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Nuovi spunti per la c.d. dottrina della sovranità. Un vigente principio di ordine pubblico economico?

Nuovi spunti per la c.d. dottrina della sovranità. Un vigente principio di ordine pubblico economico?
Nuovi spunti per la c.d. dottrina della sovranità. Un vigente principio di ordine pubblico economico?

SOMMARIO: 1. La c.d. dottrina della sovranità - 2. Gli orientamenti critici - 3. Il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare - 4. Un nuovo principio di ordine economico?

Abstract

Dopo aver descritto la c.d. dottrina della sovranità, monade della teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, l’autore si imbatte in un’esegesi del vigente articolo 147 della Legge Fallimentare. Preso atto che ogni contemperamento di interessi comporta sacrifici mai del tutto giustificabili, ci si interroga sull’esistenza nel nostro ordinamento di un nuovo principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa (rectius per i debiti della stessa) colpisce e deve colpire sempre i soggetti che la gestiscono, superando qualsiasi barriera formale, anche se ispirata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

 

1. La c.d. dottrina della sovranità

Nel mondo degli affari, è possibile imbattersi in situazioni in cui, da un lato, abbiamo un soggetto il cui nome viene utilizzato quando occorre rivestire di formalità le relazioni che l’impresa ha avuto con i terzi e, dall’altro, esiste un soggetto, per così dire formalmente nascosto, che governa l’iniziativa economica, somministra i mezzi finanziari opportuni ed incamera gli utili. Si tratta del fenomeno della gestione indiretta dell’attività di impresa. In questa evenienza, qualora l’esercizio cessasse la produzione di lucro e smettesse, quindi, di essere un buon affare, è ben possibile che il reale gestore (vero soggetto titolare di un patrimonio sufficientemente capiente) sospenda persino l’erogazione dei capitali necessari alla sopravvivenza, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti. Ora, se si considera che solo un imprenditore (privato, commerciale e non piccolo) può fallire e si ritiene,  come fa la dottrina tradizionale, che per poter essere imprenditori è necessario aver formalmente speso il proprio nome nel corso delle operazioni con i terzi interessati (criterio della c.d. spendita del nome), accade che i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del solo prestanome. Peccato solo che, probabilmente, se l’operazione è stata veramente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa,  si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Il rischio di impresa, così, verrebbe traslato su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’oculatezza di farsi garantire personalmente dal reale dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese, con tanto di pregiudizio inaccettabile specie per i creditori più deboli dal punto di vista economico: finanziatori che non potranno tornare in possesso dei fondi erogati, fornitori che non otterranno il corrispettivo delle forniture effettuate, dipendenti dell’impresa che non riceveranno la retribuzione per il proprio lavoro. Attesa, allora, l’insufficienza del criterio della c.d. spendita del nome a risolvere, da solo, situazioni in cui la costante ricerca di un posto comodo nel mondo degli affari può mettere capo a comportamenti socialmente irresponsabili, negli anni ’50 del secolo scorso, Walter Bigiavi, ostentando una notevole sensibilità tanto pratica quanto dogmatica, elaborava la c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Fulcro di quest’ultima è l’ideache la nostra legge avrebbe definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Più nello specifico, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: da un lato, la spendita del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e, dall’altro, l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, il quale, si ripete, attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha in fatto gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile suggello della prima. Secondo Bigiavi, tale conclusione sarebbe ampiamente giustificabile alla luce di vari indici normativi, ossia, per un verso, gli articoli 2208, 2267, 2339 ultimo comma e 2615 comma 2 del Codice Civile e, per l’altro, l’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). In particolare, ai sensi del vecchio comma 2 di quest’ultimo (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), qualora dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale dichiara il fallimento dei medesimi. Dunque, fallisce il socio occulto di società palese. Ma, data la specularità con l’ipotesi del socio occulto di società occulta, in virtù dell’analogia legis, anche costui dovrebbe fallire e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Poiché, infine, è giuridicamente irrilevante se chi rimane dietro le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome, sarebbe lecito estendere anche al caso dell’imprenditore occulto il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere l’unico vero dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

2. Gli orientamenti critici

La lezione di Bigiavi, tuttavia, paga lo scotto della propria irruenza.  Nella scienza del diritto commerciale, infatti, accade molto spesso di scontrarsi con non sempre delicati tentativi di confutazione. E se alcuni autori, pur non condividendone i presupposti, mirano a raggiungere i medesimi risultati pratici, con coerenza (la teoria della responsabilità di impresa di Ferri) o qualche bizzarria di fondo (la tecnica dell’impresa fiancheggiatrice), altri ne rigettano gli approdi senza alcuna pietà. Si assiste così ad affermazioni circa la fallacia del ragionamento analogico bigiaviano, od in merito all’inesistenza, nel sistema normativo oggi vigente, di una responsabilità legata all’esercizio di un potere di direzione dell’impresa (insomma, alla fantasia di un criterio economico-sostanziale idoneo ad attribuire la qualifica di imprenditore e la responsabilità per i debiti conseguenti), come si evincerebbe, tra le altre cose, dall’attuale regime della società di capitali unipersonale. Oppure, ancora, si difende un’apodittica tendenza del legislatore nazionale ed europeo non già ad individuare una responsabilità quando si esercitano poteri gestori in un’impresa formalmente altrui, bensì unicamente ad intervenire con la sanzione della responsabilità aquiliana qualora tale gestione in concreto avvenga con modalità ritenute scorrette, ad onta del fatto che spesso la norma si dimentichi di precisare in cosa ciò consista.

3. Il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare

Abbiamo avuto modo di osservare come il dato normativo al centro della teoria dell’imprenditore occulto e della dottrina della sovranità sia l’articolo 147 della Legge Fallimentare. Pare, dunque, opportuno imbarcarci in una concentrata esegesi di alcune sue disposizioni ed osservare se, a seguito della decisa modifica ad opera dell’articolo 131 del Decreto Legislativo 9 Gennaio 2006  n. 5 (è appena il caso di sottolineare che, mentre il Decreto Legislativo 12 Settembre 2007 n. 169 ne ha solo aggiustato il 6° comma, l’articolo ha superato indenne le successive novelle della legge fondamentale sulle procedure concorsuali), sia possibile trarre nuovi sviluppi per la lezione di Bigiavi, ovvero scoprirne il colpo mortale.

Limitando l’attenzione unicamente a quelle modifiche od integrazioni mediante le quali il legislatore ha provato a dirimere le questioni interpretative che, grazie proprio alla teoria dell’imprenditore occulto, avevano affaticato decenni di dottrina e giurisprudenza, rimaniamo colpiti: a) dalla tipizzazione, presente nel comma 1, dell’ambito soggettivo all’interno del quale la regola del fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili, non per forza persone fisiche, è operativa; b) alla previsione, nuovissima, del comma 5 in merito alla c.d. “estensione successiva” (Caridi) del fallimento della società nei confronti del socio occulto di una società occulta.

Cominciamo l’analisi dall’attuale comma 1(il quale recita: “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”). La disposizione determina, nel caso di fallimento di una società in nome collettivo, di una società in accomandita semplice o di una società in accomandita per azioni, l’estensione successiva “automatica” della procedura nei confronti dei soci illimitatamente responsabili delle stesse. L’inciso “pur se non persone fisiche” chiarisce che falliscono per estensione anche le eventuali società, sia di capitali che di persone, socie illimitatamente responsabili dei tre tipi di società a base personalistica summenzionati. Una società per azioni, infatti, può assumere partecipazioni in altre imprese comportanti la responsabilità illimitata per le obbligazioni di quest’ultima purché rispetti le condizioni dettate dall’articolo 2361 del Codice Civile, ossia che la misura e l’oggetto della partecipazione non modifichino sostanzialmente l’oggetto sociale della s.p.a., che esista una delibera assembleare di autorizzazione e che gli amministratori della partecipante diano, nella nota integrativa del bilancio, specifica informazione dell’operazione. Aspetto focale della disposizione è, però, la ragione per la quale il socio illimitatamente responsabile fallisce in estensione. Sul punto, insistono, specularmente alla condivisione o meno della teoria dell’imprenditore occulto, due orientamenti contrastanti. Il primo considera tale soggetto un imprenditore commerciale di cui si presume lo stato di insolvenza. Data la vicinanza sistematica col fallimento dell’imprenditore individuale, allora, ai sensi di questo orientamento, il principio che permea l’articolo 147 non avrebbe carattere di eccezionalità. Il secondo (su tutti, Caridi), invece, ritiene che il socio illimitatamente responsabile fallisca in virtù dell’applicazione di una mera “regola tecnica”, sulla base della quale attivare a scopo di garanzia la possibilità di rivalersi sul patrimonio di tale soggetto, ragion per cui ci troveremmo nell’ambito di una scelta legislativa eccezionale. Notevole argomento a favore di quest’ultima opzione potrebbe essere rappresentato dall’ipotesi dell’estensione del fallimento al socio accomandatario di una società in accomandita per azioni. Infatti, l’articolo 222 della Legge Fallimentare espande la disciplina sui reati “commessi dal fallito” ai soci illimitatamente responsabili della s.n.c. e della s.a.s., ma non anche agli accomandatari della s.a.p.a. Deriva che, mentre i comportamenti penalmente rilevanti dei soci illimitatamente responsabili delle società commerciali di persone sono accomunati a quelli dell’imprenditore individuale fallito, le azioni delittuose degli accomandatari di s.a.p.a., invece, sono assoggettate al regime dei reati commessi da persone diverse dal fallito, ossia rispondono nella veste di amministratori della società. E, allora, quantomeno gli accomandatari di s.a.p.a. sarebbero considerati dal legislatore gestori di un’impresa altrui e giammai imprenditori commerciali. Tuttavia, appare chiaro come il dilemma si possa risolvere pure optando per il primo orientamento. Innanzitutto, si potrebbe ritenere che i soci di s.n.c. e gli accomandatari di s.a.s. sono pur sempre equiparati all’imprenditore individuale ai sensi del medesimo articolo 222. In secondo luogo, si potrebbe revocare nell’eccezionalità, nella logica dell’articolo 147, il solo fallimento per estensione dell’accomandatario di s.a.p.a, non avendo costui quel potere di gestione che compete agli altri soci illimitatamente responsabili considerati. È evidente, allora, lo si ripete, che schierarsi con uno dei due, implica aderire o meno alla costruzione scientifica elaborata da Walter Bigiavi. Se si attribuisce, poi, valore “sacrale” alla definizione dell’ambito tipologico di applicazione del principio in parola, parrebbe certo che l’estensione del fallimento non tocchi il socio unico di società di capitali nei casi in cui la legge lo punisce con la responsabilità illimitata. Di ciò potrebbe dubitarsi qualora si ritenesse che la disposizione del comma 1 dell’articolo 147 sia solo applicazione di un principio più generale e che la limitazione post riforma abbia voluto soltanto riferirsi alle ipotesi fisiologiche di responsabilità illimitata del socio, essendo, nelle società personalistiche, dominio sull’impresa e responsabilità illimitata per le relative obbligazioni direttamente proporzionali, mentre mancando, nelle società capitalistiche, quegli elementi personali di partecipazione che richiamerebbero senz’altro la responsabilità. Tale dubbio, poi, si alimenta quando si considera la questione della fallibilità dell’accomandante di s.a.s. ingeritosi nella gestione o che abbia consentito che il suo nome venisse indicato nella ragione sociale, il quale, rispettivamente, ai sensi del comma 1, seconda parte, dell’articolo 2320 del Codice Civile e del comma 2 dell’articolo 2314, pure risponde illimitatamente per tutte le obbligazioni della società. Coerenza, infatti, suggerirebbe che, escluso il fallimento in estensione del socio unico di società di capitali nelle ipotesi patologiche previste, venga pure esclusa l’applicabilità dell’articolo 147 all’accomandante che abbia violato il divieto di immistione e la regola in tema di ragione sociale. La tesi della fallibilità di quest’ultimo è tradizionalmente sostenuta, da un lato, sul presupposto dell’equiparabilità della sua posizione a quella dell’accomandatario, e, dall’altro, ammettendo l’irrilevanza del carattere legale e non volontario del fondamento della sua responsabilità illimitata.  In merito al comma 1 dell’articolo 147, infine, si pone la questione del se sia possibile estendere il fallimento dell’associazione non riconosciuta anche ai singoli associati, una volta premesso che l’associazione può benissimo acquisire lo status di imprenditore commerciale. Il dubbio, chiaramente, non riguarda tutti i componenti del gruppo associativo, ma solo coloro che, avendo agito in nome e per conto dell’ente, hanno assunto una responsabilità illimitata e personale ai sensi dell’articolo 38 del Codice Civile (essendo prevista, per gli altri associati, una responsabilità nei limiti del fondo comune ai sensi dell’articolo 37). Anche in questo caso, chi ritiene che la disposizione concorsuale non esprima una massima eccezionale applicabile solo nell’ambito delle società menzionate, bensì, in termini più generali, sia un principio del sistema che ben può riguardare ogni forma di esercizio collettivo dell’impresa commerciale, non incappa in ostacoli per risolvere positivamente il dubbio.

Continua a suscitare interesse, poi, il comma 4 (secondo il quale: “Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi”). Ciò in quanto esso rappresenta, pur sempre, la sostanziale riproduzione del vecchio comma 2 dell’articolo 147 sul quale è stata precipuamente sostenuta la teoria dell’imprenditore occulto. L’attuale lettera dell’articolo, allora, continua a prevedere espressamente il fallimento del socio occulto di una società palese. Di questa regola, poi, il comma 5 (secondo il quale: “Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”) ne precisa i confini. Quest’ultimo, novità assoluta nel tenore dell’articolo 147, stabilisce che la medesima regola del comma 4 si applichi quando il fallimento è dichiarato a carico di un imprenditore “apparentemente” individuale e, successivamente, risulti che l’impresa è esercitata da una società occulta, alla quale il fallito partecipi insieme ad altri in qualità di socio illimitatamente responsabile (da non sottovalutare la medesima lunghezza d’onda rispetto all’articolo 24 del Decreto Legislativo n. 270 del 1999 in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi). Dalle due disposizioni emerge, allora, come l’ambito  operativo della regola dell’estensione successiva sia stato notevolmente accresciuto dalla riforma, prevedendo, oggi, per tabulas anche l’ipotesi del fallimento del socio occulto di una società occulta.

4. Un nuovo principio di ordine economico?

Al di là dei sofismi, dei ragionamenti apodittici e delle sostenibili argomentazioni tecnico-giuridiche che sorreggono le posizioni dottrinali e giurisprudenziali critiche nei confronti della dottrina della sovranità, a ben vedere, la comune ragione per cui si respinge la lezione bigiaviana è il suo effetto. Se, da un lato, è vero che, non chiamando a rispondere colui che agisce dietro le quinte, detentore dell’iniziativa dell’attività economica svolta che tenta di sfuggire, però, ai conseguenti rischi, si danneggiano i creditori dell’imprenditore palese, rectius dell’impresa stessa, è ugualmente lecito, dall’altro lato, ritenere che l’opposta soluzione avvantaggerebbe tali creditori oltre i limiti della tutela dell’affidamento, potendo a quel punto giovarsi di un patrimonio, quello dell’imprenditore occulto, sul quale non contarono quando concessero credito al prestanome. Inoltre, l’operazione comporterebbe, del pari, una riduzione delle probabilità di capienza di chi ha fatto credito, per ragioni personali, al titolare dell’interesse, esposto, anche stavolta in contrasto con istanze di tutela dell’affidamento, al concorso coi creditori dell’impresa. Si ritiene (Spada) che questo esito, per potersi giustificare, debba poter contare su di una ragione politica meritevole di consenso, come, ad esempio, il maggior bisogno di tutela del credito alla produzione rispetto al credito al consumo. Tuttavia, per quanto sia certo che l’interposizione nell’esercizio dell’impresa suscita una generale riprovazione, si osserva (Buonocore) che i costi che bisognerebbe sopportare per sanzionarla sono, ad una riflessione scevra di impulsi emotivamente orientati, superiori ai benefici che si ritrarrebbero. Eppure, a tali considerazioni, si potrebbero replicare almeno due obiezioni (Menti). Innanzitutto, pare altrettanto iniquo che i creditori del dominus occulto possano godere dei vantaggi dell’attività segreta di costui senza soffrirne i possibili effetti negativi. Inoltre, il legislatore concorsuale già ha ritenuto corretto avvantaggiare alcuni creditori a detrimento di altri nell’estendere il fallimento della società al socio occulto, ipotesi questa che, almeno sul piano degli effetti, non pare molto lontana da quella che stiamo considerando. Del resto, l’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, come abbiamo visto, enuncia ormai espressamente la fallibilità pure del socio occulto di società occulta ed azzera il primo passaggio analogico della lezione di Bigiavi. Si potrebbe, allora, sul serio ritenere che il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare sia permeato da un principio di ordine pubblico economico, che, come tale, è suscettibile di applicazione in ogni angolo del nostro ordinamento, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa per i soggetti che la gestiscono debba sempre superare quelle barriere formali da altre ragioni giustificate, principio già chiaramente presente nell’opera di Walter Bigiavi, ma che attendeva una solida base di partenza, ossia la norma scritta, finalmente sopraggiunta.

 

Bibliografia

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BERTACCHINI Elisabetta e ALTRI, “Manuale di diritto fallimentare”, prima edizione, Milano, 2007.

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BIGIAVI Walter, “Ancora sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, I.

BIGIAVI Walter, “La giurisprudenza della Cassazione sull’ammissibilità della società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, IV.

BIGIAVI Walter, “Difesa dell’imprenditore occulto”, Padova, 1962.

BUONOCORE Vincenzo, voce “Impresa”, in “Enciclopedia del diritto”, Annali I, Milano, 2007.

CAMPOBASSO Gian Franco, “Diritto commerciale”, volume 1 (Diritto dell’impresa), V edizione (a cura di Campobasso M.), Torino, 2006.

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FERRI Giuseppe, “Manuale di diritto commerciale”, XIII edizione (a cura di Angelici C. e Ferri G.B.), Torino, 2010.

MENTI Paolo, “Fallisce un’altra holding personale: anzi no, è un noto imprenditore occulto” (nota a commento della sentenza Tribunale di Milano, sezione II, n. 276 del 2011), Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2011, 10.

NOTARI Mario, “Diritto delle imprese. Manuale breve”, AA.VV., Milano, 2012.

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PAVONE LA ROSA Antonio, “La teoria dell’imprenditore occulto nell’opera di Walter Bigiavi”, Rivista di diritto civile, 1967, I.

SPADA Paolo, voce “Impresa”, in “Digesto. Discipline privatistiche. Sezione commerciale”, edizione IV, volume VII, Torino, 1992.

SOMMARIO: 1. La c.d. dottrina della sovranità - 2. Gli orientamenti critici - 3. Il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare - 4. Un nuovo principio di ordine economico?

Abstract

Dopo aver descritto la c.d. dottrina della sovranità, monade della teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, l’autore si imbatte in un’esegesi del vigente articolo 147 della Legge Fallimentare. Preso atto che ogni contemperamento di interessi comporta sacrifici mai del tutto giustificabili, ci si interroga sull’esistenza nel nostro ordinamento di un nuovo principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa (rectius per i debiti della stessa) colpisce e deve colpire sempre i soggetti che la gestiscono, superando qualsiasi barriera formale, anche se ispirata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

 

1. La c.d. dottrina della sovranità

Nel mondo degli affari, è possibile imbattersi in situazioni in cui, da un lato, abbiamo un soggetto il cui nome viene utilizzato quando occorre rivestire di formalità le relazioni che l’impresa ha avuto con i terzi e, dall’altro, esiste un soggetto, per così dire formalmente nascosto, che governa l’iniziativa economica, somministra i mezzi finanziari opportuni ed incamera gli utili. Si tratta del fenomeno della gestione indiretta dell’attività di impresa. In questa evenienza, qualora l’esercizio cessasse la produzione di lucro e smettesse, quindi, di essere un buon affare, è ben possibile che il reale gestore (vero soggetto titolare di un patrimonio sufficientemente capiente) sospenda persino l’erogazione dei capitali necessari alla sopravvivenza, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti. Ora, se si considera che solo un imprenditore (privato, commerciale e non piccolo) può fallire e si ritiene,  come fa la dottrina tradizionale, che per poter essere imprenditori è necessario aver formalmente speso il proprio nome nel corso delle operazioni con i terzi interessati (criterio della c.d. spendita del nome), accade che i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del solo prestanome. Peccato solo che, probabilmente, se l’operazione è stata veramente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa,  si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Il rischio di impresa, così, verrebbe traslato su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’oculatezza di farsi garantire personalmente dal reale dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese, con tanto di pregiudizio inaccettabile specie per i creditori più deboli dal punto di vista economico: finanziatori che non potranno tornare in possesso dei fondi erogati, fornitori che non otterranno il corrispettivo delle forniture effettuate, dipendenti dell’impresa che non riceveranno la retribuzione per il proprio lavoro. Attesa, allora, l’insufficienza del criterio della c.d. spendita del nome a risolvere, da solo, situazioni in cui la costante ricerca di un posto comodo nel mondo degli affari può mettere capo a comportamenti socialmente irresponsabili, negli anni ’50 del secolo scorso, Walter Bigiavi, ostentando una notevole sensibilità tanto pratica quanto dogmatica, elaborava la c.d. teoria dell’imprenditore occulto. Fulcro di quest’ultima è l’ideache la nostra legge avrebbe definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Più nello specifico, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: da un lato, la spendita del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e, dall’altro, l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, il quale, si ripete, attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha in fatto gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile suggello della prima. Secondo Bigiavi, tale conclusione sarebbe ampiamente giustificabile alla luce di vari indici normativi, ossia, per un verso, gli articoli 2208, 2267, 2339 ultimo comma e 2615 comma 2 del Codice Civile e, per l’altro, l’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). In particolare, ai sensi del vecchio comma 2 di quest’ultimo (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), qualora dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale dichiara il fallimento dei medesimi. Dunque, fallisce il socio occulto di società palese. Ma, data la specularità con l’ipotesi del socio occulto di società occulta, in virtù dell’analogia legis, anche costui dovrebbe fallire e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Poiché, infine, è giuridicamente irrilevante se chi rimane dietro le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome, sarebbe lecito estendere anche al caso dell’imprenditore occulto il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere l’unico vero dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

2. Gli orientamenti critici

La lezione di Bigiavi, tuttavia, paga lo scotto della propria irruenza.  Nella scienza del diritto commerciale, infatti, accade molto spesso di scontrarsi con non sempre delicati tentativi di confutazione. E se alcuni autori, pur non condividendone i presupposti, mirano a raggiungere i medesimi risultati pratici, con coerenza (la teoria della responsabilità di impresa di Ferri) o qualche bizzarria di fondo (la tecnica dell’impresa fiancheggiatrice), altri ne rigettano gli approdi senza alcuna pietà. Si assiste così ad affermazioni circa la fallacia del ragionamento analogico bigiaviano, od in merito all’inesistenza, nel sistema normativo oggi vigente, di una responsabilità legata all’esercizio di un potere di direzione dell’impresa (insomma, alla fantasia di un criterio economico-sostanziale idoneo ad attribuire la qualifica di imprenditore e la responsabilità per i debiti conseguenti), come si evincerebbe, tra le altre cose, dall’attuale regime della società di capitali unipersonale. Oppure, ancora, si difende un’apodittica tendenza del legislatore nazionale ed europeo non già ad individuare una responsabilità quando si esercitano poteri gestori in un’impresa formalmente altrui, bensì unicamente ad intervenire con la sanzione della responsabilità aquiliana qualora tale gestione in concreto avvenga con modalità ritenute scorrette, ad onta del fatto che spesso la norma si dimentichi di precisare in cosa ciò consista.

3. Il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare

Abbiamo avuto modo di osservare come il dato normativo al centro della teoria dell’imprenditore occulto e della dottrina della sovranità sia l’articolo 147 della Legge Fallimentare. Pare, dunque, opportuno imbarcarci in una concentrata esegesi di alcune sue disposizioni ed osservare se, a seguito della decisa modifica ad opera dell’articolo 131 del Decreto Legislativo 9 Gennaio 2006  n. 5 (è appena il caso di sottolineare che, mentre il Decreto Legislativo 12 Settembre 2007 n. 169 ne ha solo aggiustato il 6° comma, l’articolo ha superato indenne le successive novelle della legge fondamentale sulle procedure concorsuali), sia possibile trarre nuovi sviluppi per la lezione di Bigiavi, ovvero scoprirne il colpo mortale.

Limitando l’attenzione unicamente a quelle modifiche od integrazioni mediante le quali il legislatore ha provato a dirimere le questioni interpretative che, grazie proprio alla teoria dell’imprenditore occulto, avevano affaticato decenni di dottrina e giurisprudenza, rimaniamo colpiti: a) dalla tipizzazione, presente nel comma 1, dell’ambito soggettivo all’interno del quale la regola del fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili, non per forza persone fisiche, è operativa; b) alla previsione, nuovissima, del comma 5 in merito alla c.d. “estensione successiva” (Caridi) del fallimento della società nei confronti del socio occulto di una società occulta.

Cominciamo l’analisi dall’attuale comma 1(il quale recita: “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”). La disposizione determina, nel caso di fallimento di una società in nome collettivo, di una società in accomandita semplice o di una società in accomandita per azioni, l’estensione successiva “automatica” della procedura nei confronti dei soci illimitatamente responsabili delle stesse. L’inciso “pur se non persone fisiche” chiarisce che falliscono per estensione anche le eventuali società, sia di capitali che di persone, socie illimitatamente responsabili dei tre tipi di società a base personalistica summenzionati. Una società per azioni, infatti, può assumere partecipazioni in altre imprese comportanti la responsabilità illimitata per le obbligazioni di quest’ultima purché rispetti le condizioni dettate dall’articolo 2361 del Codice Civile, ossia che la misura e l’oggetto della partecipazione non modifichino sostanzialmente l’oggetto sociale della s.p.a., che esista una delibera assembleare di autorizzazione e che gli amministratori della partecipante diano, nella nota integrativa del bilancio, specifica informazione dell’operazione. Aspetto focale della disposizione è, però, la ragione per la quale il socio illimitatamente responsabile fallisce in estensione. Sul punto, insistono, specularmente alla condivisione o meno della teoria dell’imprenditore occulto, due orientamenti contrastanti. Il primo considera tale soggetto un imprenditore commerciale di cui si presume lo stato di insolvenza. Data la vicinanza sistematica col fallimento dell’imprenditore individuale, allora, ai sensi di questo orientamento, il principio che permea l’articolo 147 non avrebbe carattere di eccezionalità. Il secondo (su tutti, Caridi), invece, ritiene che il socio illimitatamente responsabile fallisca in virtù dell’applicazione di una mera “regola tecnica”, sulla base della quale attivare a scopo di garanzia la possibilità di rivalersi sul patrimonio di tale soggetto, ragion per cui ci troveremmo nell’ambito di una scelta legislativa eccezionale. Notevole argomento a favore di quest’ultima opzione potrebbe essere rappresentato dall’ipotesi dell’estensione del fallimento al socio accomandatario di una società in accomandita per azioni. Infatti, l’articolo 222 della Legge Fallimentare espande la disciplina sui reati “commessi dal fallito” ai soci illimitatamente responsabili della s.n.c. e della s.a.s., ma non anche agli accomandatari della s.a.p.a. Deriva che, mentre i comportamenti penalmente rilevanti dei soci illimitatamente responsabili delle società commerciali di persone sono accomunati a quelli dell’imprenditore individuale fallito, le azioni delittuose degli accomandatari di s.a.p.a., invece, sono assoggettate al regime dei reati commessi da persone diverse dal fallito, ossia rispondono nella veste di amministratori della società. E, allora, quantomeno gli accomandatari di s.a.p.a. sarebbero considerati dal legislatore gestori di un’impresa altrui e giammai imprenditori commerciali. Tuttavia, appare chiaro come il dilemma si possa risolvere pure optando per il primo orientamento. Innanzitutto, si potrebbe ritenere che i soci di s.n.c. e gli accomandatari di s.a.s. sono pur sempre equiparati all’imprenditore individuale ai sensi del medesimo articolo 222. In secondo luogo, si potrebbe revocare nell’eccezionalità, nella logica dell’articolo 147, il solo fallimento per estensione dell’accomandatario di s.a.p.a, non avendo costui quel potere di gestione che compete agli altri soci illimitatamente responsabili considerati. È evidente, allora, lo si ripete, che schierarsi con uno dei due, implica aderire o meno alla costruzione scientifica elaborata da Walter Bigiavi. Se si attribuisce, poi, valore “sacrale” alla definizione dell’ambito tipologico di applicazione del principio in parola, parrebbe certo che l’estensione del fallimento non tocchi il socio unico di società di capitali nei casi in cui la legge lo punisce con la responsabilità illimitata. Di ciò potrebbe dubitarsi qualora si ritenesse che la disposizione del comma 1 dell’articolo 147 sia solo applicazione di un principio più generale e che la limitazione post riforma abbia voluto soltanto riferirsi alle ipotesi fisiologiche di responsabilità illimitata del socio, essendo, nelle società personalistiche, dominio sull’impresa e responsabilità illimitata per le relative obbligazioni direttamente proporzionali, mentre mancando, nelle società capitalistiche, quegli elementi personali di partecipazione che richiamerebbero senz’altro la responsabilità. Tale dubbio, poi, si alimenta quando si considera la questione della fallibilità dell’accomandante di s.a.s. ingeritosi nella gestione o che abbia consentito che il suo nome venisse indicato nella ragione sociale, il quale, rispettivamente, ai sensi del comma 1, seconda parte, dell’articolo 2320 del Codice Civile e del comma 2 dell’articolo 2314, pure risponde illimitatamente per tutte le obbligazioni della società. Coerenza, infatti, suggerirebbe che, escluso il fallimento in estensione del socio unico di società di capitali nelle ipotesi patologiche previste, venga pure esclusa l’applicabilità dell’articolo 147 all’accomandante che abbia violato il divieto di immistione e la regola in tema di ragione sociale. La tesi della fallibilità di quest’ultimo è tradizionalmente sostenuta, da un lato, sul presupposto dell’equiparabilità della sua posizione a quella dell’accomandatario, e, dall’altro, ammettendo l’irrilevanza del carattere legale e non volontario del fondamento della sua responsabilità illimitata.  In merito al comma 1 dell’articolo 147, infine, si pone la questione del se sia possibile estendere il fallimento dell’associazione non riconosciuta anche ai singoli associati, una volta premesso che l’associazione può benissimo acquisire lo status di imprenditore commerciale. Il dubbio, chiaramente, non riguarda tutti i componenti del gruppo associativo, ma solo coloro che, avendo agito in nome e per conto dell’ente, hanno assunto una responsabilità illimitata e personale ai sensi dell’articolo 38 del Codice Civile (essendo prevista, per gli altri associati, una responsabilità nei limiti del fondo comune ai sensi dell’articolo 37). Anche in questo caso, chi ritiene che la disposizione concorsuale non esprima una massima eccezionale applicabile solo nell’ambito delle società menzionate, bensì, in termini più generali, sia un principio del sistema che ben può riguardare ogni forma di esercizio collettivo dell’impresa commerciale, non incappa in ostacoli per risolvere positivamente il dubbio.

Continua a suscitare interesse, poi, il comma 4 (secondo il quale: “Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi”). Ciò in quanto esso rappresenta, pur sempre, la sostanziale riproduzione del vecchio comma 2 dell’articolo 147 sul quale è stata precipuamente sostenuta la teoria dell’imprenditore occulto. L’attuale lettera dell’articolo, allora, continua a prevedere espressamente il fallimento del socio occulto di una società palese. Di questa regola, poi, il comma 5 (secondo il quale: “Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”) ne precisa i confini. Quest’ultimo, novità assoluta nel tenore dell’articolo 147, stabilisce che la medesima regola del comma 4 si applichi quando il fallimento è dichiarato a carico di un imprenditore “apparentemente” individuale e, successivamente, risulti che l’impresa è esercitata da una società occulta, alla quale il fallito partecipi insieme ad altri in qualità di socio illimitatamente responsabile (da non sottovalutare la medesima lunghezza d’onda rispetto all’articolo 24 del Decreto Legislativo n. 270 del 1999 in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi). Dalle due disposizioni emerge, allora, come l’ambito  operativo della regola dell’estensione successiva sia stato notevolmente accresciuto dalla riforma, prevedendo, oggi, per tabulas anche l’ipotesi del fallimento del socio occulto di una società occulta.

4. Un nuovo principio di ordine economico?

Al di là dei sofismi, dei ragionamenti apodittici e delle sostenibili argomentazioni tecnico-giuridiche che sorreggono le posizioni dottrinali e giurisprudenziali critiche nei confronti della dottrina della sovranità, a ben vedere, la comune ragione per cui si respinge la lezione bigiaviana è il suo effetto. Se, da un lato, è vero che, non chiamando a rispondere colui che agisce dietro le quinte, detentore dell’iniziativa dell’attività economica svolta che tenta di sfuggire, però, ai conseguenti rischi, si danneggiano i creditori dell’imprenditore palese, rectius dell’impresa stessa, è ugualmente lecito, dall’altro lato, ritenere che l’opposta soluzione avvantaggerebbe tali creditori oltre i limiti della tutela dell’affidamento, potendo a quel punto giovarsi di un patrimonio, quello dell’imprenditore occulto, sul quale non contarono quando concessero credito al prestanome. Inoltre, l’operazione comporterebbe, del pari, una riduzione delle probabilità di capienza di chi ha fatto credito, per ragioni personali, al titolare dell’interesse, esposto, anche stavolta in contrasto con istanze di tutela dell’affidamento, al concorso coi creditori dell’impresa. Si ritiene (Spada) che questo esito, per potersi giustificare, debba poter contare su di una ragione politica meritevole di consenso, come, ad esempio, il maggior bisogno di tutela del credito alla produzione rispetto al credito al consumo. Tuttavia, per quanto sia certo che l’interposizione nell’esercizio dell’impresa suscita una generale riprovazione, si osserva (Buonocore) che i costi che bisognerebbe sopportare per sanzionarla sono, ad una riflessione scevra di impulsi emotivamente orientati, superiori ai benefici che si ritrarrebbero. Eppure, a tali considerazioni, si potrebbero replicare almeno due obiezioni (Menti). Innanzitutto, pare altrettanto iniquo che i creditori del dominus occulto possano godere dei vantaggi dell’attività segreta di costui senza soffrirne i possibili effetti negativi. Inoltre, il legislatore concorsuale già ha ritenuto corretto avvantaggiare alcuni creditori a detrimento di altri nell’estendere il fallimento della società al socio occulto, ipotesi questa che, almeno sul piano degli effetti, non pare molto lontana da quella che stiamo considerando. Del resto, l’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, come abbiamo visto, enuncia ormai espressamente la fallibilità pure del socio occulto di società occulta ed azzera il primo passaggio analogico della lezione di Bigiavi. Si potrebbe, allora, sul serio ritenere che il nuovo articolo 147 della Legge Fallimentare sia permeato da un principio di ordine pubblico economico, che, come tale, è suscettibile di applicazione in ogni angolo del nostro ordinamento, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa per i soggetti che la gestiscono debba sempre superare quelle barriere formali da altre ragioni giustificate, principio già chiaramente presente nell’opera di Walter Bigiavi, ma che attendeva una solida base di partenza, ossia la norma scritta, finalmente sopraggiunta.

 

Bibliografia

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