confronti della c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Vengono descritte sia le posizioni (Ferri, Pavone La Rosa) che, pur criticando le premesse della lezione di Walter Bigiavi, cercano di raggiungere i medesimi risultati pratici della prorompente teoria e sia le elaborazioni della dottrina commercialistica che accusano il Maestro bolognese di aver inavvertitamente scavalcato il diritto positivo, cadendo in una contaminazione tra ragione giuridica e ragione economica.

 

SOMMARIO: 1. La gestione indiretta dell’impresa e la traslazione del rischio di insolvenza - 2.La teoria dell’imprenditore occulto - 3. Gli orientamenti critici (premessa) - 4. La teoria della responsabilità di impresa (Ferri) - 5. L’inesistenza del criterio economico-sostanziale del potere di direzione - 6. La critica al ragionamento analogico - 7. Il pregiudizio del presupposto fallimentare - 8. La “correzione” di Pavone La Rosa - 9. La tendenza normativa all’eccezionalità del fallimento del gestore di impresa - 10.La tecnica dell’impresa fiancheggiatrice

1. La gestione indiretta dell’impresa e la traslazione del rischio di insolvenza

È problematica l’imputazione dello status di imprenditore, ossia la scelta della figura soggettiva alla quale applicare la disciplina che si attiva nel caso di adeguatezza del comportamento alla fattispecie “impresa” (descritta dall’articolo 2082 del Codice Civile). Si ritiene (tra i tanti, Campobasso) che, allo scopo, il criterio selettivo maggiormente adeguato sia quello che individua il centro di imputazione dei singoli atti compiuti nel soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Tale meccanismo di imputazione, c.d. spendita del nome, risponderebbe ad esigenze di certezza del diritto, giustamente pressanti nella realtà economica, e sarebbe espressamente enunciato in tema di mandato senza rappresentanza (ex articolo 1705 del Codice Civile). Insomma, bisognerebbe intendere l’articolo 2082 c.c. come se dicesse che “è imprenditore chi esercita in nome proprio …un’attività economica”. Ma davvero, nel sistema delineato dal legislatore, la detenzione dell’interesse sotteso all’esercizio dell’attività imprenditoriale, non gioca alcun ruolo? È sul serio irrilevante la figura di colui che ha titolo al conteggio dei risultati e, in forza di questo, possiede il potere di istruire l’agente o, più in generale, il governo dell’iniziativa economica? Attribuire lo status di imprenditore sulla base del solo criterio formale della spendita del nome suscita, appunto, qualche perplessità quando interesse e nome speso si dissociano. Sono i casi di comportamento imprenditoriale tenuto nel nome proprio dell’agente ma nell’interesse altrui, e comportamento imprenditoriale tenuto nel nome altrui ma nell’interesse proprio dell’agente. Qui, nell’esecuzione degli atti di impresa, diversi saranno il soggetto che compie gli stessi in proprio nome e quello che impartisce le direttive, somministra i capitali necessari ed intasca gli utili senza, però, mai palesarsi ai terzi. Problemi non sorgono quando l’impresa viene esercitata con profitto e gli affari prosperano. Tuttavia, quando l’esercizio cessa di essere lucrativo, è possibile che si lasci il prestanome od una società etichetta, probabilmente nullatenenti, nell’impossibilità di onorare i debiti contratti, anche se sottoposti alla ghigliottina concorsuale. A ben vedere, in questo caso, il rischio derivante dall’esercizio dell’attività economica verrebbe traslato su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’oculatezza di farsi garantire personalmente dal reale dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese, con tanto di pregiudizio inaccettabile specie per i creditori più deboli dal punto di vista finanziario.

2. La teoria dell’imprenditore occulto

Attesa l’insufficienza del criterio della c.d. spendita del nome a risolvere, da solo, situazioni in cui la costante ricerca di un posto comodo nel mondo degli affari può mettere capo a comportamenti socialmente irresponsabili, negli anni ’50 del secolo scorso, Walter Bigiavi, ostentando una notevole sensibilità tanto pratica quanto dogmatica, elaborava la c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Secondo la stessa, sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Più nello specifico, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: da un lato, la spendita del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e, dall’altro, l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, il quale, si ripete, attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile appendice della prima. Secondo Bigiavi, tale conclusione sarebbe ampiamente giustificabile alla luce dell’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). Ai sensi del vecchio comma 2 (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), infatti, qualora dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale dichiara il fallimento dei medesimi. Dunque, fallisce il socio occulto di società palese. Ma se può fallire costui, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non avere minimamente contato, non vi è ragione al mondo per cui non debba fallire anche il socio occulto di una società occulta, e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Data l’ovvia specularità tra le due ipotesi, insomma, apparirebbe giustificata l’analogia legis. Poiché, infine, è giuridicamente irrilevante se chi rimane tra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome, sarebbe lecito estendere anche al caso dell’imprenditore occulto il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere l’unico vero dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

3. Gli orientamenti critici (premessa)

Nonostante per qualcuno (Oppo) non pare esserci rottura col dato normativo, la c. d. teoria dell’imprenditore occulto ha fatto spesso storcere il naso di dottrina e giurisprudenza. Se, da un lato, c’è chi, come i sostenitori della teoria della responsabilità di impresa, ritiene che il dominus occulto, pur non essendo qualificabile come imprenditore, debba rispondere per i debiti di impresa, rischiando altresì di essere destinatario dell’estensione della procedura concorsuale che abbia investito il prestanome, dall’altro, c’è chi sostiene, senza alcuna pietà, che la teoria dell’imprenditore occulto rappresenti un “grimaldello con cui si forzano delle aperture destinate a restare chiuse” (Barbero). Anche se l’elaborazione di quest’ultima era mossa dal purissimo proposito di equilibrare la bilancia della giustizia, portando alla luce della responsabilità esterna tutti coloro che occultamente dirigono l’impresa, appropriandosi dei vantaggi senza, tuttavia, esporsi ai conseguenti rischi, si afferma che soltanto il diritto positivo sia legittimato, in tale questione, a pronunciare la parola decisiva. Proprio il diritto positivo sarebbe stato inavvertitamente scavalcato da Walter Bigiavi, essendo l’autore, nel tentativo di inseguire un’esigenza di equità ante norma, caduto in una contaminazione tra ragione giuridica e ragione economica.

Dopo aver descritto la c.d. teoria della responsabilità di impresa di Giuseppe Ferri, proveremo ad esporre le precipue accuse che vengono mosse alla prorompente elaborazione bigiaviana.

4. La teoria della responsabilità di impresa (Ferri)

Non tutti gli autori rigettano in blocco le premesse e gli approdi della lezione di Walter Bigiavi. È proprio questo il caso della c.d. teoria della responsabilità di impresa (la definizione è di Mario Notari), sviluppo della tesi sostenuta da Giuseppe Ferri qualche decennio fa. Si parte, pur sempre, dal respingere l’idea che il legislatore del ’42 abbia adottato un criterio attributivo della qualità di imprenditore ulteriore rispetto a quello della spendita del nome. Quest’ultimo continuerebbe a rappresentare uno dei cardini fondamentali del nostro sistema commerciale, quello per cui le conseguenze giuridiche di un atto o di una attività si producono esclusivamente a carico di colui nel cui nome tale atto o attività vengono compiuti. L’assunto viene giustificato con un’interpretazione dell’articolo 2208 del Codice Civile a dir poco  opposta a quella avanzata dai sostenitori della teoria dell’imprenditore occulto. Si ritiene, infatti, che l’azione esercitabile dal terzo nei confronti del preponente qualora l’institore ponga in essere un atto pertinente all’esercizio dell’impresa senza spendere il nome del primo, trovi fondamento nella circostanza che l’institore è inserito in modo stabile e permanente nell’organizzazione di quell’impresa, talché tale inserimento è esteriorizzato ai terzi. Insomma, non si tratterebbe di un’azione contro chi è rimasto dietro le quinte, bensì nei confronti di un soggetto che il mondo economico conosce come imprenditore e il cui nome solo nel singolo affare, eccezionalmente, non è stato speso. Non esistendo un criterio economico-sostanziale che concorra con quello formale della spendita del nome all’individuazione della figura soggettiva rilevante nell’esercizio dell’attività economica, allora, il dominus occulto non diventa affatto imprenditore. Tuttavia, si reputa non ammissibile che la creazione di un artificioso diaframma tra chi spende il nome all’esterno e chi di fatto gestisce l’attività possa esimere un soggetto dalla responsabilità di impresa che pure gli compete. Al fine di affermare che quest’ultima penda anche sul capo di colui che è pur sempre definito (dallo stesso Ferri) “imprenditore” occulto, si distingue l’agire per mezzo di altri, cioè mediante un gestore, e l’agire sotto nome altrui, ossia attraverso un prestanome. Anche se in entrambe le ipotesi la titolarità dell’interesse spetta ad un soggetto diverso da quello che esternamente appare, quando si agisce per mezzo di altri, le determinazioni rilevanti proverrebbero pur sempre del gestore, mentre, quando si agisce sotto nome altrui, la volontà apparterrebbe, esclusivamente, al titolare dell’interesse, giammai al prestanome. Ecco, allora, che, in virtù della spendita del nome, le conseguenze degli atti compiuti ricadono sul prestanome, ma, allorché si scopra che egli è pur sempre uno schermo, ricadranno anche sul soggetto che effettivamente li vuole, ossia sul dominus occulto. L’opzione si giustifica alla luce della ratio che regola l’ipotesi del contraente non nominato nel contratto di mediazione (prevista dall’articolo 1762 del Codice Civile). In tal caso, ai sensi del comma 2, una volta palesatasi la situazione occultata, ossia la figura dell’altro contraente, quest’ultimo non potrà sottrarsi alle conseguenze dell’atto voluto, pur esistendo, comunque, una responsabilità del mediatore. L’obbligazione del contraente originariamente occulto sorge in quanto il legislatore, al fine di attribuire gli effetti degli atti compiuti, considera  giuridicamente rilevante non solo la materialità dell’atto (chi l’ha compiuto spendendo il proprio nome), bensì anche la volontà dispositiva che lo ha ispirato. Ora, secondo la teoria della responsabilità di impresa, tale scelta dell’ordinamento, data l’analogia, può essere estesa alle ipotesi dell’agire sotto nome altrui. Si conclude osservando che, in caso di dissesto dell’impresa, la responsabilità del dominus occulto accanto a quella dell’imprenditore palese comporta l’assoggettabilità di entrambi alla procedura concorsuale di fallimento. Sarebbe stata, appunto, proprio questa la logica che ha ispirato l’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare.

5. L’inesistenza del criterio economico-sostanziale del potere di direzione

Alcuni autori (Barbero, Campobasso) considerano errato ritenere che esistano nel nostro ordinamento due diversi criteri generali di imputazione della responsabilità per debiti di impresa e, prima ancora, attributivi dello status di imprenditore. A farne le spese è, chiaramente, il criterio economico-sostanziale del potere di direzione. La tesi critica si ricaverebbe dalle norme in materia di società (dunque, argomenti diversi da quelli sostenuti dalla teoria della responsabilità di impresa), poiché, per quanto sia vero che nelle società di persone il socio amministratore non possa limitare la propria responsabilità, non sarebbe esatto ritenere che la responsabilità illimitata sia indissolubilmente legata al potere di direzione. Nella società in nome collettivo, infatti, tutti i soci rispondono illimitatamente, anche se, come è ben possibile ai sensi degli articoli 2293, 2257, comma 2 e 2259 del Codice Civile, la direzione dell’ente sia stata riservata solo ad alcuni soci. Stesso discorso vale per la società in accomandita semplice, essendo possibile riservare l’amministrazione solo ad alcuni soci accomandatari. L’apice giustificativo, poi, sarebbe rappresentato dalla disciplina della società di capitali (s.p.a. o s.r.l.) unipersonale. Ai sensi degli articoli 2325, comma 2 e 2462, comma 2, infatti, oggi non è più sufficiente essere l’unico socio per incorrere nella responsabilità illimitata, poiché, a tal fine, il legislatore richiede il concorso di ulteriori condizioni oggettive e formali. Inoltre, si sostiene (Campobasso) che, pur volendo ammettere che la spendita del nome non rappresenti il criterio di imputazione dei debiti di impresa in tutti i casi, i diversi criteri si baserebbero pur sempre su indici esclusivamente formali ed oggettivi, come la qualità di socio illimitatamente responsabile, il mancato rispetto della disciplina dei conferimenti e della pubblicità nelle società di capitali unipersonali o l’abuso del potere di direzione e coordinamento negli articoli 2497 e seguenti del Codice Civile.

6. La critica al ragionamento analogico

Qualche autore, poi, ripudia l’analogia su cui si basa la teoria dell’imprenditore occulto. Dai fallimenti del socio occulto di una società palese e del socio occulto di una società occulta, fattispecie, oggi, entrambe regolate, si passerebbe, attraverso un salto logico, al fallimento dell’imprenditore occulto. L’operazione, come è lecito nell’analogia, si nutre del presupposto che nelle tre fattispecie sia identica la situazione sostanziale. Tuttavia, i critici oppongono che non sia così. Come in precedenza osservato, afferma Bigiavi che, se può fallire il socio occulto di una società palese, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non aver minimamente contato, non v’è ragione al mondo per cui non debbano fallire anche il socio di una società occulta ed il dominus nascosto dietro l’imprenditore palese. Eppure, si sostiene (Barbero), la rilevanza meramente negativa di una data circostanza in un determinato caso non è idonea a costituire il fondamento di un’eadem ratio decidendi in tutti i casi in cui sia solo la rilevanza negativa della medesima circostanza ad essere comune. Ad esempio, se il non essere alto non costituisce impedimento per diventare avvocato, non per questo si è legittimati a dire che non v’è ragione al mondo che una persona non alta non debba diventare avvocato. Infatti, nel fallimento del socio occulto di una società palese, disciplinato dall’attuale comma 4 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, è fuori contestazione che esiste una società con soci illimitatamente responsabili, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di tale società e che gli atti siano stati posti in essere in nome della società. Qui, ad essere occultato è solo il reale numero dei soci. Dunque, il socio occulto fallirebbe non per l’applicazione del criterio della spendita del nome, dato che neanche il nome dei soci palesi è stato direttamente speso, bensì per lo stesso motivo per cui falliscono i soci palesi: l’esser parte, assumendo la responsabilità illimitata, della società. Anche nel fallimento del socio occulto di una società occulta, ipotesi disciplinata, invece, dall’attuale comma 5, è fuor di dubbio che esiste una società a responsabilità illimitata e che tutti i soci successivamente scoperti ne facciano parte. Pure qui, allora, il presupposto del fallimento sarebbe l’essere socio illimitatamente responsabile di una società di persone. È proprio quest’ultimo a mancare nella fattispecie non contemplata dalla Legge Fallimentare, ossia nell’ipotesi del dominus occulto che agisce mediante prestanome, difettando tutti gli elementi costitutivi del contratto di società. E allora, dall’articolo 147 si desumerebbe che il socio di una società a responsabilità illimitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione non è esteriorizzata o anche se non è esteriorizzata l’esistenza stessa della società, ma non risponderà mai, tuttavia, chi socio non è (motivo, questo, che porta Notari a ritenere non convincente neppure la teoria della responsabilità di impresa, la quale pure sostiene la possibile soggezione al fallimento pure del dominus occulto).

7. Il pregiudizio del presupposto fallimentare

Se il motivo per cui il socio illimitatamente responsabile, palese od occulto che sia, fallisce è unicamente l’esser parte, assumendo la responsabilità illimitata, di una società, a ben vedere la teoria dell’imprenditore occulto si risolverebbe in fumo. Nella produzione letteraria di Bigiavi, tuttavia, ci è dato rinvenire un tentativo di salvezza. Secondo il Maestro bolognese, nel nostro ordinamento, l’essere socio illimitatamente responsabile implica essere imprenditori dell’organizzazione sociale, e ciò proprio in virtù dell’esistenza nel sistema post ’42 dell’ulteriore criterio attributivo di tale qualifica, rappresentato dalla titolarità del potere di direzione dell’impresa. Dunque, il reale motivo per cui il socio illimitatamente responsabile, palese od occulto che sia, fallisce sarebbe proprio lo status di imprenditore, ragion per cui si azzererebbe il gap argomentativo nel passaggio analogico dal fallimento del socio occulto di una società occulta a quello del dominus occulto, imprenditore per lo stesso motivo del primo. Il punto è che, però, anche qui insiste un notevole rilievo critico. Si sostiene che Bigiavi sarebbe vittima di un pregiudizio frutto di una lettura superficiale dell’articolo 1 della Legge Fallimentare, ossia ritiene che il fallimento sia possibile soltanto per gli imprenditori e che, pertanto, se un soggetto fallisce, lo fa solo in ragione della sua qualità di imprenditore. Si afferma, di conseguenza, che, nel nostro sistema concorsuale, oltre agli imprenditori, possono fallire anche soggetti diversi, ossia proprio i soci a responsabilità illimitata delle società di persone. Dire che “tutti gli imprenditori sono soggetti al fallimento, ergo solo gli imprenditori sono soggetti al fallimento” sarebbe come dire “tutti i cani hanno quattro zampe, ergo solo i cani hanno quattro zampe” (la suggestiva similitudine appartiene a Barbero). Che il socio illimitatamente responsabile non sia imprenditore emergerebbe, almeno, dall’articolo 2267 del Codice Civile. I soci della società a base personalistica possono evitare la responsabilità illimitata con patto contrario fra soci portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Se davvero tale soggetto fosse un imprenditore, applicando l’articolo 147 della Legge Fallimentare, otterremmo l’incongruenza di un imprenditore non fallibile.

Giova, tuttavia, sottolineare che anche su questo punto la replica dei sostenitori (Pavone La Rosa) della teoria dell’imprenditore occulto risulta facile e coerente. Si afferma che sono imprenditori tutti coloro ai quali la legge imputa gli effetti tipici conseguenti all’esercizio di un’attività d’impresa. Ora, se dal sistema è possibile desumere che, accanto ai soggetti ai quali tali effetti sono imputati nella loro unità, esistono altri soggetti ai quali la legge ne estende alcuni soltanto, è più che corretto distinguere le due diverse forme di imputazione e le relative fattispecie, ma fino ad un certo punto. Insomma, esistono fattispecie in merito alle quali l’imputazione del regime d’impresa è immediata e completa ed altre, invece, in cui tale imputazione è solo parziale e riflessa. Proprio nelle società, accanto agli effetti dell’attività di impresa imputati al “gruppo” dei soci, ne esistono taluni che la legge attribuisce esclusivamente al singolo socio illimitatamente responsabile, tra i quali vi è, certamente, quello regolato dall’articolo 147. Ecco, allora, che attribuire lo status di imprenditore anche ai singoli soci cessa di essere un errore, purché si postuli (Spada) che il regime dell’imprenditore indiretto (quello dei soci, appunto) non sia in tutto e per tutto uguale a quello dell’imprenditore diretto (al quale la disciplina d’impresa si applica nella sua interezza).

8. La “correzione” di Pavone La Rosa

Secondo Antonio Pavone La Rosa, il vecchio comma 2 (attuale come 4) dell’articolo 147 della Legge Fallimentare non sarebbe indice della irrilevanza, in questo caso, della spendita del nome nell’attribuire la responsabilità, anche fallimentare, per i debiti di impresa. A ben vedere, però, l’assunto, piuttosto che un ostacolo alla teoria dell’imprenditore occulto, ne rappresenta uno sviluppo. Esso si giustifica in quanto non sarebbe possibile distinguere, nelle società che appaiono all’esterno, tra soci il cui nome è stato speso e soci il cui nome non lo è stato e, di conseguenza, desumere dalla norma citata l’intento di trattare questi ultimi al pari dei primi. L’effettivo elemento determinante nella disciplina della disposizione fallimentare sarebbe la qualità di socio illimitatamente responsabile, cui consegue la soggezione al fallimento, non la circostanza che l’esistenza del socio sia o meno nota. Ciò in quanto, poiché la legge considera la responsabilità illimitata del socio della s.n.c. e dell’accomandatario della s.a.s. una caratteristica essenziale ed insopprimibile (ai sensi degli articoli 2291, comma 2, 2315 e 2318, comma 1 del Codice Civile), nei rapporti esterni, di tali organizzazioni di impresa, appare naturale che ad essa i soci non possano sottrarsi in alcun modo, neppure mantenendosi occulti. Con tale ricostruzione, sembra quasi che il criterio economico-sostanziale attributivo della qualità di imprenditore, rappresentato dal potere di direzione dell’attività, premessa necessaria della teoria dell’imprenditore occulto, perda vigore scientifico oltre che utilità. Tuttavia, esso riacquista subito il suo ruolo nel momento in cui si tenta di rispondere ad un interrogativo fondamentale, ossia qual è il presupposto che determina la responsabilità illimitata dei soci delle società personali ed il divieto della sua limitazione esterna. Ritiene Pavone La Rosa che la risposta esatta a tale quesito sia, infatti, la partecipazione alla gestione della società di cui si è parte, dunque un criterio economico-sostanziale per nulla lontano dalla dottrina della sovranità difesa da Bigiavi. Il collegamento potere di gestione-responsabilità illimitata, inoltre, spiegherebbe anche perché, nell’accomandita semplice, l’accomandante decade dal beneficio della responsabilità limitata qualora partecipi, sia pure mediante atti di gestione meramente interna, all’amministrazione della società (ai sensi dell’articolo 2320, comma 1, seconda parte).

9La tendenza normativa all’eccezionalità del fallimento del gestore di impresa

Altri autori (su tutti, Notari) avanzano critiche agli approdi della lezione bigiaviana proprio ponendosi sul piano della sostanza e delle scelte politiche, punto di vista privilegiato della teoria dell’imprenditore occulto. Si ritiene, infatti, che l’attuale quadro normativo revochi in ipotesi veramente eccezionali quantomeno l’assoggettabilità al fallimento di chi abbia gestito, e male, l’impresa in deficit. E ciò per una serie di ragioni. Innanzitutto, l’articolo 147 della Legge Fallimentare impedisce che la procedura concorsuale possa colpire l’unico azionista o quotista di società di capitali, quand’anche costui, non rispettando gli oneri che la legge gli impone, assume responsabilità illimitata. In secundis, la possibilità di sfruttare il modello organizzativo delle società di capitali come uno strumento dell’esercizio dell’impresa nel proprio interesse esclusivo, nel linguaggio dei sostenitori della teoria dell’imprenditore occulto si direbbe “società di comodo”, sembra essere incentivata dal legislatore europeo ed italiano (come, ad esempio, pare mostrare l’articolo 9 del Decreto Legislativo 23 Luglio 1991 n. 240, in tema di gruppo europeo di interesse economico, prevedendo la responsabilità solidale ed illimitata di tutti i membri per le obbligazioni assunte dal gruppo stesso, ma al contempo precisando che, in caso di insolvenza, il fallimento del gruppo non determina il fallimento per estensione dei suoi membri). Infine, gli articoli 2497 e seguenti del Codice Civile dispongono che le conseguenze dell’abuso dello strumento societario, da parte del soggetto in grado di dominarlo, comportano, al più, un risarcimento del danno causato e non già la responsabilità per tutte le obbligazioni sociali comprensiva dell’assoggettamento al fallimento in caso di insolvenza della controllata. La tendenza, insomma, sembrerebbe essere quella non già di individuare una responsabilità quando si esercitano poteri gestori in un’impresa formalmente altrui, bensì quella di valutare negativamente la circostanza che ciò avvenga con modalità scorrette per sanzionarla mediante lo schema della responsabilità aquiliana.

10La tecnica dell’impresa fiancheggiatrice

Nonostante i vari tentativi di confutazione, si avverte comunque una tendenziale resistenza ad abbondonare ogni sforzo di reazione contro il reprensibile scopo di trarre vantaggi non giustificati dallo sfruttamento di schemi formali. Vi sarebbe una tecnica che, per qualcuno (Campobasso), raggiunge i medesimi risultati della lezione bigiaviana senza allontanarsi, però, dalla coerenza con le scelte effettuate dal nostro legislatore. Ci si riferisce all’elaborazione, soprattutto pratica, della c.d. impresa fiancheggiatrice. Secondo quest’ultima, comportamenti come il sistematico finanziamento della società con prestiti o garanzie a suo favore, la continua ingerenza negli affari sociali e la direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o più società paravento possono integrare gli estremi di una autonoma attività di impresa. Si tratterebbe di un’impresa di finanziamento o di gestione a latere di quella sociale formalmente esistente. Sempre che ricorrano i requisiti domandati dall’articolo 2082 del Codice Civile, il socio o i soci che hanno abusato dello schermo societario risponderanno quali titolari di un’autonoma impresa commerciale individuale o societaria (società di fatto) per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice, subiranno l’actio mandati contraria, ai sensi dell’articolo 1720 del Codice Civile,da parte della società abusata per il rimborso delle somme erogate nell’interesse della prima e per il risarcimento dei danni subiti dalla seconda e potranno, in caso di insolvenza della loro impresa, persino fallire. Giova sottolineare, però, che, in realtà, al di là della circostanza che la tecnica dell’impresa fiancheggiatrice ignora la fattispecie “classica” (per quanto empiricamente rara) dell’imprenditore occulto, ossia quella in cui vi è un’impresa individuale che spendendo il nome del prestanome è occultamente gestita da un altro soggetto, ci si rende facilmente conto che non si arriva affatto a quella coincidenza, in sede fallimentare, dei passivi dell’imprenditore palese e dell’imprenditore occulto, garantita, invece, dalla teoria di Bigiavi.

 

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