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Collaborare beyond: si, ma … attenti alla variabile di cui non si parla mai!

Onde
Ph. Cinzia Falcinelli / Onde

Collaborare … che bella parola! Idealisticamente ed ideologicamente sempre più spesso utilizzata ad esprimere il fare insieme ed il raggiungere insieme un traguardo, momentaneo o continuativo (Vender, Link).

Per chi ne studia il risvolto manageriale, meglio organizzativo, è accompagnata da coordinamento e cooperazione.

Il primo termine a significare il bisogno e la capacità di svolgere in modo corretto il lavoro tenendo insieme le parti di solito scomposte per semplificarne l’attività e per sfruttare la logica della specializzazione delle competenze.

Il secondo, più genericamente, ad esprimere logiche di coinvolgimento di realtà autonome, normalmente con finalità e modalità operative diverse nell’operare, nel fare, verso un intendimento, talvolta obiettivo concreto che accomuna.

Di per sé già queste due parole ben rappresentano tecnicamente formule organizzative di lavoro in cui le persone sentono un fine e un obiettivo comuni e li esprimono nelle soluzioni operative per farlo insieme.

Tuttavia, come ben sa chi studia questi fenomeni, ci sono modi differenti di ottenere insieme un risultato e di lavorare insieme: un gruppo di progetto lavora insieme, spesso viene definito team; anche una squadra di operativi che non si conoscono, ma eseguono un processo (procedimenti e procedure) lavora organizzativamente insieme semplicemente rispettando norme, regole e standard predefiniti; ci si può anche conoscere lavorando insieme, ma senza collaborare (pura conformità a quanto ingegneristicamente o amministrativamente pre-stabilito).

E, quindi, qual è il sale che introduce in queste situazioni la parola collaborare?

È l’aspetto, troppo sconosciuto o volutamente represso, del considerare l’altro, nel gruppo o nel team, con pari dignità!

Quando si affrontano le cose in modo collaborativo è perché sono stati congelati, o meglio abbandonati, personalismi e valutazioni su conoscenze e capacità per concentrarsi sul risultato da ottenere con chi si considera al mio stesso grado di dignità. Con un contratto relazionale di altissimo livello. E qui sta il punto.

Il concetto di dignità contempla preliminarmente la valutazione sulle competenze (conoscenze + capacità + comportamenti contestualizzati) di coloro con cui coordinarsi e cooperare per svolgere insieme il compito. Quando negli altri si riconoscono le competenze (e gli altri le riconoscono a noi) la collaborazione si sviluppa magicamente: ma basta un elemento dissonante per creare dirompenza nel gruppo … ops, nel potenziale team.

Purtroppo, quando si parla di collaborazione è come se, nella malefica ideologia del politically correct, alcune questioni non si possano nemmeno considerare. Si dovrebbero mettere tutti allo stesso livello di dignità senza valutarne la reale consistenza e fattibilità. La pari dignità deriva dalla autorevolezza del sapersi giocare il proprio ruolo e la propria professionalità: gli altri valutano questa capacità nei fatti (e speriamo non nella ideologia), e quando la riconoscono accettano di esserne coinvolti. Quando ciò non è, meglio parlare di semplice coordinamento su base cooperativa, magari gestita attraverso la gerarchia, intesa come contratto (forma di coordinamento macro) o come struttura di comando (forma di coordinamento micro), che filtra e decide nelle incompetenze e nelle animosità di non riconoscimento.

In sostanza, se è vero che la collaborazione la si costruisce con fatica (si riveda in Vender), questa fatica è semplice da affrontare se i singoli attori sono consapevoli del suo significato: riduzione dell’autorità perché l’autorevolezza di singoli che si fidano uno dell’altro genera l’autorevolezza del gruppo.

Ma c’è un problema: il riconoscimento della autorevolezza personale bisogna personalmente guadagnarsela!