L’imprenditore occulto nella giurisprudenza e il fallimento della holding in estensione

L’imprenditore occulto nella giurisprudenza e il fallimento della holding in estensione
L’imprenditore occulto nella giurisprudenza e il fallimento della holding in estensione

ABSTRACT

L’autore espone gli ultimi approdi della giurisprudenza sulla fallibilità dell’imprenditore occulto, in seguito alla modifica dell’articolo 147 della Legge Fallimentare. Ci si interroga poi, sulla possibilità che anche la holding possa fallire in estensione nel caso di decozione dell’impresa eterodiretta in virtù di un nuovo principio di ordine pubblico economico presente nel nostro ordinamento, secondo il quale chi gestisce l’impresa è sempre responsabile dei suoi debiti, a prescindere da qualsiasi barriera formale, anche se giustificata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

SOMMARIO: 1. Premessa - 2. L’imprenditore occulto nella giurisprudenza - 3. L’estensione dell’insolvenza alla holding personale - 4. L’orientamento “Caltagirone” - 5. Qualche giudice di merito “coraggioso”

1. Premessa

Nel tentativo di porre rimedio alle conseguenze potenzialmente esiziali dell’esercizio indiretto dell’attività di impresa, id est il caso in cui si ravvisa una dissociazione, nel compimento degli atti pertinenti alla stessa, tra il soggetto che li compie in proprio nome e quello che impartisce le direttive, fornisce i capitali occorrenti ed incamera i profitti senza, tuttavia, palesarsi ai terzi, negli anni ’50 del secolo scorso veniva elaborata la c.d. teoria dell’imprenditore occulto, vero punctum pruriens della dottrina commercialistica italiana. Può accadere, infatti, che qualora l’esercizio cessi di essere lucrativo e smetta, quindi, di essere un buon affare, il reale gestore (forse unico soggetto titolare di un patrimonio sufficientemente capiente) sospenda persino l’erogazione dei capitali necessari alla sopravvivenza, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti. Ora, dando rilevanza unicamente al criterio della c.d. spendita del nome ai fini dell’acquisto della qualità di imprenditore e quindi dell’applicazione del conseguente regime responsabilizzante in materia di debiti, i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del solo prestanome. Peccato solo che, se l’operazione, come spesso accade, è stata precipuamente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa, si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Inaccettabile è, allora, il pregiudizio che ne deriva, specie per i creditori più deboli dal punto di vista economico. Secondo la teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, invece, la nostra legge ha definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto, in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha in fatto gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile suggello della prima. Il principale sostegno normativo su cui si basa questa conclusione è rappresentato dall’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare), come modificato dal Decreto Legislativo 9 Gennaio 2006  n. 5 e dal Decreto Legislativo 12 Settembre 2007 n. 169, il cui comma 5 ha espressamente previsto che, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, il tribunale ne dichiara il fallimento. La previsione espressa del fallimento del socio occulto di società occulta e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa, ha sicuramente reso più agevole il ragionamento analogico che porta all’esito dell’assoggettabilità a fallimento (anche) del reale dominus occulto nei casi in cui manchi col soggetto prestanome qualsiasi legame di natura societaria, anche nascosto o di fatto, ossia nell’ipotesi “classica” dell’imprenditore individuale occulto. Ed in ciò è ravvisabile una piccola “rivoluzione”, soprattutto in giurisprudenza.

2. L’imprenditore occulto nella giurisprudenza

Davvero lontani (ed il riferimento non è certo all’ovvia distanza cronologica), insomma, sono i tempi in cui Walter Bigiavi doveva scontrarsi con bizzarre decisioni dei giudici di merito, come la sentenza del 18 Marzo 1957 del Tribunale di Bologna in cui il collegio giudicante si appiglia all’astruso marchingegno dell’impresa “fiancheggiatrice” onde sostenere l’illimitata responsabilità del gestore occulto di un’impresa insolvente. Oggi le cose sono cambiate, soprattutto grazie alla riforma dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, e l’orientamento maggioritario  in giurisprudenza (tra le tante, vedi la recente sentenza della III Sezione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere pronunciata il 15 Gennaio 2015) sostiene la fallibilità dell’imprenditore occulto proprio grazie al suo comma 5. Quest’ultimo, infatti, con la locuzione “impresa riferibile” esprime un concetto di legame dell’attività d’impresa del soggetto palese dichiarato fallito alla società-imprenditore collettivo occulto, e che può, a fortiori, riguardare un imprenditore individuale occulto. Forse unica nota dolenteè l’individuazione dei criteri mediante i quali stabilire se si è in presenza di un dominus occulto oppure no. Sul punto, la citata sentenza del Tribunale di S.M.C.V. ritiene che debbano sussistere in concreto i due elementi caratteristici della titolarità d’impresa, ossia il dominio del potere gestorio e la responsabilità patrimoniale. Nel dettaglio, sotto il primo profilo, è necessario che sussista il potere di indirizzare in modo incondizionato l’attività imprenditoriale e, qualora sia stato creato lo schermo societario, si deve osservare se la società, pur esistendo, non operi in favore di più soci bensì di una sola persona, funzionando, nei rapporti con i terzi, come prestanome o come “uomo di paglia” di costui (cioè che detto ente funga da vera e propria c.d. società di comodo o etichetta). Sotto il secondo profilo, invece, è necessario che il potere di gestione imprenditoriale produca in modo definitivo i suoi effetti, in termini di profitti e perdite, nel patrimonio del gestore occulto; accertamento che può nutrirsi di alcuni indici sintomatici come finanziamenti infruttiferi e prestazioni di garanzie con rinuncia al diritto di regresso. Ancora sugli indici sintomatici dell’esistenza di un legame occulto col soggetto che spende il proprio nome nel mondo degli affari, sia che si tratti di un mero prestanome o di un reale socio palese, fondamentali sono gli arresti della Cassazione nelle sentenze del 14 Febbraio 2007 n. 3271 e del 16 Marzo 2007 n. 6299. Secondo la Suprema Corte, al fine della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore occulto o del socio illimitatamente responsabile palese o nascosto, ai sensi dell’articolo 147 della Legge Fallimentare , le fideiussioni ed i finanziamenti in favore dell’impresa devono rappresentare, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, una costante opera di sostegno dell’attività economica, tale da lasciare inferire quantomeno un’effettiva collaborazione (nel caso di socio occulto di società palese o di società occulta tout court) al raggiungimento degli scopi sociali. Si precisa, inoltre, che la sistematicità de qua non deve essere intesa in senso meramente quantitativo, potendo pochi interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie costituire un idoneo indice rivelatore del rapporto gestorio o collaborativo in presenza di altre circostanze, come ad esempio il fatto che siano stati effettuati in momenti decisivi per lo sviluppo dell’impresa o per evitarne la crisi, oppure presentino le caratteristiche della spontaneità, decisività ed infungibilità ai fini dell’accesso al credito da parte dell’impresa sovvenuta (sentenza della Cassazione, I Sezione del 9 Maggio 2008 nr. 11562).

3. L’estensione dell’insolvenza alla holding personale

Se non pare sia più revocabile in dubbio, nemmeno in giurisprudenza, l’assoggettabilità al fallimento dell’imprenditore occulto in caso di insolvenza dell’impresa indirettamente gestita, problematica appare, invece, l’applicazione del principio ricavabile dai commi 4 e 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare alla holding che dirige la società o l’impresa individuale caduta in stato di decozione. Nei tribunali, invero, talvolta si sostiene apoditticamente, come fa il collegio sammaritano sopra citato, che l’attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese, oggi regolata dal Capo IX del Titolo V del Libro V del Codice Civile, sia cosa ben diversa dalla gestione dell’impresa che sottende le disposizioni dell’articolo 147 della Legge Fallimentare e che, dunque, non porterebbe mai al fallimento, neppure , qualora venisse esercitata scorrettamente e provocasse la responsabilità di cui è parola nell’articolo 2497. Più spesso, invece, semplicemente si continuano a sposare gli approdi della storica sentenza della Cassazione, Sezione I, del 26 Febbraio 1990 n. 1439 resa nel noto caso Caltagirone.

4. L’orientamento “Caltagirone”

Si parte dall’idea che anche la holding pura (ossia la holding che, a differenza di quella operativa, la quale coordina le imprese controllate attraverso l’ulteriore esercizio di funzioni economiche, finanziarie ed ausiliarie, esplica unicamente l’attività di direzione e coordinamento mediante il dominio od il possesso di partecipazioni di controllo e l’esercizio dei poteri ad esse inerenti), sebbene non svolga direttamente alcuna attività rivolta immediatamente alla produzione o allo scambio di beni o di servizi, sia impresa.  Ciò perché una data attività di produzione o di scambio di beni o di servizi può integrare l’oggetto di un’attività di impresa sia come oggetto immediato, sia come oggetto mediato (accogliendo, così, la prorompente costruzione di Francesco Galgano). In tal modo, l’imprenditorialità della holding pura deriverebbe dalla specifica attività di produzione o di scambio che forma oggetto delle imprese sottoposte ed il cui esercizio, mediante il controllo, è attuabile dalla capogruppo stessa.  Secondo la Suprema Corte, però, l’holding pura, per essere impresa, deve rispettare quattro requisiti ulteriori all’esercizio mediato dell’attività di produzione o di scambio e cioè: a) deve sussistere un’apposita organizzazione operativa; b) l’holding deve agire con continuità professionale, da valutare in termini oggettivi, come potenzialità di durata; c) il soggetto capogruppo deve spendere il proprio nome negli atti, soprattutto negoziali, mediante i quali si esplica la direzione del gruppo; d) l’attività di direzione e coordinamento deve avere l’attitudine a produrre in capo al gruppo, nel suo insieme e nelle sue componenti, vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell’opera di coordinamento. A destare interesse è, soprattutto, il requisito della spendita del nome. Con esso, infatti, i giudici di Piazza Cavour rigettano un potenziale sviluppo del bigiaviano criterio economico-sostanziale rappresentato dalla c.d. dottrina della sovranità. Non si deve ragionare molto, del resto, per individuarne le criticità. Se, infatti, allo scopo, si richiede il compimento di veri e propri atti negoziali da parte della capogruppo, il ragionamento della Corte appare rigido, macchinoso e puramente teorico, giacché sarebbe particolarmente facile, da parte dei soggetti che dirigono le imprese sottoposte, eludere qualsiasi regime responsabilizzante, semplicemente lasciando che solo i soggetti economici operativi spendano il nome nel mondo degli affari. Ma il punto che più ci interessa è l’affermazione che ciascuna impresa, sia essa la controllata, sia essa la controllante, assume la responsabilità patrimoniale unicamente in relazione alle obbligazioni effettivamente e direttamente assunte ed alle attività negoziali direttamente ed in proprio nome espletate. Insomma, secondo lo schema del caso Caltagirone, il comportamento della holding è imprenditoriale in virtù della mediazione dei comportamenti, certamente imprenditoriali, delle operating, ma alla holding non si imputa nessuna delle conseguenze del comportamento imprenditoriale delle stesse. Corollario di tale impostazione è che l’appartenenza di un soggetto economico ad un gruppo di imprese non influisce sulle modalità di accertamento del presupposto oggettivo del fallimento del primo, dovendo la verifica della sussistenza dello stato di insolvenza essere svolta con esclusivo riferimento alla singola impresa.

Le conclusioni della c.d. sentenza Caltagirone sono, poi, riprese dalla I Sezione della Cassazione nella sentenza del 18 Novembre 2010 n. 23344. Si afferma che, al fine della dichiarazione di fallimento di una società, l’accertamento dello stato di insolvenza dev’essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, pure nel caso in cui essa sia inserita in un gruppo, giacché, nonostante la politica economica unitaria, ciascuna delle imprese del gruppo conserva una distinta personalità giuridica ed è autonomamente qualificabile come imprenditore, rispondendo, allora, con il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti. Si ritiene, invero, che il gruppo economico non sia un ente autonomo, che l’eventuale situazione di crisi di una o più imprese dello stesso non implichi, necessariamente, un riflesso automaticamente negativo anche sugli altri componenti, holding compresa, e che, pure in questo caso, l’indagine sullo stato di insolvenza di un soggetto economico debba essere obbiettiva, non essendo corretto prescindere dalla valutazione dei presupposti soggettivi ed oggettivi della dichiarazione di fallimento in capo all’impresa interessata. Non potrebbe, quindi, estendersi in modo automatico lo stato di decozione dell’impresa sottoposta alla holding, senza un’indagine specifica sulla situazione patrimoniale di quest’ultima. A fornire un solido appoggio a tale impostazione, è, certamente, l’idea, tratta appunto dalla sentenza 1439/1990, che la holding, onde costituire un’impresa commerciale suscettibile di fallimento, debba agire nel proprio nome per il perseguimento di un risultato economico aggiuntivo per il gruppo. Se così è, infatti, la holding potrà essere chiamata a rispondere, con l’intero suo patrimonio, ai sensi dell’articolo 2740 del Codice Civile, soltanto delle obbligazioni che ha direttamente contratto spendendo il proprio nome, non anche di quelle assunte dalle e in nome delle imprese dirette e coordinate. È questa una soluzione che rispetta l’autonomia patrimoniale e la distinta soggettività giuridica delle singole componenti del gruppo di imprese, pure nelle ipotesi di esercizio scorretto dell’attività di direzione unitaria. A ciò consegue che i creditori che possono battersi per il fallimento della holding insolvente, onde poi insinuarsi nel rispettivo passivo, sono soltanto quelli che hanno avuto la fortuna di contrattare direttamente con l’impresa capogruppo, non, invece, coloro che hanno intrattenuto rapporti creditizi unicamente con i soggetti economici sottoposti, salvo un esito positivo dell’eventuale azione risarcitoria esercitata ai sensi dell’articolo 2497 del Codice Civile. Il singolo creditore, allora, anche in presenza di un’insolvenza diffusa, può aspirare, secondo questo schema, all’ammissione allo stato passivo di una sola delle masse patrimoniali del gruppo. Tenendo presente che, restando distinti, nonostante l’unico dissesto, i patrimoni su cui soddisfarsi, vi saranno fallimenti capienti e non, la tutela del credito risulta subordinata alla occasionalità della collocazione, con tanto di pregiudizio alla par condicio creditorum (Prestipino).

5. Qualche giudice di merito “coraggioso”

Talvolta, però, si incontrano giudici (di merito), per così dire, innovativi. Supera, infatti, l’idea che la capogruppo non possa fallire in estensione la sentenza del 12 Ottobre 2012 n. 164 del Tribunale di Venezia. Di fronte al fallimento di tre società, i giudici ravvisano l’esistenza di una società occulta-holding, coinvolgente tre soci-amministratori, responsabile di un esercizio abusivo dell’attività di eterodirezione dei tre enti falliti e dichiara il fallimento della medesima capogruppo occulta, estendendolo ai suoi soci occulti illimitatamente responsabili, ai sensi dell’articolo 147, commi 4 e 5, della Legga Fallimentare. Nonostante l’affermazione che l’aver scorrettamente condotto l’attività di direzione e coordinamento delle imprese figlie possa portare all’estensione della procedura concorsuale abbattutasi su queste ultime, secondo il Tribunale il fallimento della holding, però, può essere dichiarato soltanto qualora il soggetto capogruppo presenti i requisiti indicati dalla Cassazione nel caso Caltagirone, ossia un esercizio del potere di eterodirezione professionale, organizzato, economico ed accompagnato dalla spendita del proprio nome nella conclusione degli atti ad esso relativi.

Del medesimo ordine di idee è la sentenza della Corte di Appello di Ancona del 5 Marzo 2010, Presidente dott. Formiconi, Estensore dott. Vadalà. Anzi, se nella sentenza n. 164/2012 del Tribunale di Venezia il requisito della spendita del nome, al fine di attribuire la qualità di imprenditore alla holding, è pur sempre mantenuto nella forma, la Corte di Appello di Ancona afferma che la spendita formale del nome può essere utilmente sopperita da un comportamento esterno, nei confronti dei fornitori, degli istituti di credito e di quelli previdenziali, dei creditori e, in generale, dei terzi, che testimoni un esercizio di fatto del potere di gestione, direzione e coordinamento di tutte le attività del gruppo. Nel caso di specie, il signor V., amministratore o socio, diretto o per interposta persona, di tutte le società, aveva omesso di corrispondere gli oneri fiscali e contributivi delle stesse, sì da condurre al fallimento le imprese cui detti oneri si riferivano. Si tratterebbe, allora, anche in questo caso di uno scorretto esercizio del potere di eterodirezione ai sensi dell’articolo 2497  del Codice Civile (per quanto sia molto dibattuta, in dottrina, la possibilità di applicare le regole del Capo IX del Titolo V del Libro V del Codice Civile anche all’holder-persona fisica). Circostanza, questa, che determina una responsabilità del soggetto capogruppo non solo per le obbligazioni contratte spendendo il proprio nome, bensì anche di quelle assunte dalle e in nome delle società dirette e coordinate, se del caso, rispondendo pure dell’insolvenza di una singola impresa sottoposta. La holding, insomma, risponde sia delle obbligazioni derivanti dall’aver concluso contratti spendendo il proprio nome, sia delle obbligazioni risarcitorie che derivano da uno scorretto esercizio del potere di eterodirezione, ossia quando l’attività di indirizzo e coordinamento è esercitata in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale e cagioni un pregiudizio all’integrità patrimoniale della società sottoposta, tale da rendere il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori. Di conseguenza, i creditori che possono insinuarsi al passivo della holding sono, oltre a coloro che hanno stipulato atti negoziali nei quali il capogruppo ha speso il proprio nome, anche i creditori delle società sottoposte che abbiano subito un danno a causa dell’insufficienza del patrimonio della propria debitrice, sempre che tale incapienza, e la successiva insolvenza, sia un effetto della scorretta attività eterodirettiva esercitata.

Nella sentenza della Sezione II del Tribunale di Milano dell’11 Aprile 2011, n. 276, si va, poi, pure oltre. Per crisi di liquidità, una società a responsabilità limitata viene ammessa al concordato preventivo, ma non evita il fallimento perché le risorse promesse dal suo amministratore, L. M., non sopraggiungono. Circostanza, questa, dalla quale è parso ragionevole evincere che lo stesso signor M. si trova, a sua volta, in crisi di liquidità. Inoltre, egli è già debitore per notevoli importi nei confronti della fallita. L. M. ha sempre diretto in prima persona non solo la fallita, di cui rappresenta un legittimo amministratore, ma anche altre sei società. In queste sei, il signor M. non compare formalmente, eppure ne determina l’indirizzo e ne gestisce i conti, anche per interesse personale. Il Tribunale, allora, sostiene che il signor M. domini un’unica impresa commerciale, per quanto articolata essa sia. Si tratta di un soggetto che o esercita in proprio l’attività commerciale avvalendosi anche delle società da lui costituite e, di diritto o di fatto, gestite, o ne diventa capogruppo abusivo, rispondendone ai sensi dell’articolo 2497 del Codice Civile. Tuttavia, il rigido apparato costruito dalla Suprema Corte a partire dalla sentenza Caltagirone inibisce il meccanismo di fallibilità della holding proprio nel caso del più temibile abuso, ossia quando la persona fisica dominante agisce senza il rispetto dell’autonomia patrimoniale e personale delle società del gruppo ed esercita i poteri gestori o di controllo delle stesse come se si trattasse di cosa propria. Qui, infatti, l’holder malintenzionato, da un lato, evita di contrarre obbligazioni in proprio nome e, dall’altro, non necessita l’ausilio di un apposito apparato organizzativo. È proprio quanto accade nel caso di L. M., il quale si è ben guardato dal mettere firme e dal costruire una propria azienda, avvalendosi, appunto, di quelle delle società eterodirette. Il Collegio giudicante, allora, decide di percorrere un altro e diverso itinerario. A ben vedere, l’holding è nulla di diverso dall’imprenditore occulto ed è onerata delle obbligazioni del gruppo in quanto la responsabilità consegue non tanto alla spendita formale del nome, quanto al potere di iniziativa, essendo l’inevitabile prezzo di quest’ultimo. Afferma la sentenza che quando una persona fisica opera per il tramite di società delle quali dispone come di cosa propria, anche senza esserne socio, né amministratore, allo scopo di esercitare un’attività commerciale riferibile, in fatto, a sé, ma formalmente imputata alle società stesse mediante stabile ed esclusiva spendita del loro nome, essa va qualificata come un imprenditore individuale fallibile. Il signor L. M. fallisce non perché è un’holding personale autonomamente insolvente, bensì perché è un imprenditore indiretto, occulto.  Fallisce perché è possibile sostenere che il nuovo articolo 147 (soprattutto il suo comma 5) della Legge Fallimentare sia permeato da un principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa per i soggetti che la gestiscono debba sempre superare quelle barriere formali da altre ragioni giustificate. Un principio già chiaramente presente nell’opera di Walter Bigiavi, ma che attendeva una solida base di partenza, vale a dire la norma scritta, finalmente sopraggiunta.

 

Bibliografia

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ABSTRACT

L’autore espone gli ultimi approdi della giurisprudenza sulla fallibilità dell’imprenditore occulto, in seguito alla modifica dell’articolo 147 della Legge Fallimentare. Ci si interroga poi, sulla possibilità che anche la holding possa fallire in estensione nel caso di decozione dell’impresa eterodiretta in virtù di un nuovo principio di ordine pubblico economico presente nel nostro ordinamento, secondo il quale chi gestisce l’impresa è sempre responsabile dei suoi debiti, a prescindere da qualsiasi barriera formale, anche se giustificata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

SOMMARIO: 1. Premessa - 2. L’imprenditore occulto nella giurisprudenza - 3. L’estensione dell’insolvenza alla holding personale - 4. L’orientamento “Caltagirone” - 5. Qualche giudice di merito “coraggioso”

1. Premessa

Nel tentativo di porre rimedio alle conseguenze potenzialmente esiziali dell’esercizio indiretto dell’attività di impresa, id est il caso in cui si ravvisa una dissociazione, nel compimento degli atti pertinenti alla stessa, tra il soggetto che li compie in proprio nome e quello che impartisce le direttive, fornisce i capitali occorrenti ed incamera i profitti senza, tuttavia, palesarsi ai terzi, negli anni ’50 del secolo scorso veniva elaborata la c.d. teoria dell’imprenditore occulto, vero punctum pruriens della dottrina commercialistica italiana. Può accadere, infatti, che qualora l’esercizio cessi di essere lucrativo e smetta, quindi, di essere un buon affare, il reale gestore (forse unico soggetto titolare di un patrimonio sufficientemente capiente) sospenda persino l’erogazione dei capitali necessari alla sopravvivenza, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti. Ora, dando rilevanza unicamente al criterio della c.d. spendita del nome ai fini dell’acquisto della qualità di imprenditore e quindi dell’applicazione del conseguente regime responsabilizzante in materia di debiti, i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del solo prestanome. Peccato solo che, se l’operazione, come spesso accade, è stata precipuamente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa, si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Inaccettabile è, allora, il pregiudizio che ne deriva, specie per i creditori più deboli dal punto di vista economico. Secondo la teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, invece, la nostra legge ha definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. Così, qualora l’attività gestoria, in concreto, non sia svolta dal soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto, in virtù di due diversi criteri giuridici. Attraverso il criterio economico-sostanziale della c.d. dottrina della sovranità, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che l’ha in fatto gestita, compresa l’eventuale estensione al dominus occulto della procedura fallimentare, ineluttabile suggello della prima. Il principale sostegno normativo su cui si basa questa conclusione è rappresentato dall’articolo 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare), come modificato dal Decreto Legislativo 9 Gennaio 2006  n. 5 e dal Decreto Legislativo 12 Settembre 2007 n. 169, il cui comma 5 ha espressamente previsto che, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, il tribunale ne dichiara il fallimento. La previsione espressa del fallimento del socio occulto di società occulta e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa, ha sicuramente reso più agevole il ragionamento analogico che porta all’esito dell’assoggettabilità a fallimento (anche) del reale dominus occulto nei casi in cui manchi col soggetto prestanome qualsiasi legame di natura societaria, anche nascosto o di fatto, ossia nell’ipotesi “classica” dell’imprenditore individuale occulto. Ed in ciò è ravvisabile una piccola “rivoluzione”, soprattutto in giurisprudenza.

2. L’imprenditore occulto nella giurisprudenza

Davvero lontani (ed il riferimento non è certo all’ovvia distanza cronologica), insomma, sono i tempi in cui Walter Bigiavi doveva scontrarsi con bizzarre decisioni dei giudici di merito, come la sentenza del 18 Marzo 1957 del Tribunale di Bologna in cui il collegio giudicante si appiglia all’astruso marchingegno dell’impresa “fiancheggiatrice” onde sostenere l’illimitata responsabilità del gestore occulto di un’impresa insolvente. Oggi le cose sono cambiate, soprattutto grazie alla riforma dell’articolo 147 della Legge Fallimentare, e l’orientamento maggioritario  in giurisprudenza (tra le tante, vedi la recente sentenza della III Sezione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere pronunciata il 15 Gennaio 2015) sostiene la fallibilità dell’imprenditore occulto proprio grazie al suo comma 5. Quest’ultimo, infatti, con la locuzione “impresa riferibile” esprime un concetto di legame dell’attività d’impresa del soggetto palese dichiarato fallito alla società-imprenditore collettivo occulto, e che può, a fortiori, riguardare un imprenditore individuale occulto. Forse unica nota dolenteè l’individuazione dei criteri mediante i quali stabilire se si è in presenza di un dominus occulto oppure no. Sul punto, la citata sentenza del Tribunale di S.M.C.V. ritiene che debbano sussistere in concreto i due elementi caratteristici della titolarità d’impresa, ossia il dominio del potere gestorio e la responsabilità patrimoniale. Nel dettaglio, sotto il primo profilo, è necessario che sussista il potere di indirizzare in modo incondizionato l’attività imprenditoriale e, qualora sia stato creato lo schermo societario, si deve osservare se la società, pur esistendo, non operi in favore di più soci bensì di una sola persona, funzionando, nei rapporti con i terzi, come prestanome o come “uomo di paglia” di costui (cioè che detto ente funga da vera e propria c.d. società di comodo o etichetta). Sotto il secondo profilo, invece, è necessario che il potere di gestione imprenditoriale produca in modo definitivo i suoi effetti, in termini di profitti e perdite, nel patrimonio del gestore occulto; accertamento che può nutrirsi di alcuni indici sintomatici come finanziamenti infruttiferi e prestazioni di garanzie con rinuncia al diritto di regresso. Ancora sugli indici sintomatici dell’esistenza di un legame occulto col soggetto che spende il proprio nome nel mondo degli affari, sia che si tratti di un mero prestanome o di un reale socio palese, fondamentali sono gli arresti della Cassazione nelle sentenze del 14 Febbraio 2007 n. 3271 e del 16 Marzo 2007 n. 6299. Secondo la Suprema Corte, al fine della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore occulto o del socio illimitatamente responsabile palese o nascosto, ai sensi dell’articolo 147 della Legge Fallimentare , le fideiussioni ed i finanziamenti in favore dell’impresa devono rappresentare, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, una costante opera di sostegno dell’attività economica, tale da lasciare inferire quantomeno un’effettiva collaborazione (nel caso di socio occulto di società palese o di società occulta tout court) al raggiungimento degli scopi sociali. Si precisa, inoltre, che la sistematicità de qua non deve essere intesa in senso meramente quantitativo, potendo pochi interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie costituire un idoneo indice rivelatore del rapporto gestorio o collaborativo in presenza di altre circostanze, come ad esempio il fatto che siano stati effettuati in momenti decisivi per lo sviluppo dell’impresa o per evitarne la crisi, oppure presentino le caratteristiche della spontaneità, decisività ed infungibilità ai fini dell’accesso al credito da parte dell’impresa sovvenuta (sentenza della Cassazione, I Sezione del 9 Maggio 2008 nr. 11562).

3. L’estensione dell’insolvenza alla holding personale

Se non pare sia più revocabile in dubbio, nemmeno in giurisprudenza, l’assoggettabilità al fallimento dell’imprenditore occulto in caso di insolvenza dell’impresa indirettamente gestita, problematica appare, invece, l’applicazione del principio ricavabile dai commi 4 e 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare alla holding che dirige la società o l’impresa individuale caduta in stato di decozione. Nei tribunali, invero, talvolta si sostiene apoditticamente, come fa il collegio sammaritano sopra citato, che l’attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese, oggi regolata dal Capo IX del Titolo V del Libro V del Codice Civile, sia cosa ben diversa dalla gestione dell’impresa che sottende le disposizioni dell’articolo 147 della Legge Fallimentare e che, dunque, non porterebbe mai al fallimento, neppure , qualora venisse esercitata scorrettamente e provocasse la responsabilità di cui è parola nell’articolo 2497. Più spesso, invece, semplicemente si continuano a sposare gli approdi della storica sentenza della Cassazione, Sezione I, del 26 Febbraio 1990 n. 1439 resa nel noto caso Caltagirone.

4. L’orientamento “Caltagirone”

Si parte dall’idea che anche la holding pura (ossia la holding che, a differenza di quella operativa, la quale coordina le imprese controllate attraverso l’ulteriore esercizio di funzioni economiche, finanziarie ed ausiliarie, esplica unicamente l’attività di direzione e coordinamento mediante il dominio od il possesso di partecipazioni di controllo e l’esercizio dei poteri ad esse inerenti), sebbene non svolga direttamente alcuna attività rivolta immediatamente alla produzione o allo scambio di beni o di servizi, sia impresa.  Ciò perché una data attività di produzione o di scambio di beni o di servizi può integrare l’oggetto di un’attività di impresa sia come oggetto immediato, sia come oggetto mediato (accogliendo, così, la prorompente costruzione di Francesco Galgano). In tal modo, l’imprenditorialità della holding pura deriverebbe dalla specifica attività di produzione o di scambio che forma oggetto delle imprese sottoposte ed il cui esercizio, mediante il controllo, è attuabile dalla capogruppo stessa.  Secondo la Suprema Corte, però, l’holding pura, per essere impresa, deve rispettare quattro requisiti ulteriori all’esercizio mediato dell’attività di produzione o di scambio e cioè: a) deve sussistere un’apposita organizzazione operativa; b) l’holding deve agire con continuità professionale, da valutare in termini oggettivi, come potenzialità di durata; c) il soggetto capogruppo deve spendere il proprio nome negli atti, soprattutto negoziali, mediante i quali si esplica la direzione del gruppo; d) l’attività di direzione e coordinamento deve avere l’attitudine a produrre in capo al gruppo, nel suo insieme e nelle sue componenti, vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell’opera di coordinamento. A destare interesse è, soprattutto, il requisito della spendita del nome. Con esso, infatti, i giudici di Piazza Cavour rigettano un potenziale sviluppo del bigiaviano criterio economico-sostanziale rappresentato dalla c.d. dottrina della sovranità. Non si deve ragionare molto, del resto, per individuarne le criticità. Se, infatti, allo scopo, si richiede il compimento di veri e propri atti negoziali da parte della capogruppo, il ragionamento della Corte appare rigido, macchinoso e puramente teorico, giacché sarebbe particolarmente facile, da parte dei soggetti che dirigono le imprese sottoposte, eludere qualsiasi regime responsabilizzante, semplicemente lasciando che solo i soggetti economici operativi spendano il nome nel mondo degli affari. Ma il punto che più ci interessa è l’affermazione che ciascuna impresa, sia essa la controllata, sia essa la controllante, assume la responsabilità patrimoniale unicamente in relazione alle obbligazioni effettivamente e direttamente assunte ed alle attività negoziali direttamente ed in proprio nome espletate. Insomma, secondo lo schema del caso Caltagirone, il comportamento della holding è imprenditoriale in virtù della mediazione dei comportamenti, certamente imprenditoriali, delle operating, ma alla holding non si imputa nessuna delle conseguenze del comportamento imprenditoriale delle stesse. Corollario di tale impostazione è che l’appartenenza di un soggetto economico ad un gruppo di imprese non influisce sulle modalità di accertamento del presupposto oggettivo del fallimento del primo, dovendo la verifica della sussistenza dello stato di insolvenza essere svolta con esclusivo riferimento alla singola impresa.

Le conclusioni della c.d. sentenza Caltagirone sono, poi, riprese dalla I Sezione della Cassazione nella sentenza del 18 Novembre 2010 n. 23344. Si afferma che, al fine della dichiarazione di fallimento di una società, l’accertamento dello stato di insolvenza dev’essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, pure nel caso in cui essa sia inserita in un gruppo, giacché, nonostante la politica economica unitaria, ciascuna delle imprese del gruppo conserva una distinta personalità giuridica ed è autonomamente qualificabile come imprenditore, rispondendo, allora, con il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti. Si ritiene, invero, che il gruppo economico non sia un ente autonomo, che l’eventuale situazione di crisi di una o più imprese dello stesso non implichi, necessariamente, un riflesso automaticamente negativo anche sugli altri componenti, holding compresa, e che, pure in questo caso, l’indagine sullo stato di insolvenza di un soggetto economico debba essere obbiettiva, non essendo corretto prescindere dalla valutazione dei presupposti soggettivi ed oggettivi della dichiarazione di fallimento in capo all’impresa interessata. Non potrebbe, quindi, estendersi in modo automatico lo stato di decozione dell’impresa sottoposta alla holding, senza un’indagine specifica sulla situazione patrimoniale di quest’ultima. A fornire un solido appoggio a tale impostazione, è, certamente, l’idea, tratta appunto dalla sentenza 1439/1990, che la holding, onde costituire un’impresa commerciale suscettibile di fallimento, debba agire nel proprio nome per il perseguimento di un risultato economico aggiuntivo per il gruppo. Se così è, infatti, la holding potrà essere chiamata a rispondere, con l’intero suo patrimonio, ai sensi dell’articolo 2740 del Codice Civile, soltanto delle obbligazioni che ha direttamente contratto spendendo il proprio nome, non anche di quelle assunte dalle e in nome delle imprese dirette e coordinate. È questa una soluzione che rispetta l’autonomia patrimoniale e la distinta soggettività giuridica delle singole componenti del gruppo di imprese, pure nelle ipotesi di esercizio scorretto dell’attività di direzione unitaria. A ciò consegue che i creditori che possono battersi per il fallimento della holding insolvente, onde poi insinuarsi nel rispettivo passivo, sono soltanto quelli che hanno avuto la fortuna di contrattare direttamente con l’impresa capogruppo, non, invece, coloro che hanno intrattenuto rapporti creditizi unicamente con i soggetti economici sottoposti, salvo un esito positivo dell’eventuale azione risarcitoria esercitata ai sensi dell’articolo 2497 del Codice Civile. Il singolo creditore, allora, anche in presenza di un’insolvenza diffusa, può aspirare, secondo questo schema, all’ammissione allo stato passivo di una sola delle masse patrimoniali del gruppo. Tenendo presente che, restando distinti, nonostante l’unico dissesto, i patrimoni su cui soddisfarsi, vi saranno fallimenti capienti e non, la tutela del credito risulta subordinata alla occasionalità della collocazione, con tanto di pregiudizio alla par condicio creditorum (Prestipino).

5. Qualche giudice di merito “coraggioso”

Talvolta, però, si incontrano giudici (di merito), per così dire, innovativi. Supera, infatti, l’idea che la capogruppo non possa fallire in estensione la sentenza del 12 Ottobre 2012 n. 164 del Tribunale di Venezia. Di fronte al fallimento di tre società, i giudici ravvisano l’esistenza di una società occulta-holding, coinvolgente tre soci-amministratori, responsabile di un esercizio abusivo dell’attività di eterodirezione dei tre enti falliti e dichiara il fallimento della medesima capogruppo occulta, estendendolo ai suoi soci occulti illimitatamente responsabili, ai sensi dell’articolo 147, commi 4 e 5, della Legga Fallimentare. Nonostante l’affermazione che l’aver scorrettamente condotto l’attività di direzione e coordinamento delle imprese figlie possa portare all’estensione della procedura concorsuale abbattutasi su queste ultime, secondo il Tribunale il fallimento della holding, però, può essere dichiarato soltanto qualora il soggetto capogruppo presenti i requisiti indicati dalla Cassazione nel caso Caltagirone, ossia un esercizio del potere di eterodirezione professionale, organizzato, economico ed accompagnato dalla spendita del proprio nome nella conclusione degli atti ad esso relativi.

Del medesimo ordine di idee è la sentenza della Corte di Appello di Ancona del 5 Marzo 2010, Presidente dott. Formiconi, Estensore dott. Vadalà. Anzi, se nella sentenza n. 164/2012 del Tribunale di Venezia il requisito della spendita del nome, al fine di attribuire la qualità di imprenditore alla holding, è pur sempre mantenuto nella forma, la Corte di Appello di Ancona afferma che la spendita formale del nome può essere utilmente sopperita da un comportamento esterno, nei confronti dei fornitori, degli istituti di credito e di quelli previdenziali, dei creditori e, in generale, dei terzi, che testimoni un esercizio di fatto del potere di gestione, direzione e coordinamento di tutte le attività del gruppo. Nel caso di specie, il signor V., amministratore o socio, diretto o per interposta persona, di tutte le società, aveva omesso di corrispondere gli oneri fiscali e contributivi delle stesse, sì da condurre al fallimento le imprese cui detti oneri si riferivano. Si tratterebbe, allora, anche in questo caso di uno scorretto esercizio del potere di eterodirezione ai sensi dell’articolo 2497  del Codice Civile (per quanto sia molto dibattuta, in dottrina, la possibilità di applicare le regole del Capo IX del Titolo V del Libro V del Codice Civile anche all’holder-persona fisica). Circostanza, questa, che determina una responsabilità del soggetto capogruppo non solo per le obbligazioni contratte spendendo il proprio nome, bensì anche di quelle assunte dalle e in nome delle società dirette e coordinate, se del caso, rispondendo pure dell’insolvenza di una singola impresa sottoposta. La holding, insomma, risponde sia delle obbligazioni derivanti dall’aver concluso contratti spendendo il proprio nome, sia delle obbligazioni risarcitorie che derivano da uno scorretto esercizio del potere di eterodirezione, ossia quando l’attività di indirizzo e coordinamento è esercitata in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale e cagioni un pregiudizio all’integrità patrimoniale della società sottoposta, tale da rendere il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori. Di conseguenza, i creditori che possono insinuarsi al passivo della holding sono, oltre a coloro che hanno stipulato atti negoziali nei quali il capogruppo ha speso il proprio nome, anche i creditori delle società sottoposte che abbiano subito un danno a causa dell’insufficienza del patrimonio della propria debitrice, sempre che tale incapienza, e la successiva insolvenza, sia un effetto della scorretta attività eterodirettiva esercitata.

Nella sentenza della Sezione II del Tribunale di Milano dell’11 Aprile 2011, n. 276, si va, poi, pure oltre. Per crisi di liquidità, una società a responsabilità limitata viene ammessa al concordato preventivo, ma non evita il fallimento perché le risorse promesse dal suo amministratore, L. M., non sopraggiungono. Circostanza, questa, dalla quale è parso ragionevole evincere che lo stesso signor M. si trova, a sua volta, in crisi di liquidità. Inoltre, egli è già debitore per notevoli importi nei confronti della fallita. L. M. ha sempre diretto in prima persona non solo la fallita, di cui rappresenta un legittimo amministratore, ma anche altre sei società. In queste sei, il signor M. non compare formalmente, eppure ne determina l’indirizzo e ne gestisce i conti, anche per interesse personale. Il Tribunale, allora, sostiene che il signor M. domini un’unica impresa commerciale, per quanto articolata essa sia. Si tratta di un soggetto che o esercita in proprio l’attività commerciale avvalendosi anche delle società da lui costituite e, di diritto o di fatto, gestite, o ne diventa capogruppo abusivo, rispondendone ai sensi dell’articolo 2497 del Codice Civile. Tuttavia, il rigido apparato costruito dalla Suprema Corte a partire dalla sentenza Caltagirone inibisce il meccanismo di fallibilità della holding proprio nel caso del più temibile abuso, ossia quando la persona fisica dominante agisce senza il rispetto dell’autonomia patrimoniale e personale delle società del gruppo ed esercita i poteri gestori o di controllo delle stesse come se si trattasse di cosa propria. Qui, infatti, l’holder malintenzionato, da un lato, evita di contrarre obbligazioni in proprio nome e, dall’altro, non necessita l’ausilio di un apposito apparato organizzativo. È proprio quanto accade nel caso di L. M., il quale si è ben guardato dal mettere firme e dal costruire una propria azienda, avvalendosi, appunto, di quelle delle società eterodirette. Il Collegio giudicante, allora, decide di percorrere un altro e diverso itinerario. A ben vedere, l’holding è nulla di diverso dall’imprenditore occulto ed è onerata delle obbligazioni del gruppo in quanto la responsabilità consegue non tanto alla spendita formale del nome, quanto al potere di iniziativa, essendo l’inevitabile prezzo di quest’ultimo. Afferma la sentenza che quando una persona fisica opera per il tramite di società delle quali dispone come di cosa propria, anche senza esserne socio, né amministratore, allo scopo di esercitare un’attività commerciale riferibile, in fatto, a sé, ma formalmente imputata alle società stesse mediante stabile ed esclusiva spendita del loro nome, essa va qualificata come un imprenditore individuale fallibile. Il signor L. M. fallisce non perché è un’holding personale autonomamente insolvente, bensì perché è un imprenditore indiretto, occulto.  Fallisce perché è possibile sostenere che il nuovo articolo 147 (soprattutto il suo comma 5) della Legge Fallimentare sia permeato da un principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa per i soggetti che la gestiscono debba sempre superare quelle barriere formali da altre ragioni giustificate. Un principio già chiaramente presente nell’opera di Walter Bigiavi, ma che attendeva una solida base di partenza, vale a dire la norma scritta, finalmente sopraggiunta.

 

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