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Competere

Si può essere ambiziosi e non competitivi?
competizione
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In questi giorni mi è capitato spesso di parlare di competizione, ma che cos’è la competizione?

Partendo dalle definizioni, se intendiamo competere come “incontrarsi con” (cum petere), il senso è quello di “conseguire risultati lavorando insieme”, in continuità con il “collaborare” (cum laborare). Da questo punto di vista, John Nash (1928 - 2015) - vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1994 con la Teoria dei Giochi - riteneva che nella competizione la forza individuale non fosse sufficiente in quanto, il risultato migliore, lo si ottiene quando ciascun componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo.

Tuttavia, va anche detto che la definizione di John Nash si contrappone all’idea di Adam Smith (1723 - 1790) - padre dell'economia classica – secondo il quale, nella competizione, il miglior risultato lo si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé. In questo caso, cum petere, assume il significato a noi forse più comune, di “scontrarsi con”, della gara l’uno contro l’altro.

La prima definizione mi ha riportato alla mente un episodio accaduto qualche tempo fa. Era dicembre del 2017, il contesto è quello della maratona di Dallas. L'atleta Chandler Self era sul punto di vincere la gara, ma di colpo e a soli 100 metri dal traguardo, le sue gambe non hanno più risposto ai comandi. A quel punto, la diciasettenne Ariana Luterman – atleta che davano per vincitrice della maratona - viste le difficoltà della rivale, la prese sotto braccio, portandola fino al traguardo, facendole così vincere la gara. Intervistata, Ariana Luterman dichiarò: "Non potevo non pensare ai mesi di duro lavoro che aveva fatto Chandler per partecipare alla maratona. È stato un gesto istintivo che rifarei subito".

In questo esempio, generosità e collaborazione, viaggiano insieme.

Per contro e come accennato poco sopra, ad oggi - dove il contesto che viviamo è sempre più severo e dove, nella pubblica amministrazione, la valorizzazione delle persone è per lo più un gioco di negoziazione - la competizione probabilmente l’associamo alla rivalità, allo “scontrarsi con” e in questi termini si contrappone quindi alla collaborazione, esemplificata dal gesto della Luterman.

La rivalità, implica la tensione al raggiungimento di un vantaggio, anche a discapito degli altri e ciò che mi preme evidenziare è che non necessariamente la rivalità contempla, prima di tutto, il desiderio di accrescere la propria professionalità. Le leve che prevalgono sono infatti altre, ad esempio, l’obiettivo di conseguire una data posizione organizzativa, oppure, più semplicemente, per ottenere un miglioramento economico o anche per affermare la forza negoziale di un dirigente a scapito dell’altro. Quando la spinta è prevalentemente mossa da queste variabili, la competenza può anche passare in secondo piano ed entra in gioco una strategia individuale basata su alcuni comportamenti abbastanza comuni, fra questi, il ritenere informazioni, adottare comportamenti strumentali e manipolatori. Tutte energie sapientemente investite per adombrare i nostri “competitor”.

Nel mentre si fa quindi strada un altro concetto che è quello dell’ambizione.

Si può essere ambizioni e non competitivi?

Personalmente ho impiegato un po' di tempo a capire dove mi collocavo. Lo capii un po' di tempo fa, avevo poco più di vent’anni.

All’epoca insegnavo nuoto e decisi che avrei voluto conseguire anche il brevetto di “Assistente Bagnanti”. Non so se lo sapete, ma poiché potreste essere chiamati a dover salvare una persona senza perdere voi stessi la vita, la prova per diventare “bagnino” è abbastanza severa. Oltre ad una prova orale, dovrete sostenere una prova di abilità e resistenza che si compone di più fasi (sulle quali non mi dilungo in questa sede in quanto, se mossi dalla curiosità, il programma è facilmente accessibile in rete).

All’esame ci presentammo in otto, cinque ragazze e tre ragazzi. Per un caso mi trovai di fianco un ragazzo e così, le mie prove con figurante e il recupero del pericolante in profondità, si svolsero tutte sostenendo un peso di gran lunga superiore al mio.

Quando eravamo in piscina, fra amici, ci capitava spesso di cimentarci in piccole gare fra noi. Era un gioco, o almeno io lo vivevo così. Una delle mie colleghe, nonché amica, era sempre particolarmente combattiva. Mi faceva sorridere il suo atteggiamento in acqua. Con tutta la forza che aveva in corpo puntava alla meta. Doveva arrivare prima, sempre. Dal canto mio, il mio obiettivo, era godermi la giornata e il bagno in piscina, con gli amici. Non mi interessava arrivare prima in quelle occasioni, preferivo vedere la mia amica felice nel toccare per prima il bordo della vasca dopo i 100 metri a stile libero, o rana. Il giorno dell’esame eravamo insieme.

L’esame si concluse con tre persone promosse e cinque bocciati. Una delle promosse fui io. La mia amica, presa dall’ansia e travolta dalla fatica, si ritirò a metà della prova.

Cos’era successo?! Lo capii solo dopo, riflettendoci a lungo.

Quando mi resi conto che quel giorno la fortuna non era dalla mia parte e che per tutte le prove avrei dovuto portare un uomo, molto più grande e grosso di me, decisi che avrei dato tutta me stessa. Rimasi concentrata tutto il tempo. Di nuovo, il mio obiettivo non era quello di conseguire il tempo migliore fra tutti, il mio obiettivo era conseguire quel brevetto. Mi ero allenata duramente per tanti mesi e la forza non mi mancava. Ciò che non mi doveva abbandonare era la determinazione. Il mio corpo era pervaso di adrenalina. La mia mente piena di un unico pensiero: arrivare.

In quella occasione capii una cosa molto importante di me. Un tratto del mio carattere che mi è connaturato e che tuttora mi contraddistingue.

Sono ambiziosa, certo. Ma competo contro me stessa, non contro gli altri. La mia competizione si basava (e si basa tuttora) sulla competenza: mi ero allenata duramente per tanti mesi. Dovevo farcela.

Comprese quindi le differenze fra ambizione, competizione e collaborazione e riportando il tutto in una dimensione organizzativa, credo fermamente nell’importanza, per le organizzazioni e per chi ricopre ruoli di leadership, di agire ed educare alla collaborazione. 

La competizione non è sano sia definita dalla mera tensione alla prevaricazione, come unica leva per eliminare la minaccia alla propria realizzazione personale (mors tua vita mea). Per rientrare nella metafora sportiva, il rugby ben ci insegna che si può competere preservando lealtà e rispetto dell’avversario.

La competizione basata sulla competenza si colloca in una dimensione evolutiva del gruppo al quale si appartiene, di sviluppo e crescita. Vince chi, in modo leale, dimostra di essere il migliore, in una direzione che per l’organizzazione si dimostra essere win win in quanto, in un contesto collaborativo, mettiamo in campo anche la nostra capacità di far crescere di chi ci sta intorno e viene quindi favorito un clima improntato al confronto, al coinvolgimento e alla qualità delle relazioni.

Capite bene come il punto di vista si sposta dall’individuale (devo prevalere e prevaricare l’altro con qualsiasi mezzo a mia disposizione, perché questi rappresenta una minaccia alla mia affermazione) alla dimensione comunitaria (competo sulla competenza e mi confronto lealmente con gli altri, fra noi vincerà il migliore).

Come è naturale che sia, il primo atteggiamento influirà in modo severo sul clima, del gruppo e organizzativo, perché il nostro tempo sarà spero principalmente per difenderci dall’attacco e a decodificare l’ignoto. Nel secondo caso, al termine della competizione, del concorso, della valutazione premiale, le persone torneranno ad essere collaborative tra loro, spogliate dei sentimenti di rancore, di invidia e rabbia verso chi ce l’ha fatta.

Riprendendo il pensiero di John Nash il miglior risultato collettivo non è realizzabile quando ciascun concorrente cerca di massimizzare il proprio utile personale; bensì quando le dinamiche attivate favoriranno il miglior risultato possibile per sé, ma anche per il gruppo.

Certo, potenziare queste dimensioni non è semplice e comporta un certo impegno, sia per l’organizzazione, sia per l’individuo. L’organizzazione, dovrà agire nella trasparenza dei criteri e dei metodi di valutazione, dovrà attivare quindi sistemi premiali equi che vadano oltre l’individualità, il punto di vista soggettivo e l’appartenenza a gruppi di protezione. L’individuo, dal canto suo, dovrà sviluppare percorsi di auto-analisi e self evaluation che facciano emergere una maggiore consapevolezza di sé all’interno del contesto in cui opera.

In tutto questo è importante tenere presente che qualsiasi graduatoria potrà dirvi dove vi collocate in quel dato momento, al netto di tutte le variabili più o meno avverse del caso, ma nessuna graduatoria potrà mai rappresentare chi siete. Detto questo, il futuro resta pieno di possibilità. “Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso – N. Mandela”