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Conservazione del provvedimento fra nullità, annullabilità e inesistenza

Introduzione.

Il c.d. principio di conservazione del provvedimento amministrativo ha la funzione di evitare la rimozione di un provvedimento amministrativo, quando esistano presupposti, tali da consentire un “salvataggio” del medesimo. E' sostenibile che soltanto un'interpretazione non approfondita dell'art. 97 Cost. possa far ritenere che il rispetto dei princìpi di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione presupponga l'adesione a un'interpretazione in chiave ultraformalistica dell'operato di questa. L'azione amministrativa dev'essere utilizzata per attendere allo svolgimento di interessi pubblici, i quali appaiono concretizzati in maniera più puntuale, ove si consenta all'Autorità competente di non paralizzare la propria procedura, ogni volta in cui incorra in blande imperfezioni, concernenti la veste esteriore del provvedimento o di un atto endoprocedimentale. 1

L'intento precipuo è quello di evitare la dispersione dell'attività, da cui è scaturito il provvedimento viziato, quando il medesimo o un atto della procedura, che lo ha prodotto, sia affetto da una patologia, tale da consentirne la “conservazione”. E' chiaro il collegamento con l'esigenza di continuità dell'attività amministrativa, la quale deve potersi svolgere in modo tendenzialmente costante, dovendosi circoscrivere, per quanto possibile, le fasi d'interruzione della medesima, al fine di rendere più produttiva la gestione degli interessi pubblici, di cui l'Amministrazione deve occuparsi. L'esigenza di continuità è giustificata dalla sempre più ricca gamma di tali interessi, la cui molteplicità rende indispensabile utilizzare al meglio le risorse disponibili.

L'imprescindibile valorizzazione del principio conservativo assume maggior rilievo, ove si ponga mente al fatto che esistono molti settori dell'attività amministrativa, in cui la celerità dell'azione coincide con l'efficienza della medesima, specialmente ove occorra attendere a interessi pubblici, di rango costituzionale, come nell'ipotesi di protezione del diritto alla salute o alla vita. Si comprende come, soprattutto in queste ipotesi, ampliare indefinitamente gli spazi di paralisi e immobilismo dell'azione amministrativa, eventualmente avallando uno sterile formalismo, comporterebbe conseguenze aberranti.

Pertanto, nei limiti del possibile, va evitato lo “spreco” di attività procedimentale, quando, pur in presenza di taluni elementi d'imperfezione, il provvedimento amministrativo si presenti idoneo a realizzare le finalità, per le quali è stato emanato. Ciò comporta, sia pure entro certi limiti, la prevalenza della sostanza sulla forma. E' pur vero che il rispetto delle procedure è base indispensabile per garantire la piena correttezza dei rapporti fra Amministrazione e cittadini, perché la mancanza di una sufficiente predeterminazione delle regole dell'attività amministrativa rischia di portare alla caoticità. Peraltro, in presenza di vizi formali di portata trascurabile, paralizzare o, in ogni caso, rallentare l'attività dell'Amministrazione appare non in consonanza con il principio generale del buon andamento, disciplinato dall'art. 97 della Costituzione 2. Tale principio implica che gli agenti dell'amministrazione svolgano in maniera solerte i propri compiti, attendendo agli interessi da tutelare, attraverso un congruo impiego delle strumenti disponibili. Va, pertanto, pienamente approvata la tendenza, che emerge dalla Leggi 15 e 80-2005, le quali si sono occupate di riformare il procedimento amministrativo, introducendo, fra l'altro, un'espressa disciplina del provvedimento, colmando, sia pure in modo perfettibile, una lacuna, da tempo avvertita, data la preesistente assenza di qualsivoglia disposizione generale su questa essenziale materia.

L'istituto del funzionario di fatto : sua rilevanza nella tematica del principio di conservazione e sua delimitazione: tesi restrittiva

Un'importante applicazione del principio di conservazione del provvedimento amministrativo è rappresentata dal c.d. “funzionario apparente o di fatto”. Si tratta d'ipotesi in cui un soggetto, non formalmente incardinato nell'Amministrazione, eserciti un'attività materialmente amministrativa, suscitando all'esterno l'apparenza di operare, quale agente dell'Amministrazione. Va preliminarmente osservato che la portata pratica dell'istituto in questione appare fortemente ridimensionata, a causa della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, con l'eccezione delle categorie esentate dalla medesima (vale a dire Avvocati e Procuratori dello Stato, Magistrati, Docenti universitari, Dirigenti). Pertanto, l'istituto del funzionario apparente conserva una sua rilevanza concreta soprattutto nel rapporto di servizio onorario.

Non vi è univocità di vedute, in relazione alla delimitazione della figura in esame. Può ipotizzarsi che l'istituto sia operativo, qualora si debba attendere all'espletamento di attività amministrative essenziali e indifferibili, vale a dire tali che la loro omissione potrebbe pregiudicare la stabilità dell'ordinamento giuridico. Può accadere che un privato agisca quale agente dell'Amministrazione, pur se privo di formale investitura, e ottemperi all'adempimento di queste attività improcrastinabili. Può, inoltre, supporsi che, nonostante l'assenza d'investitura, si consolidi presso i consociati l'opinione, secondo cui quel soggetto agisce, nelle vesti di autorità amministrativa. Questi elementi portano a imputare all'Amministrazione gli atti compiuti dall'agente apparente. Un'ipotesi, inquadrabile nella tipologia adesso descritta, è codificata nell'art. 113 cod. civ., il quale equipara al matrimonio celebrato davanti all'ufficiale di stato civile quello celebrato davanti a persona la quale, senza avere la qualità di ufficiale dello stato civile, ne esercita pubblicamente le funzioni 3.

L'esegesi dell'art. 113 è importante, ai fini della piena comprensione della giustificazione della nozione in commento, in quanto tale disposizione codicistica è argomento normativo pregnante, a sostegno dell'opinione, per la quale la rilevanza della funzione amministrativa “apparente” si spiega per tutelare l'affidamento dei privati, attraverso la “conservazione” degli effetti dell'attività medesima.

Si riscontra, pertanto, una situazione, in cui l'”apparenza” prevale sulla realtà, nella particolare eventualità, in cui dei privati percepiscano l'attività dell'agente apparente, come materialmente imputabile all'Amministrazione e vengano in considerazione provvedimenti che, se reputati operativi, comportino effetti favorevoli nella sfera giuridica dei destinatari. E' chiaro, in relazione all'art. 113 c.civ., l'effetto “favorevole” del conseguimento dello stato coniugale di due soggetti, che abbiano maturato la convinzione di instaurare un rapporto matrimoniale. Accanto all'esigenza di tutelare l'affidamento vi è quella della conservazione dell'attività amministrativa, quando questa attenda a interessi pubblici di rango primario. Può, più chiaramente, ritenersi che il principio conservativo e quello di tutela dell'affidamento si presentino strettamente collegati, ove si consideri che si ritengono “da salvare” solo quegli atti amministrativi del funzionario apparente, da cui non discendano conseguenze pregiudizievoli per i privati.

Va, inoltre, considerata l'esigenza della continuità dell'azione amministrativa, la quale assume rilievo preminente, soprattutto ove si condivida la tesi, che delimita l'ambito delle funzioni di fatto alle ipotesi di attività necessarie e indifferibili, relative a situazioni di emergenza, rappresentate, ad esempio, da stati di isolamento di una parte del territorio nazionale o da calamità naturali. In vicende simili, occorre assicurare un margine di stabilità all'ordinamento, e si ritiene di poter conseguire questa finalità, attraverso l'imputazione all'Amministrazione degli atti compiuti dagli agenti apparenti. Questa opinione avalla talmente l'esigenza della continuità, oltre che della conservazione, dell'attività amministrativa, al punto da considerare imputabili all'Amministrazione gli atti compiuti dall'usurpatore di pubbliche funzioni. Si sana, pertanto, un comportamento illecito di un soggetto, che illegittimamente assume un potere pubblico. Si comprende, in ogni caso, che una siffatta sanatoria non può andare entro certi limiti, al fine di non pregiudicare l'esigenza di certezza del diritto. Ciò spiega per quali ragioni l'usurpazione di pubbliche funzioni è sanabile, secondo l'impostazione in esame, solo quando siano compiuti dall'usurpatore atti indifferibili, per i quali è prevista una scadenza tassativa, e questi comportino effetti favorevoli ai loro destinatari. Va, altresì, precisato che nella nozione di “funzionario di fatto” non possono farsi rientrare le ipotesi di sommosse popolari e di rivoluzioni politiche. La fattispecie esula dal diritto amministrativo in senso stretto, per riguardare principalmente il diritto costituzionale. Viene in considerazione un conflitto, fra un ordinamento in fase di crisi e un altro, che tenta di prevalere sul primo; pertanto, ove un privato compia un atto, concernente un pubblico ufficio, è illogico imputare tale atto al pubblico ufficio medesimo, in quanto esso fa parte di un ordinamento, che si sta tentando di sovvertire.

Va, inoltre, rilevato che, ad avviso del Cons. di Stato, sez. IV, 20 maggio 1999, n. 853 4, la teoria del c.d. "funzionario di fatto" va applicata solo allorché in concreto vengano in considerazione funzioni essenziali e/o indifferibili. Deve trattarsi di atti, provvisti di un'immediata efficacia nei confronti dei terzi. Ove si consideri che l'istituto è posto a tutela dell'affidamento dei destinatari del provvedimento, proveniente dal funzionario apparente, l'operatività del medesimo istituto è da escludere, ove gli effetti del provvedimento siano sfavorevoli per il terzo oppure quest'ultimo percepisca l'atto come da non imputare all'Amministrazione, contestando l'apparenza della situazione.

In conformità a tale ragionamento, il Consiglio di Stato ha annullato in sede giurisdizionale il decreto di occupazione temporanea di un terreno, proveniente da un Sindaco, la cui elezione era stata annullata dal Giudice amministrativo.

Tesi estensiva della nozione di funzionario di fatto

Esiste una diversa opinione, che interpreta la figura del funzionario di fatto, in termini più ampi, rispetto a quelli adesso considerati 5, e include all'interno dell'istituto tutte le ipotesi in cui sia presente un'investitura viziata o l'assenza di qualsiasi legittimazione. Può trattarsi di un'ipotesi di nullità, oppure di un difetto, che rende annullabile l'investitura. L'adesione a questa tesi estensiva comporta un maggior rilievo attribuito al principio conservativo, nel senso che esso è operativo in una serie più ampia d'ipotesi. L'opinione in questione tende ad allargare l'ambito di operatività dell'istituto del funzionario apparente, fino a ricomprendervi l'ipotesi dell'organo scaduto, che continua, di fatto, a esercitare i suoi poteri, fino alla nomina del suo successore. Tale vicenda, denominata prorogatio, riguarda uffici a titolarità onoraria o politica, ove il titolare precedente sia in grado, per assenza d'impedimento, di proseguire nella gestione delle mansioni inerenti all'ufficio, fino alla investitura del nuovo titolare. Pertanto, in conformità a tale impostazione, nella nozione di funzionario di fatto occorre ricomprendere anche il c.d. “funzionario prorogato” (cfr. in tal senso C. Stato 16.7.1960, n° 516).

Può obiettarsi che il funzionario, che continua a svolgere le sue mansioni dopo la scadenza dei termini di durata dell'ufficio, appare titolare di un'investitura legittima e priva di vizi. Ciò porta a ritenere che l'”agente prorogato” ha non solo la facoltà, ma anche l'obbligo di attendere ai compiti attinenti all'ufficio durante il periodo di proroga (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI, 27-10-1992, n° 673).

L'esatto rilievo, secondo il quale, in ipotesi di “ prorogatio ”, sussiste un obbligo giuridico del titolare, quanto alla prosecuzione dell'attività inerente all'ufficio, dimostra in modo decisivo che l'investitura, durante il periodo di proroga dei termini di durata dell'organo, conserva piena validità ed efficacia, e non è inquadrabile all'interno della categoria delle funzioni di fatto.

Va rilevato, inoltre, che la Corte costituzionale, nella sentenza n° 208-1992, si è occupata dell'istituto della “ prorogatio” , sostenendo che la medesima non va applicata in modo generalizzato, ma solo in ipotesi eccezionali. Questa presa di posizione della Consulta ha determinato un'inversione di tendenza, rispetto alla preesistente impostazione, consistente nel generalizzare l'applicazione dell'istituto, fino all'investitura del nuovo titolare dell'ufficio.

La “ prorogatio” , ancorché non sia, secondo l'opinione cui si aderisce, da collocare all'interno delle funzioni di fatto, è egualmente espressione del principio conservativo dei provvedimenti amministrativi: la finalità conservativa, infatti, deve considerarsi la prevalente base giustificativa dell'istituto (cfr. Cons. Stato, Sez V, 14.2.1967). Non può tollerarsi l'essenza nell'Amministrazione pubblica di un vuoto di potere, in quanto occorre in ogni momento individuare un'autorità, con la funzione di decidere e provvedere (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14.5.1968, n° 303). Può ritenersi, dato lo scopo di conservazione e continuità dell'attività amministrativa, che il funzionario “prorogato” sia tenuto ad ottemperare agli “affari correnti”, riguardanti l'attività dell'ufficio, lasciando al successivo titolare le decisioni concernenti le questioni, che richiedono maggiore ponderazione.

Conseguenze giuridiche dell'emanazione, da parte del funzionario apparente, di provvedimenti pregiudizievoli, per i destinatari.

La prioritaria necessità di assicurare continuità all'azione amministrativa, di per sé, non legittima l'imputazione all'Amministrazione degli atti, compiuti dal funzionario apparente, con pregiudizio per i terzi. Un'impostazione siffatta consente di mantenere l'operatività dell'istituto in esame in armonia con il principio di legalità, il quale è prevalente su quello di continuità e conservazione.

Sono, pertanto, imputabili all'Amministrazione solo quegli atti del funzionario di fatto, aventi effetti favorevoli nei confronti dei terzi. Gli atti sfavorevoli, emanati da soggetti privi di investitura, o provvisti di un titolo nullo o inefficace, vanno considerati nulli. Sarà possibile, inoltre, configurare il reato di usurpazione di pubbliche funzioni (art. 347 c.pen.) 6, ove il soggetto assuma, con coscienza e volontà, la titolarità dell'ufficio. Può aggiungersi che, quando sia configurato in concreto il delitto di usurpazione di pubbliche funzioni, appare discutibile anche l'opinione sopra riferita, in conformità alla quale hanno effetto gli atti favorevoli nei confronti dei destinatari, in quanto, aderendo a tale tesi, si antepone la tutela dell'apparenza e dell'affidamento, rispetto alla repressione di un reato.

Analoghe considerazioni vanno formulate, per l'ipotesi, in cui l'investitura sia annullata dall'Autorità giudiziaria, o dall'Amministrazione, al momento dell'adozione dell'atto lesivo.

Ove la nomina non sia stata annullata, secondo l'insegnamento del Consiglio di Stato, sez. V, 22 Febbraio 1996, n. 232, manca un interesse qualificato e diretto a impugnare l'atto d'investitura, emanato da un organo amministrativo, avente competenza generale, in occasione dell'impugnazione di atti emanati dall'organo stesso. L'impugnazione congiunta di un provvedimento lesivo e dell'atto d'investitura può ipotizzarsi, solo ove vi sia un nesso procedimentale fra i due atti 7.

In tale ultima ipotesi, l'atto di nomina si atteggia come atto infraprocedimentale, il quale, pertanto, costituisce antecedente logico e cronologico, rispetto all'emanazione, da parte del funzionario apparente, dell'atto pregiudizievole. In mancanza di siffatto nesso, atto di nomina viziato e provvedimento concretamente lesivo si collocano all'interno di due procedimenti ben distinti e, pertanto, non può esservi trasmissione dal primo al secondo del vizio invalidante. L'ipotesi, in cui il suddetto nesso procedimentale manca, essenzialmente, si riscontra allorché fonte del provvedimento pregiudizievole sia un organo a competenza generale, il cui titolare sia stato nominato, a seguito un procedimento, sganciato da quello, concernente l'atto pregiudizievole.

La posizione del Consiglio di Stato, adesso descritta, è condivisibile e appare in consonanza con il principio conservativo, in quanto preclude che i privati, pregiudicati dal provvedimento, ottengano l'annullamento dell'atto di nomina, anche in casi, in cui sia trascorso molto tempo dalla concretizzazione del pregiudizio. L'esigenza di tutela dell'affidamento non può prevalere in ogni caso, rispetto all'esigenza di certezza e stabilità dell'azione amministrativa.

Va considerata anche l'eventualità, in cui l'annullamento della nomina avvenga dopo l'emanazione del provvedimento sfavorevole. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 20 Maggio 1999, n. 853, in vicende siffatte, il provvedimento va considerato viziato per incompetenza. E' sostenibile, in astratto, anche la tesi, in conformità alla quale il vizio consista in una violazione di legge, in quanto difetta l'osservanza delle disposizioni, che stabiliscono quali siano le persone fisiche, aventi titolo per agire in nome e per conto dell'Amministrazione.

Il riferimento all'incompetenza o alla violazione di legge è suscettibile di obiezioni. Secondo un'opinione, sembra più realistico inquadrare le fattispecie in esame come casi, in cui l'agente era privo della qualifica di organo pubblico, in quanto “esterno”, rispetto all'apparato organizzatorio, per conto del quale ha agito. Pertanto, il provvedimento dovrebbe considerarsi, piuttosto che annullabile per violazione di legge, o per incompetenza, nullo per “acompetenza”.

La tesi ha il pregio di armonizzarsi con il disposto dell'attuale art. 21- septies della legge 241, riformata dalla legge 15- 2005, in conformità al quale comporta nullità del provvedimento amministrativo “la mancanza di uno degli elementi essenziali del medesimo”, vale a dire, nella nostra ipotesi, l'elemento soggettivo. Peraltro, permane la difficoltà di applicare la nozione di nullità a un'ipotesi di provvedimento, pienamente efficace, al momento dell'emanazione.

Ove si ritenga che il provvedimento pregiudizievole sia affetto da mera illegittimità, bisogna distinguere l'ipotesi in cui l'atto di nomina riguardi un organo a competenza generale, oppure un organo con competenza specifica, per l'emanazione di un singolo provvedimento. Nella prima serie di ipotesi, occorrerà che il privato, pregiudicato dal medesimo, impugni congiuntamente il provvedimento di nomina e quello concretamente lesivo, in quanto dall'eliminazione del provvedimento di nomina di un organo con competenza generale non deriva l'efficacia caducante dei provvedimenti emanati, in conformità di tale atto di nomina (si pensi alla nomina di un Prefetto o di un Sindaco).

L'effetto caducante degli atti pregiudizievoli conseguirà, invece, dall'annullamento della nomina di organi con competenze specifiche (per esempio, commissione di concorso).

Funzionario di fatto e organi collegiali.

Il principio di conservazione del provvedimento ha una minore importanza, quando si esamini la tematica dell'azione di un funzionario apparente, quale elemento di un organo collegiale. Quest'affermazione è in consonanza con la tesi della giurisprudenza amministrativa, la quale ritiene che, quanto agli effetti giuridici di provvedimenti, emanati da organi collegiali in composizione irregolare, non valga la regola, sopra esposta, della validità degli atti del funzionario di fatto, favorevoli ai destinatari.

E' opportuno circoscrivere l'orientamento giurisprudenziale in esame alle ipotesi di organi collegiali politici, o rappresentativi di enti. Questa limitazione si coordina con la ratio del sopra ricordato orientamento giurisprudenziale, in quanto esso si spiega per l'esigenza di far prevalere le ragioni di stabilità delle scelte essenziali, concernenti il modo di essere degli enti pubblici, all'interno dei quali agiscono gli organi collegiali, con composizione irregolare. L'esigenza di conservazione e tutela dell'affidamento deve lasciare il posto al bisogno indispensabile di consentire che la “gestione” della vita dell'ente sia affidata a organi collegiali, composti da soggetti pienamente legittimati.

Bisogna, inoltre, distinguere fra organi collegiali, la cui disciplina interna prevede l'adozione del principio maggioritario, a base dell'emanazione delle delibere, e organi collegiali, le cui delibere siano adottate all'unanimità. In quest'ultima ipotesi, la delibera è invalida per difetto di legittimazione, con l'eccezione degli atti favorevoli ai destinatari, per gli organi tecnici (per es. commissione di esami di avvocato).

Ove l'organo collegiale che nel caso concreto deliberi adotti il principio maggioritario, perché consegua l'illegittimità della delibera, occorrerà verificare che, senza il voto del funzionario apparente, la maggioranza necessaria non sarebbe stata conseguita.

Ai fini di una valorizzazione piena del principio conservativo, può ritenersi che andrebbe considerato anche, e soprattutto, il “peso effettivo” del funzionario apparente all'interno del collegio, soprattutto in relazione alla possibilità che la “posizione ufficiale” del medesimo funzionario, in relazione al “come” votare su una determinata delibera, determini un orientamento in tal senso, da parte di altri componenti del collegio. In ogni modo, sovente indagini di tale tipo sono omesse dai Giudici amministrativi, in quanto comporterebbero una dilatazione a dismisura dell'istruttoria processuale.

L'irregolarità del provvedimento come risultato dell'applicazione del principio conservativo

Uno dei risultati pratici di maggiore spessore, derivanti dall'elaborazione del principio di conservazione, è la creazione della categoria dell'irregolarità dei provvedimenti amministrativi. A rigore, qualsiasi imperfezione, anche minima, del provvedimento si traduce in una violazione di legge, determinando l'invalidità del medesimo. Ciò è coerente con il fatto che l'ordinamento non contempla alcuna disciplina esplicita dell'irregolarità.

Quest'ultima nozione è ricostruita dalla giurisprudenza, proprio per ovviare all'inconveniente, rappresentato dalla possibilità di considerare cause d'invalidità del provvedimento ipotesi in cui il difetto del medesimo sia trascurabile 8.

La teoria dell'irregolarità comporta un'adesione al principio della strumentalità delle forme, in conformità al quale, se il difetto di forma non preclude il fine istituzionale del provvedimento, ne discende che il medesimo difetto non si traduce in causa d'illegittimità del provvedimento stesso 9.

L'irregolarità rappresenta un'importante applicazione del principio di conservazione del provvedimento amministrativo, in quanto, nonostante l'imperfezione dell'atto, lo scopo, perseguito con il medesimo, è stato raggiunto e, pertanto, è avvenuta la sanatoria dell'imperfezione stessa 10. Può, al riguardo, osservarsi che il rigore giuridico non consiste in un'adesione alle “forme esteriori” degli atti e provvedimenti, ma ad un'effettiva attenzione al conseguimento di risultati soddisfacenti per i consociati.

Accade, in talune vicende concrete, che un comportamento dell'Amministrazione, appaia difforme, rispetto alle disposizioni contenute nella legge, qualora si proceda ad un'interpretazione rigidamente letterale delle medesime. Esso, peraltro, attraverso un'oculata interpretazione dell'atto o provvedimento scaturito da quella condotta, può reputarsi conforme all'intenzione del Legislatore, nonostante la presenza di un difetto nella sua veste esteriore (si pensi ad un difetto di sottoscrizione).

Secondo un'opinione, buona parte degli atti irregolari vanno qualificati come validi già al momento della loro formazione. Vi è una violazione di legge, ma essa comporta soltanto conseguenze, non incidenti sull'atto, come sanzioni a carico dell'agente. Non manca, peraltro, chi inquadra l'irregolarità nell'ambito dell'illegittimità del provvedimento, ritenendo operante una sanatoria della medesima, a seguito del raggiungimento dello scopo dell'atto 11.

Finalizzata all'eliminazione dell'irregolarità del provvedimento amministrativo è la “regolarizzazione”, la quale costituisce un provvedimento di secondo grado, preordinato alla conservazione di un precedente atto, per assicurarne, appunto, la “convalescenza”. Essa corregge gli errori e rettifica le imperfezioni. Il provvedimento di regolarizzazione scaturisce da un procedimento, identico a quello seguito per l'emanazione dell'atto viziato. La regolarizzazione ha funzione conservativa del contenuto essenziale dell'atto. Va chiarito, peraltro, che non tutti gli atti irregolari sono suscettibili di regolarizzazione; una tipologia di atti regolarizzabili è costituita da quelli di natura fiscale, i quali, in ogni modo, sono privi di effetto, fin quando non intervenga la “correzione” degli stessi.

Con diversa terminologia, per indicare l'eliminazione degli errori di un atto irregolare, si utilizza l'espressione “rettifica” 12. Si utilizza il meccanismo della rettifica, per operare il salvataggio del provvedimento irregolare, allorché manchi un congruo interesse pubblico, che giustifichi l'annullamento dell'atto in via di autotutela. Ciò presuppone che, almeno in via tendenziale, l'irregolarità sia ricondotta alla categoria dell'illegittimità del provvedimento (il profilo, peraltro, è controverso) 13.

L'interpretazione del provvedimento, come strumento di attuazione del principio conservativo.

Si presenta collegato con il tema della conservazione dell'atto amministrativo, quello dell'interpretazione del medesimo. L'opinione prevalente ritiene che all'atto amministrativo si applichi, con i dovuti adattamenti, la disciplina, prevista dal codice civile per i contratti. Le parti del provvedimento amministrativo vanno interpretate sistematicamente, tenendo nella dovuta considerazione l'intenzione dell'Autorità emanante, nonché la sua condotta, anche successiva all'emanazione del provvedimento (cfr. artt. 1362-1363 c.civ.). E' possibile che nell'atto siano utilizzate espressioni generali, ma esse si riferiscono solo agli oggetti, propri del medesimo (art. 1364 c. civ.) 14

In ogni modo, ai fini della nostra indagine assume maggiore rilievo la disposizione dell'art. 1367 cod. civ., secondo il quale, nel dubbio, il contratto e le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno . La disposizione è senz'altro applicabile alla materia dei provvedimenti amministrativi e costituisce una chiara esplicitazione del principio di conservazione. L'eventualità di una pluralità di possibili interpretazioni del contenuto di un atto è tutt'altro che remota, anche in materia di provvedimenti dell'Amministrazione. Si comprende che, in siffatte ipotesi, si dovrà propendere per l'interpretazione, che consenta di evitare la dispersione dell'attività amministrativa, attraverso l'attribuzione di effetti giuridici al provvedimento. Secondo un indirizzo giurisprudenziale, l'art. 1367 citato ha carattere sussidiario in relazione alla materia contrattuale 15. Tale conclusione non appare automaticamente estensibile, agli atti amministrativi, proprio perché in tale disposizione del codice civile è chiara l'enunciazione puntuale del principio di conservazione, di cui ci si sta occupando, secondo una tecnica di disciplina, affine a quella utilizzata dall'art. 156 c.p.c., sopra citato, in relazione agli atti processuali civili. L'art. 1367 c.civ. consente un allargamento degli effetti del provvedimento, oggetto d'interpretazione.

L'attività ermeneutica dei provvedimenti amministrativi può determinare anche un'ulteriore conseguenza, vale a dire la “ conversione ” dell'atto in un altro di tipo diverso, di cui presenti i requisiti di forma e di sostanza. Tale possibilità deriva da un'interpretazione estensiva della disciplina dell'art. 1424 c. civ, la quale si occupa della conversione del contratto nullo. Ciò presuppone siano attentamente vagliate le circostanze del caso concreto e, soprattutto, le finalità perseguite dall'Autorità amministrativa, che ha emanato l'atto. Nel caso in cui tale indagine porti a ritenere che, se l'Amministrazione avesse conosciuto la nullità dell'atto, avrebbe emanato un diverso provvedimento, sussistono i presupposti, per applicare il citato art. 1424 c.civ.. Si riscontra, anche in tale ipotesi, una chiara applicazione della regola della conservazione del provvedimento amministrativo.

La conversione va ammessa, secondo la costruzione prevalente, quando un provvedimento sia invalido, ove s'inquadri il medesimo all'interno di una certa tipologia, e, invece, possa considerarsi valido ed efficace, ove lo s'inquadri in un'altra tipologia. Può accadere che un atto sia invalido, come nomina in ruolo di un dipendente, e valido come attribuzione di un incarico temporaneo. Va osservato che la conversione del contratto, così come disciplinata dall'art. 1424 c.civ, ha come presupposto la nullità del medesimo, la quale è un'eventualità piuttosto frequente in diritto civile. In diritto amministrativo, invece, la nullità è un'ipotesi residuale, rispetto all'annullabilità, la quale rappresenta la manifestazione “ordinaria” d'invalidità del provvedimento. Per ragioni di coerenza logica, occorre ritenere che sia “convertibile” solo il provvedimento nullo o inesistente (ove si ammetta questa ancor più radicale ipotesi di invalidità), e non invece il provvedimento annullabile. La giurisprudenza tende a circoscrivere in questi termini l'ambito di applicazione del meccanismo descritto 16.

E, peraltro, legittima la domanda, se effettivamente possa concordarsi su una piena assimilazione fra la conversione disciplinata dall'art. 1424 c. civ. e quella sopra descritta, riguardante il provvedimento amministrativo: nella seconda ipotesi, infatti, il meccanismo appare più esattamente descrivibile come un'ipotesi d'interpretazione del provvedimento. E' noto che il nomen juris, attribuito dalle parti a un contratto, non è vincolante per il Magistrato, quanto all'individuazione della disciplina da applicare nella vicenda concreta, in applicazione del principio jura novit curia 17. Tale modo di procedere in sede giudiziaria appare estensibile anche alla diversa ipotesi di attribuzione a un provvedimento, da parte dell'Amministrazione emanante, di un nomen juris , incompatibile con la tipologia di effetti prodotti dal medesimo. Pertanto, il Giudice individuerà, sulla base degli effetti prodotti, il “tipo” di provvedimento e applicherà la normativa, a esso attinente, nonostante la diversità del nomen juris, attribuito dall'Amministrazione. Questa diversa descrizione del fenomeno appare condivisibile, in quanto riesce a percepire come la tematica in esame costituisca un problema, concernente la “qualificazione” da attribuire al provvedimento.

Riesame del provvedimento e principio conservativo.

L'esigenza di “conservare” un preesistente provvedimento amministrativo, difettoso in relazione a elementi non essenziali, appare, nella maggior parte dei casi, a seguito dell'esercizio, da parte dell'Amministrazione, dei poteri di “riesame”, di cui la medesima dispone. Essi hanno il fine di verificare la validità di preesistenti provvedimenti, o di fatti equipollenti (per es. silenzio significativo). L'esito del riesame è vario, in quanto il medesimo può portare alla constatazione della piena legittimità del provvedimento, o al riscontro di un'illegittimità sanabile o no.

L'assenza di vizi dell'atto riesaminato comporta la conferma del provvedimento. Va precisata la differenza fra conferma propria e atto confermativo 18. Quest'ultimo è una creazione giurisprudenziale, avente lo scopo di offrire adeguata protezione all'Amministrazione nei confronti dell'elusione, da parte dei privati, dell'inoppugnabilità del provvedimento, per decorso del termine d'impugnazione. Accade che privati, coinvolti in un procedimento, relativo a un provvedimento divenuto inoppugnabile, sollecitino il riesame del provvedimento, giustificando tale istanza con delle censure, relative al medesimo. Può verificarsi che l'Amministrazione risponda nel senso di non ritenere presenti fondate ragioni, che giustifichino il riesame dell'atto. E' proprio questa l'ipotesi dell'atto confermativo, il quale non ha natura provvedimentale. Non si ha conferma in senso proprio, in quanto non vi è un nuovo provvedimento, autonomamente impugnabile.

Può accadere, invece, che l'Amministrazione soddisfi l'istanza del privato, in ordine all'emanazione del provvedimento, attivando un procedimento di riesame. Nel corso di tale procedura, può riscontrarsi l'infondatezza delle censure, addotte dal privato, al fine di sollecitare il medesimo riesame. In tale ipotesi, l'Amministrazione emana un provvedimento di conferma in senso proprio dell'originario provvedimento. Quest'ultimo è il prodotto del riesercizio del potere e, pertanto, si sostituisce all'atto confermato, come fonte di disciplina del rapporto.

Un'ulteriore riflessione sulla questione consente, peraltro, di osservare che, anche quando l'Amministrazione realizzi un atto meramente confermativo, non provvedimentale, essa procede a una sia pur sommaria delibazione, in ordine alla legittimità del precedente provvedimento. Pertanto, anche se sul piano teorico la differenza tra atto meramente confermativo e provvedimento di conferma in senso stretto appare agevole, non sempre in concreto la medesima è immediatamente percepibile. In ogni modo, la diversità tra le due ipotesi dipende dall'intensità del riesame compiuto dall'Amministrazione. La difficile risoluzione dei casi concreti, riguardo alla questione, spiega per quali ragioni spesso i Giudici amministrativi debbano risolvere, in via preliminare, il problema della natura meramente confermativa dell'atto impugnato. L'indagine consiste nel verificare se l'atto oggetto d'impugnazione sia il prodotto di un nuovo e autonomo procedimento amministrativo, e quindi abbia natura provvedimentale, o se consista semplicemente in un atto confermativo della piena legittimità dell'originario provvedimento. In tale ultima eventualità, il Giudice costaterà la non autonoma impugnabilità dell'atto meramente confermativo.

Nell'ambito dei provvedimenti, costituenti applicazione del principio di conservazione, rientra anche la convalida, la quale costituisce l'esito di un procedimento di riesame a contenuto conservativo 19. Tale procedura può essere attuata o dalla medesima Autorità, la quale ha dato origine al provvedimento, o dall'Amministrazione gerarchicamente superiore. Si tratta di ipotesi, in cui un provvedimento di primo grado è affetto da un vizio, rimosso dall'Amministrazione, in quanto la medesima prende atto dell'esistenza del vizio e manifesta l'intento di rimuoverlo.

Si comprende che il vizio dev'essere per sua natura rimovibile; pertanto, non potrà convalidarsi un provvedimento nullo, ma dovrà trattarsi di una patologia, che comporta annullabilità. La convalida si denomina “ratifica”, qualora il vizio, che inficia il provvedimento di primo grado, sia l'incompetenza e l'Autorità effettivamente competente, con un provvedimento di secondo grado, fa proprio l'atto emanato dall'organo incompetente, rendendolo pienamente valido, con effetto retroattivo. E‘ utilizzata l'espressione “ratifica”, anche qualora, in caso di urgenza, un organo emani un provvedimento, il quale ordinariamente rientra nella competenza di altro organo. Quest'ultimo, ratificando tale atto, rende permanente la sua legittimità.

Dalla convalida differisce la sanatoria, la quale sussiste quando manca un atto endoprocedimentale, nel corso del procedimento, da cui è scaturito il provvedimento. Tale atto endoprocedimentale, di regola, va emanato da un'Autorità diversa, da quella, che ha realizzato il provvedimento impugnato. In tali ipotesi, si riscontra un intervento tardivo dell'organo competente ad emanare l'atto endoprocedimentale, il quale, pertanto, è posto in essere dopo la conclusione del procedimento. La giurisprudenza ammette quest'eventuale intervento, successivo alla conclusione del procedimento, per accertamenti tecnici, proposte, atti d'assenso, istanze di privati. La posizione della giurisprudenza è diversa per quanto riguarda i pareri, i quali devono essere dati prima della conclusione del procedimento, in ragione della loro rilevanza sul contenuto del provvedimento finale. Appare chiaro come sarebbe del tutto privo di utilità e di ragionevolezza consentire la sanatoria attraverso un parere, specialmente se obbligatorio o addirittura vincolante, fornito dopo l'emanazione del provvedimento, cui il parere medesimo si riferisce.

La convalida e i provvedimenti a essa assimilabili si pongono come alternativa all'annullamento d'ufficio e mirano a prevenire l'annullamento giurisdizionale. La tendenza, che emerge, è quella di preferire lo strumento conservativo, rispetto al provvedimento caducatorio, a meno che un puntuale interesse pubblico, distinto e autonomo rispetto a quello al ripristino della legalità, renda necessario provvedere alla caducazione dell'atto amministrativo. Pertanto, il principio di conservazione assume una posizione di preminenza, rispetto all'esigenza di eliminazione degli atti viziati. E' sempre l'esigenza della conservazione del provvedimento e della non dispersione dell'attività amministrativa, a determinare la retroattività del provvedimento di convalida e di quelli a esso assimilabili (sanatoria, ratifica etc.), anche se occorre tenere adeguatamente conto dell'eventuale incidenza sfavorevole dell'atto convalidato, rispetto a posizioni soggettive acquisite da terzi, anteriormente all'emanazione del provvedimento di convalida. Proprio lo scopo di tutelare siffatte posizioni, potrà eventualmente suggerire, nel caso concreto, un'attenuazione del carattere retroattivo dei provvedimenti conservativi.

Altre manifestazioni della tendenza alla conservazione dei provvedimenti emergono, ove si ponga mente agli istituti dell'inoppugnabilità e dell'acquiescenza.

Si ha inoppugnabilità, quando siano decorsi i termini per impugnare un atto. Esigenze di certezza dei rapporti giuridici richiedono che la condizione di astratta impugnabilità di un atto non si protragga oltre un certo tempo; ciò spiega la previsione dei termini di decadenza dall'impugnazione. Si ha acquiescenza, quando, prima del decorso del termine per impugnare, l'interessato manifesti in modo esplicito la volontà di non contestare il provvedimento, o tale intenzione emerga da fatti concludenti. Si consideri che, secondo la giurisprudenza, l'acquiescenza non è desumibile dalla mera ottemperanza al provvedimento da parte del privato, titolare del diritto di impugnazione. Ciò è affermato, in particolare modo, ove tale ottemperanza sia in concreto suggerita dal timore di conseguenze negative o dalla fruizione degli effetti positivi del provvedimento. L'acquiescenza impedisce l'azione processuale, pur derivando da comportamenti anteriori al processo 20. Un ulteriore profilo del principio di conservazione riguarda le ipotesi in cui, pur essendosi verificate delle violazioni di regole procedimentali, si rileva che, in concreto, il rigido rispetto delle medesime non avrebbe comportato un esito differente, riguardo alla determinazione del contenuto del provvedimento. Un chiaro esempio di questa manifestazione dell'esigenza conservativa rileva nella mancata comunicazione dell'avvio di un procedimento, quando sia stato egualmente raggiunto lo scopo istituzionale, cui quel procedimento è strumentale.

Si supponga che l'avente diritto alla comunicazione pervenga, per altra via, alla conoscenza dell'avvio del procedimento. E' agevole riflettere sulle conseguenze deleterie, derivanti da una duplicazione dell'attività amministrativa, la quale diverrebbe inevitabile, ove si ritenesse necessaria una “rituale” comunicazione dell'avvio del procedimento. Perché possa applicarsi il principio conservativo, occorre che l'avente diritto alla comunicazione venga a conoscenza, quantomeno, dell'Autorità procedente e dell'oggetto del procedimento amministrativo.

Può aggiungersi che l'esigenza conservativa si comprende, ove si rifletta sul fatto che la comunicazione de qua rappresenta il presupposto formale, necessario a consentire la partecipazione dei soggetti interessati. Ove i medesimi interessati possano, nel caso concreto, partecipare egualmente alla procedura, non sussistono valide ragioni, per giustificare l'utilizzo di sanzioni per la violazione dell'obbligo di comunicazione.

L'omessa comunicazione comporta una forma d'invalidità di tipo relativo, la quale può esser fatta valere soltanto dall'interessato, in quanto l'obbligo in esame è posto esclusivamente a tutela della sua sfera giuridica. da tale invalidità può derivare l'invalidità del provvedimento finale, per violazione di legge. 21

In termini generali, già prima della legge 15-2005, si rileva come, secondo un orientamento giurisprudenziale, occorre propendere per il “salvataggio” del procedimento, nelle ipotesi in cui, attraverso la c.d. ”prova di resistenza”, si accerti che lo scopo del procedimento è stato raggiunto, senza che la violazione delle norme procedimentali eserciti alcuna influenza in ordine a tale scopo.

Emerge una tendenza giurisprudenziale, la quale può considerarsi esito di un'applicazione del principio conservativo, la quale mira alla conservazione del provvedimento quando esso, nonostante il vizio da cui è affetto, riesce egualmente a realizzare l'interesse pubblico, in relazione al quale è stato emanato, o, in ogni caso, produce effetti apprezzabili. Può accadere che il vizio riguardi solo una parte del provvedimento, in tale ipotesi, l'invalidità parziale non travolge la parte del provvedimento valida.

E' controverso se la mancata comunicazione di avvio del procedimento intacchi o no la validità del provvedimento finale, ove si tratti di una procedura vincolata. Sembra persuasivo aderire all'opinione intermedia, in base alla quale occorre valutare se, nella vicenda concreta, la normativa, da cui scaturisce la procedura vincolata, sia suscettibile di diverse interpretazioni e la partecipazione del privato al procedimento possa dare un contributo più o meno incisivo, in relazione alla esegesi di tale disciplina. la comunicazione, ove si verifichino in concreto i suddetti presupposti, andrà effettuata, nonostante la natura vincolata del procedimento.

Va, inoltre, rilevato che l'assenza della comunicazione di avvio del procedimento non comporta alcuna conseguenza, qualora aliunde il privato abbia ottenuto una conoscenza dell'avvio della procedura, con riferimento, quantomeno, all'oggetto e all'autorità emanante.

Si è elaborata la nozione di “prova di resistenza”, in base alla quale occorre porsi la domanda se l'eventuale apporto conoscitivo del privato, escluso dalla partecipazione al procedimento, avrebbe potuto comportare, in tutto o in parte, una diversità di contenuto del provvedimento finale.

Effetti della legge 15-2005 sul principio di conservazione.

L'incidenza in concreto del principio di conservazione, alla luce della legge 15-2005, di riforma della legge 241, appare chiaramente aumentata d'intensità, attraverso una serie di disposizioni e princìpi, introdotti da tale disciplina.

Può aggiungersi che proprio tale legge costituisce il punto d'arrivo di un'inversione di tendenza, rispetto a un'iniziale, rigido formalismo, nell'interpretazione delle disposizioni di diritto pubblico. Nel secolo XIX, le medesime disposizioni sono considerate inderogabili, in quanto contenenti una disciplina, attinente all'ordine pubblico. L'illegittimità del provvedimento, derivante dalla violazione di norme imperative, costituisce, pertanto, la regola. Residuano casi di disposizioni, la cui violazione comporta solo lievi imperfezioni del provvedimento, tali da comportare una mera irregolarità (su tale nozione, vedi sopra) del medesimo. E' agevole osservare come, in siffatta situazione, il criterio teleologico, come base per evitare un'eccessiva dispersione dell'attività amministrativa, svolga un ruolo del tutto marginale.

Intorno alla fine del secolo XIX, si diffonde un'opinione, la quale contesta l'anzidetta presa di posizione, ritenendo non costruttivo mettere da parte in modo così evidente il criterio del raggiungimento dello scopo, per aderire a un vuoto ed eccessivo formalismo. Occorre, secondo tale costruzione, configurare l'illegittimità del provvedimento amministrativo, solo ove il difetto del medesimo pregiudichi il conseguimento dello scopo, cui esso è istituzionalmente preordinato.

Si creano i presupposti per passare da un approccio “formalista” a un approccio “sostanzialista”. E' superfluo sanzionare con l'invalidità il difetto di forma, ove sia rispettata, attraverso il conseguimento della finalità istituzionale del provvedimento, la ratio delle disposizioni, da applicare al caso concreto. Aumenta il numero di ipotesi, in cui si applica il principio di conservazione del provvedimento amministrativo, percependosi come prioritaria l'esigenza di realizzare gli interessi, cui sono direttamente collegati i provvedimenti, che abbiano conseguito il fine normativamente predeterminato.

L'imperfezione formale può riguardare un mero adempimento procedurale, inutile alla finalità del provvedimento. Il Consiglio di Stato, Sez. V., 2823-2001 insegna che il rispetto dell'obbligo di comunicazione d'avvio del procedimento è superfluo, ove l'adozione del provvedimento sia doverosa, oltre che vincolata, e la situazione di fatto sia in concreto predeterminata in modo non equivoco. Il Consiglio di Stato, Sez V, 11 novembre 2004 n° 7324, afferma altresì, che, ove in una procedura di gara l'interessato presenti una documentazione insufficiente, l'Amministrazione può disporre la regolarizzazione, attraverso la presentazione di una documentazione aggiuntiva, da parte del ricorrente. Ciò, peraltro, può essere consentito, purché non sia leso il principio della par condicio tra i concorrenti e l'integrazione della documentazione riguardi elementi non essenziali della domanda.

Non sono mancate, fra gli interpreti, voci ”controcorrente”, rispetto a un accoglimento, prevalentemente favorevole, del maggiore risalto, assunto dalle esigenze di continuità e conservazione del provvedimento amministrativo, attraverso la disciplina, introdotta dalla legge 15.2005. Più in particolare, si è affermato che “ resta da chiedersi quanto “forma” e “sostanza” di un atto amministrativo possono dirsi a tal punto scissi, laddove si noti che il “principio di tipicità” degli atti amministrativi si riflette non solo su profili sostanziali (presupposti, soggetti, destinatari) ma anche procedimentali (onde preservare legalità e posizioni giuridiche soggettive); ragion per cui è sicuramente necessario affermare che è regula juris inderogabile la necessità che la P.A. proceda sempre come disposto dalla legge. Regola che vale (e deve valere) anche per atti sostanzialmente legittimi, pur non formalmente esatti” 22. L'osservazione è suscettibile di obiezioni, laddove, se si è compreso bene il pensiero dell'Autore, tende a identificare la piena realizzazione del principio di buon andamento dell'azione amministrativa nel rispetto di un rigido formalismo. Con ciò non s'intende affermare che l'efficienza dell'attività amministrativa si ponga in antitesi con il rispetto delle “forme”, legislativamente previste, per i vari “tipi” di provvedimento. Ciò che s'intende porre in rilievo è che, quando l'Amministrazione “provveda” in maniera non ineccepibile, quanto al rispetto della “forma esteriore” del provvedimento, e questo vizio, concernente la veste esteriore dell'atto derivi da circostanze, esterne alla volontà dell'Amministrazione, eventualmente derivanti da difetti organizzativi, il buon andamento dell'azione amministrativa sarebbe compromesso proprio dall'esigenza di reiterare la medesima, pur non essendo intaccata la “sostanza” del provvedimento viziato. Può aggiungersi che il rispetto del principio di buon andamento dell'azione amministrativa è prioritario, rispetto alla rigida applicazione della disciplina della “veste esteriore” dei vari “tipi” di provvedimento, in quanto il primo è espressamente contemplato nella Costituzione (art. 97), la seconda nella legge ordinaria; pertanto, la priorità del buon andamento è conseguenza immediata e diretta del principio di gerarchia delle fonti.

Disciplina della nullità del provvedimento.

Va preliminarmente precisato che, ancorché prima della recente riforma della legge 241, fosse assente una normativa di portata generale, relativa alla nullità del provvedimento amministrativo, la categoria in questione non era totalmente ignota al Legislatore precedente, in quanto era chiaramente avvertita l'inadeguatezza dell'annullabilità, al fine di sanzionare le ipotesi più gravi di patologia del provvedimento 23.

In ogni modo, con la legge 15-2005 è formulata una disciplina generale della nullità del provvedimento (art. 21- septies ). Occorre valutare la compatibilità della nuova disciplina con l'opinione, che ammette la sanatoria del provvedimento nullo, attraverso l'eliminazione del vizio, da cui il medesimo provvedimento è affetto. Aderire a quest'impostazione comporta un radicale allontanamento dai princìpi del diritto civile, il quale non consente la sanatoria del contratto nullo, salve talune eccezioni.

Ammettere l'espansione del principio conservativo, fino a consentire il superamento della nullità di un provvedimento amministrativo, attraverso lo strumento della sanatoria, può, peraltro, dare luogo a talune obiezioni, derivanti, in particolare, proprio dalla formulazione della disciplina della nullità, introdotta dall'art. 21- septies della legge 15-2005. La disposizione citata sembra circoscrivere l'ambito di applicazione del vizio di nullità a ipotesi, particolarmente gravi, previste espressamente dal legislatore (nullità testuale), le quali, in passato, erano tendenzialmente inglobate nel concetto di inesistenza (v. infra ). Le obiezioni, in astratto configurabili, quanto all'applicazione del principio conservativo, alle ipotesi di nullità, contemplate dall'art. 21- septies, perdono rilievo, ove si osservi che l'intento essenziale del Legislatore del 2005 è quello di garantire l'efficienza e la celerità dell'azione amministrativa.

In siffatto contesto di disciplina, residua poco spazio per la nullità “virtuale”, vale a dire non espressamente prevista dal testo di legge, la quale si riscontra, quando tale sanzione sia applicata a casi, in cui vi sia violazione di una disposizione inderogabile, pur non essendo prevista in modo espresso dalla legge la sanzione della nullità. Più in particolare, il Legislatore, nell'art. 21- septies , definisce come nullo il provvedimento amministrativo, che manca degli elementi essenziali (c.d. “nullità strutturale”). Si evince agevolmente il tentativo di mutuare le categorie giuridiche del diritto civile (cfr. artt. 1325 e 1418). Può, peraltro, osservarsi che sarebbe necessario chiarire in modo esplicito, attraversa un'opportuna integrazione della normativa, quali sono, in concreto, i requisiti essenziali dell'atto, in quanto quelli ricostruiti dalla dottrina (soggetto, oggetto, forma, causa) costituiscono ipotesi di scuola 24.

Come ipotesi di patologia di un provvedimento per mancanza di elementi essenziali possono, a titolo di esempio, citarsi la violenza fisica e la mancata verbalizzazione di una deliberazione collegiale, etc..

La disciplina dell'articolo in commento è completata con la menzione, tra le cause di nullità, del difetto assoluto di attribuzione e del contrasto del provvedimento con un preesistente giudicato . Il difetto assoluto di attribuzione si riferisce alla c.d. “carenza di potere in astratto”, vale a dire all'ipotesi, in cui, l'Autorità emanante si sia occupata di una materia riservata dalla legge ad altra Autorità, o abbia agito in un settore, del tutto sganciato dalla sua sfera di attribuzioni (si pensi a una laurea in giurisprudenza, attribuita da una Facoltà d'ingegneria). Accedendo a tale ricostruzione dell'espressione “difetto assoluto di attribuzione”, resta al di fuori di essa la c.d. “carenza di potere in concreto”, la quale presuppone che, nel caso specifico, manchi uno dei presupposti per l'emanazione del provvedimento amministrativo.

Può affermarsi che le ipotesi adesso menzionate di nullità, in conformità al disposto dell'art. 21- septies, consentano l'applicazione del principio conservativo, in quanto espressione di nullità del provvedimento, la quale può, inoltre, aversi nelle ulteriori ipotesi, espressamente previste dalla legge.

La violazione o elusione del giudicato (lett. c), art. 21- septies ) comporta l'attribuzione della giurisdizione esclusiva al Giudice amministrativo. La prescrizione in esame presuppone l'esigenza di coordinare il rimedio, introdotto dalla legge 15-2005, con il preesistente giudizio di ottemperanza e lascia insoluta la questione se, quando si eluda o violi il giudicato, il Giudice amministrativo possa esaminare anche il merito della fattispecie. ll principio conservativo, secondo l'opinione qui sostenuta, potrà applicarsi anche in questa ipotesi, ove, nel corso del giudizio, l'Amministrazione dimostri inequivocabilmente di voler sanare il vizio del provvedimento impugnato, eventualmente ristorando il pregiudizio subito dai privati interessati. Resta, altresì, l'interrogativo se l'espressione debba riferirsi solo al giudicato del Giudice amministrativo, o anche a quello del Giudice ordinario Su tale questione sarebbe stata opportuna un'esplicita presa di posizione del Legislatore.

La ricognizione della sopra richiamata disciplina fa comprendere come essa attribuisca notevole peso alle nullità strutturali (derivanti dall'assenza di un elemento essenziale del provvedimento) e riqualifichi in termini di nullità talune ipotesi (difetto assoluto di attribuzione ed elusione o violazione del giudicato), le quali precedentemente sono state interpretate dalla dottrina in termini di “ inesistenza ”. L'art. 21- septies contiene , altresì , un espresso rinvio alla nullità testuale, in quanto l'applicazione della sanzione in oggetto è prevista anche nelle ulteriori ipotesi, previste dalla legge .

Resta da domandarsi se la violazione di norme imperative, non accompagnate da correlativa sanzione, possa comportare nullità, in conformità a quanto disposto dall'art. 1418 c.civ.. Ciò sembra contraddire la considerazione, in base alla quale la violazione di legge è qualificata dall'ordinamento come causa di annullabilità del provvedimento amministrativo, a tutela della stabilità del medesimo. Appare non condivisibile l'opinione, in base alla quale occorrerebbe distinguere fra disposizioni imperative dotate di una cogenza “maggiore”, alla cui violazione si adatterebbe solo la previsione della nullità, e norme imperative, dotate di una cogenza “minore”, che possono essere assistite dalla mera annullabilità del provvedimento amministrativo. In altri termini, non sembra sussistano argomenti decisivi per configurare, in diritto amministrativo, la distinzione fra norme imperative d'azione, sanzionate indefettibilmente con la nullità, e norme imperative di relazione, assistite dalla sanzione dell'annullabilità. Manca un fondamento normativo di tale distinzione 25.

Un'applicazione del principio conservativo, coerente con la disciplina introdotta dall'art. 21- septies , implica l'esigenza di considerare cause di mera annullabilità tutte le ipotesi di violazione di norme imperative, per le quali non sia espressamente comminata la sanzione della nullità, con un evidente allontanamento dalla prospettiva del diritto civile, in cui è accolto il principio della nullità “virtuale” (cfr. art. 1418 1° c. cod. civ.).

Dalla legge 15-2005 sembra emergere la tendenza a circoscrivere le ipotesi di nullità ai soli casi, previsti dalla legge, al fine di non dilatare eccessivamente l'utilizzo di tale sanzione, anche per la sua radicalità. Appare, pertanto, rispettata l'esigenza di evitare la dispersione dell'attività amministrativa, quando sia conseguito il fine “istituzionale” della medesima.

Ci si può domandare se la nullità possa essere rilevata d'ufficio dal Giudice amministrativo, interpretando analogicamente la disciplina, prevista per i contratti, dal codice civile (art. 1421) 26. Occorre rifiutare l'applicazione, per affinità di materia, anche alla luce della sentenza della Cassazione del Marzo 2005, n° 6170 (cfr. nota 23), del principio, sostenuto dalla giurisprudenza civile maggioritaria, per il quale la nullità è rilevabile d'ufficio, solo ove si agisca per far valere diritti, che presuppongono la validità del contratto, mentre il rilievo d'ufficio della nullità sarebbe privo di validità nelle ipotesi in cui si facciano valere altri vizi. Questa conclusione è suffragata, ove si osservi che ordinariamente nel giudizio amministrativo si agisce per far valere l'annullabilità dell'atto amministrativo, e sovente in via pregiudiziale è necessario che il Giudice agisca per far valere la nullità.

La “preferenza” per l'annullabilità, rispetto alla nullità, quale ipotesi “tipica” di patologia del provvedimento viziato, è conforme a una tendenza dell'ordinamento, orientata alla valorizzazione del principio conservativo, in quanto l'annullabilità, di per sé, comporta conseguenze meno radicali, in ordine all'efficacia dell'atto viziato, il quale, sia pure in via precaria a causa del suo “difetto”, spiega effetti all'esterno, fin quando non intervenga l'eventuale pronunzia giurisdizionale di caducazione. Può aggiungersi, peraltro, che l'annullabilità è sanzione inadeguata per i casi più gravi di patologia del provvedimento amministrativo, e di tale inadeguatezza si è fatto carico il Legislatore, completando il sistema di tutela, integrando la tutela giudiziale, concernente la validità dell'atto, con una tutela di tipo risarcitorio e di spettanza del bene della vita. Si consideri che, anche sotto il profilo della mera questione d'illegittimità dell'atto, la mera annullabilità è risultata invalida, tanto che la giurisprudenza (cfr. Ad. Plenaria, Consiglio di Stato 26 Marzo n° 4-2003) 27 ha affermato che deve utilizzarsi lo strumento della disapplicazione nei confronti dei regolamenti illegittimi, pur non tempestivamente impugnati. Tale meccanismo si giustifica, in conformità a un'applicazione del fondamentale principio di gerarchia delle fonti, che implica la prevalenza della legge sul regolamento, con essa configgente.

La legge 15-2005 tiene conto dell'esigenza di graduare i casi d'invalidità, con la previsione della nullità per le ipotesi più gravi (art. 21- septies cfr . infra) e di un'annullabilità sanabile, per i vizi di mera forma.

Si aggiunga che costituisce applicazione del principio conservativo anche il “salvataggio” dei provvedimenti amministrativi, affetti da nullità testuale, attraverso una loro sanatoria, derivante dalla rimozione del vizio dell'atto.

Disciplina dell'annullabilità (art. 21- octies) La legge 15-2005, recepisce l'esigenza di semplificare l'attività amministrativa, e ciò comporta la messa in discussione della priorità del rispetto delle disposizioni, che impongono determinati vincoli di forma e procedimentali. E' intuibile l'antitesi logica che, in varie vicende concrete, può porsi fra l'esigenza di evitare la violazione di disposizioni, contemplanti prescrizioni formali, aventi la funzione di consentire che l'attività amministrativa sia svolta in modo “ortodosso”, e la priorità, da attribuire all'efficienza dell'azione amministrativa, la quale, nella maggior parte dei casi, implica speditezza e continuità della medesima.

Da questa prima antitesi si sviluppa l'ulteriore dialettica fra due contrapposte correnti di pensiero. Secondo una prima opinione, la quale prende le mosse da un'interpretazione assai rigorosa del principio di legalità, il conseguimento dello scopo istituzionale del provvedimento finale non può legittimare un procedimento lacunoso e viziato, in quanto “non si deve porre alcuna antitesi fra legittimità formale e legittimità materiale” 28.

Una seconda opinione, “avallata” dall'art. 21- octies , ritiene di poter “misurare” l'incidenza dei vizi formali, in relazione al contenuto del provvedimento e al risultato raggiunto. Da questo contesto di pensiero si sviluppa una “dequotazione” dei vizi formali e procedurali 29.

Come già rilevato, l'attuale disciplina dell'art. 21- octies , aderisce a tale orientamento, attraverso la previsione della non annullabilità del provvedimento vincolato, ove sussistano vizi di forma e di procedura, ma sia stato egualmente raggiunto lo scopo del medesimo. La disciplina in commento presenta rilevanti affinità (ma anche importanti diversità) con quella contenuta nel par. 46 della legge tedesca sul procedimento, il cui testo, in una prima stesura (risalente al 1976) disponeva che, a parte le ipotesi di nullità del provvedimento, per la presenza di vizi formali o sostanziali, che lo rendevano inidoneo allo scopo , era da escludersi l'annullamento, per violazioni relative alla forma, al procedimento e alla competenza territoriale, ove non sarebbe stato possibile attuare una diversa decisione. Nel 1996 il Legislatore tedesco ha riscritto il testo del par. 46 in questione, il quale attualmente stabilisce che l'annullamento del provvedimento (…) non può esser preteso, per la semplice violazione di prescrizioni procedimentali, formali, e sulla competenza territoriale, allorquando risulti evidente che tale violazione non ha sostanzialmente influito sulla decisione amministrativa finale.

All'interprete appare chiara l'affinità fra la disciplina tedesca e la nuova disciplina italiana, anche se permangono differenze di non poco conto: infatti, la disciplina tedesca affianca la previsione della non annullabilità, con l'utilizzo di sanzioni alternative, di carattere specifico, aventi come fine precipuo la rimozione del vizio, in modo da ripristinare il rispetto della disciplina violata. Vi è, pertanto, nella legislazione tedesca, un'integrazione e armonizzazione fra l'esigenza del rispetto delle prescrizioni meramente formali e l'esigenza di assicurare la continuità e conservazione dell'attività amministrativa. Tali pregi non si riscontrano nella disciplina dell'art. 21- octies , il quale non sovrappone all'assenza di annullabilità sanzioni sostitutive, né di tipo risarcitorio, né di tipo ripristinatorio, ed è in tal senso una normativa perfettibile, in quanto ostacola un rispetto totale del principio di legalità, consentendo che si cristallizzino le violazioni di regole formali da parte dell'Amministrazione, non seguite da un pregiudizio, relativo allo scopo istituzionale del provvedimento.

Può aggiungersi che, attualmente, l'art. 46 della legge tedesca sul procedimento, consente all'interprete di effettuare un giudizio prognostico, in relazione all'incidenza del vizio di forma del provvedimento sul contenuto sostanziale del medesimo. Secondo una condivisibile interpretazione della disciplina in questione, il Giudice amministrativo, nel diritto tedesco, può formulare tale giudizio prognostico non solo in ipotesi di attività amministrativa vincolata, vale a dire allorché non vi è alcuna alternativa giuridica, rispetto all'adozione di un provvedimento di un certo tipo, con un certo contenuto, ma anche in casi di attività discrezionale ove, di fatto, la procedura sia suscettibile di essere legittimamente conclusa, attraverso provvedimenti dal contenuto diverso.

L'adesione a tale interpretazione comporta l'applicabilità della legge tedesca sulla non annullabilità dei provvedimenti con vizi formali, non incidenti sullo scopo, anche alle ipotesi, in cui vi sia discrezionalità nell'azione amministrativa, mentre l'art. 21- octies ha un'applicazione limitata ai soli provvedimenti vincolati. 30

In termini più generali, va osservato che la disciplina dell'art. 21- octies , orientata nel senso di una “dequotazione” dei vizi meramente formali, si allinea ad una tecnica di disciplina, consolidata in quasi tutti gli ordinamenti continentali, i quali, pertanto, sono propensi a interpretare in termini “pragmatici” il principio di legalità. Può osservarsi, inoltre, che nel diritto comunitario la rilevazione del vizio di mera forma è limitata solo all'ambito dell'attività vincolata (in piena consonanza con l'attuale disciplina, vigente in Italia), mentre il legislatore tedesco riconosce al Giudice la possibilità di un sindacato sulla discrezionalità tecnica , consentendo così l'individuazione di vizi formali, anche in ipotesi, in cui l'attività amministrativa non sia rigidamente vincolata.

La legge 15-2005, dopo aver elencato i tre gruppi d'ipotesi di annullabilità del provvedimento amministrativo (eccesso di potere, violazione di legge, incompetenza; cfr. 1° c. art. 21- octies) introduce una sanatoria dei vizi provvedimentali di mera forma (2° c., art. 21- octies, il quale, in sostanza, costituisce una deroga al 1°), purché i medesimi non intacchino la finalità perseguita dall'atto amministrativo, nel senso che lo scopo, istituzionalmente collegato al medesimo) appare realizzato in maniera adeguata, nonostante la presenza del vizio di forma. Ciò significa che, anche ove il vizio formale fosse stato assente, le conseguenze giuridiche, derivanti dal provvedimento non sarebbero state diverse.

Va precisato che la disciplina adesso ricordata (art. 21 octies, 2 c.) si applica solo nelle ipotesi in cui il provvedimento abbia natura vincolata e che è la medesima Autorità amministrativa a dover dimostrare che il provvedimento finale ha raggiunto il suo scopo, nonostante la presenza nel corso del procedimento del vizio di forma o procedimentale. L'art. 21 octies , pertanto, ridimensiona fortemente l'importanza del vizio formale. Può ritenersi che tale disposizione faccia degradare il difetto di forma da vizio di legittimità a mera irregolarità del provvedimento, oppure, più persuasivamente, che esso lo renda un'ipotesi d'illegittimità, non sanzionata con l'annullabilità.

Una più agevole interpretazione della disposizione in commento può ottenersi, riflettendo sul fatto che la formulazione originaria dell'art. 21- octies (originariamente, art. 21- sexies) , poi modificata, si basava sulla distinzione fra norme imperative e norme dispositive. Il Legislatore, in questa prima fase, sempre in conformità all'esigenza di non paralizzare l'azione amministrativa, limitava l'applicazione dell'annullabilità alla sola violazione di disposizioni imperative. La scelta si poneva in contraddizione con la prevalente idea, in conformità alla quale le disposizioni sull'azione amministrativa sono, per definizione, imperative, a parte le ipotesi di espressa derogabilità delle medesime. Tale implicita “rilettura” del concetto di imperatività avrebbe dato luogo a problemi interpretativi di non poco rilievo; per questo, si è ritenuto opportuno provvedere a una revisione della disposizione, eliminando il riferimento alle disposizioni imperative.

La ratio dell'art. 21- octies si spiega, osservando che l'atto amministrativo, nonostante l'imperfezione della sua veste esteriore, è idoneo a sostanziare l'interesse pubblico, che l'Amministrazione è chiamata a tutelare. Costituisce ulteriore applicazione del principio in esame la disciplina, introdotta dall'ultima parte dell'art. 21- octies , in conformità alla quale dalla mancata comunicazione di avvio del procedimento, in una delle ipotesi in cui non è prevista una deroga normativa a tale obbligo, non scaturisce nullità del provvedimento finale, ove l'Amministrazione dimostri che il contenuto del medesimo sarebbe stato identico, nonostante l'effettuazione della comunicazione. La disposizione, peraltro, non chiarisce quali siano le modalità, attraverso cui l'Amministrazione è tenuta a fornire la dimostrazione della non decisività dell'omessa comunicazione, in relazione al conseguimento dello scopo del provvedimento. Va precisato che la sopra ricordata disciplina, attinente all'omessa comunicazione, va applicata anche ai provvedimenti discrezionali. Questa norma comporta un'applicazione del principio conservativo ancora più ampia, rispetto alla disciplina della sanatoria dei vizi di forma, contemplata nel medesimo art. 21- octies, e circoscritta ai soli provvedimenti vincolati.

La nuova disposizione avalla e recepisce il preesistente orientamento giurisprudenziale, in conformità al quale, secondo la regola del raggiungimento dello scopo, l'omessa comunicazione non inficia l'atto, non solo ove il privato abbia avuto egualmente conoscenza dell'avvio della procedura e/o vi abbia partecipato, ma anche ove sia verificabile che il procedimento, nonostante l'omessa comunicazione, abbia ugualmente raggiunto il suo scopo, senza differenze sostanziali, rispetto all'ipotesi, in cui la comunicazione fosse effettivamente giunta al destinatario. La disposizione in commento, peraltro, suscita perplessità, quanto al rispetto del principio di uguaglianza formale (art. 3 Cost.), in quanto comporta l'applicazione del principio conservativo, in ipotesi di provvedimenti non vincolati, al solo vizio di omessa comunicazione dell'avvio della procedura, determinando una disparità di trattamento, rispetto agli altri vizi formali e procedurali, difficilmente spiegabile nell'ottica del principio di ragionevolezza.

Si ritiene che la c.d. “prova di resistenza”, vale a dire la dimostrazione da parte dell'amministrazione del fatto che l'atto avrebbe raggiunto il suo scopo, nonostante la presenza del vizio di forma e/o dell'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, vada fornita dall'Amministrazione in sede processuale, nel giudizio sorto a seguito dell'impugnazione del provvedimento viziato. La prova, fornita dalla P.A., tramite la sua attività difensiva nel corso del giudizio, consentirà un salvataggio dell'attività procedimentale e provvedimentale compiuta, come esito dell'applicazione del principio conservativo.

Occorre, altresì, rilevare come la disciplina dell'art. 21- octies si riferisca essenzialmente agli atti endoprocedimentali, piuttosto che al provvedimento finale. Ciò è un'ulteriore dimostrazione della progressiva acquisizione di centralità del “procedimento”, rispetto al “provvedimento”, anche all'interno di una disciplina, quale quella della disposizione in commento, essenzialmente orientata alla regolamentazione dei vizi del provvedimento.

La disciplina dell'art. 21- octies , nella parte in cui prevede la sanatoria dei vizi formali, in conformità al criterio del raggiungimento dello scopo, può far suscitare dei dubbi di compatibilità con la Costituzione , dalla quale emerge come prioritaria la necessità di proteggere adeguatamente i privati nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione, “senza esclusioni o limitazioni a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti” (art. 113 2 c.) . Tale intento si comprende agevolmente, ove si rifletta sul contenuto degli artt. 103 e 113 Cost., i quali assicurano ai privati la tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione. Tale sistema di tutela si è sovrapposto, rispetto al precedente assetto, in cui era necessario che il cittadino esperisse i rimedi amministrativi, presso organi della Pubblica amministrazione, gerarchicamente sovraordinati, rispetto all'Autorità emanante il provvedimento, e solo successivamente poteva rivolgersi all'Autorità giudiziaria.

Il “sistema”, adesso descritto, si basa su un presupposto chiaro: ogni pregiudizio, subìto da un privato, attraverso un'attività illegittima, compiuta da una Pubblica amministrazione, dev'essere adeguatamente sanzionato. E' noto che l'annullabilità costituisce la sanzione più frequentemente adoperata, per l'ipotesi di patologia del provvedimento.

In astratto, può affermarsi vi sia un pieno rispetto del dettato costituzionale, solo ove la rinunzia all'applicazione di una sanzione comporti l'utilizzo di una sanzione sostitutiva, in grado di assicurare al privato un'adeguata protezione della sfera giuridica dei privati, pregiudicati dal provvedimento, affetto da vizio formale. Il Legislatore del 2005 sembra costruire la disciplina dell'art. 21- octies sull'idea-base, per la quale un effettivo pregiudizio per il privato si configuri, solo ove il provvedimento, a lui destinato, non abbia raggiunto il proprio scopo istituzionale.

Può, parimenti, sostenersi che lo scopo di un provvedimento è effettivamente conseguito, solo ove la sfera giuridica del destinatario del provvedimento medesimo consegua i medesimi risultati, che sarebbero stati conseguiti nell'ipotesi in cui fosse mancato il vizio di forma, e, quindi, solo ove manchi un qualsivoglia deterioramento della sfera giuridica del destinatario del provvedimento. Quest'idea è coerente con un'interpretazione in chiave costituzionale del ruolo della Pubblica amministrazione, la quale, anche ove svolga la sua azione avvalendosi di strumenti autoritativi, deve orientarsi, nel senso di fornire un “servizio” ai privati.

Forse, anche per queste ragioni, la scelta, posta a base della disciplina dell'art. 21-octies , è nel senso che nei provvedimenti vincolati, i vizi formali e procedimentali non comportano annullabilità del provvedimento, ove questo raggiunga egualmente il suo scopo. Ciò comporta la possibilità che l'Amministrazione trascuri di prevenire eventuali violazioni di forma.

In conformità a quanto adesso osservato, si ritiene sia difficilmente percepibile l'utilità di una sanzione alternativa all'annullabilità, con riferimento al vizio dii forma, non incidente sullo scopo dell'atto.

Può, peraltro, aggiungersi che ormai si è consolidata la possibilità per il privato di ottenere il risarcimento del danno, anche per violazione di un interesse legittimo, in conformità alla nota sentenza 500-1999 della Corte di Cassazione. Questa pronunzia, altresì, sgancia in modo totale la risarcibilità degli interessi legittimi, dal previo annullamento dell'atto amministrativo. Condividere l'impostazione, adesso riferita, comporta un'autonomia della sanzione risarcitoria, rispetto all'annullamento dei provvedimenti. Va, peraltro, evidenziato come l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 26-3-2003 n° 4, già sopra citata, riaffermi con forza l'esigenza della c.d. “pregiudizialità”, vale a dire la necessità del previo annullamento del provvedimento illegittimo, per provvedere al ristoro del pregiudizio subìto dal privato, tramite lo strumento risarcitorio. Permane anche in tempi recenti, pertanto, il contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione 31, la quale in pronunzie successive alla sentenza 500 (vedi nota) ha continuato a sostenere che l'annullamento del provvedimento illegittimo non sia “pregiudiziale” al risarcimento del danno.

Per completezza, va considerato anche che, secondo un'interpretazione, dalla sentenza n° 204-2004 della Corte costituzionale 32, emerge la conferma, del principio giurisprudenziale, secondo il quale l'azione risarcitoria non può essere proposta se, entro il termine di decadenza non sia stato impugnato l'atto amministrativo, in quanto l'illegittimità del provvedimento è elemento indispensabile dell'illecito, causativo del danno 33.

La questione della “pregiudizialità”, in ogni caso, si ridimensiona fortemente, ai fini del nostro tema, ove si rifletta sul fatto che, in vicende che comportino la sanatoria dei vizi formali, per l'avvenuto conseguimento del fine istituzionale del provvedimento, non si pone l'esigenza, ai fini dell'operatività della sanzione risarcitoria, del previo annullamento del provvedimento viziato, perché la legge 15-2005 espressamente prevede la non annullabilità del medesimo. Pertanto, l'unica esigenza essenziale, per l'utilizzo dello strumento risarcitorio, ove necessario, è l'impugnazione tempestiva del provvedimento, cui farà seguito una declaratoria d'illegittimità, da parte dell'Autorità giudiziaria, a fini diversi dall'annullamento. Un'opinione autorevole si spinge fino a sostenere che “nei casi in cui il vizio che inficia il provvedimento non dà luogo ad annullamento, non è nemmeno necessario, ai fini del risarcimento, l'impugnazione tempestiva” 34. Queste ultime osservazioni ridimensionano il timore che la restrizione dei casi di annullabilità e la contestuale sanatoria, quanto ai provvedimenti vincolati, dei vizi formali, che non pregiudichino il conseguimento dello scopo dell'atto, determini un “vuoto di legalità”, in relazione ai vizi formali non invalidanti. L'argomento può essere ribaltato: la disciplina in questione è pienamente compatibile con i princìpi costituzionali, e con il principio di legalità, letto in una versione sostanziale, in quanto consolida la continuità dell'azione amministrativa, evitando la paralisi temporanea della medesima, a seguito di patologie del provvedimento trascurabili. Viene, quindi, rispettato in maniera più intensa il principio di buon andamento dell'azione amministrativa, il quale coincide con la speditezza ed efficienza della medesima.

Ove il vizio formale pregiudichi egualmente gli interessi del privato (ma l'ipotesi appare piuttosto remota, dato che lo scopo del provvedimento è stato conseguito) potrà utilizzarsi lo strumento risarcitorio, anche se è doveroso aggiungere che l'utilizzo del medesimo comporta difficoltà probatorie di non scarso rilievo, in quanto il privato dovrà provare non solo di aver subìto un danno, ma anche la colpa dell'Amministrazione nella genesi del medesimo 35. L'esigenza di tale onere probatorio deriva dal superamento dell'impostazione, anteriore alla pronunzia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 500 del 1999, in conformità alla quale la giurisprudenza reputava configurabile una presunzione di colpa, direttamente collegata alla costatazione dell'illegittimità dell'atto. La tesi prevalente era nel senso della configurabilità di una presunzione assoluta di colpa (cfr. Cass. n° 3293-1994, n° 6542-1995), nel senso che l'illegittimità dell'atto contiene in sé la presenza di una colpa dell'Amministrazione (c.d. culpa in re ipsa ). Si presumeva iuris et de jure che un soggetto, istituzionalmente preordinato a rendere concreti interessi pubblici, quale è la Pubblica Amministrazione , incorresse in colpa, in ogni occasione in cui creasse un atto viziato, dato che l'illegittimità comportava automaticamente una violazione di legge, regolamenti, o norme di condotta, in conformità alla nozione di colpa, fornita dall'art. 42 c.p. 36.

Si comprende agevolmente che siffatta impostazione agevolava non poco il privato, che domandasse il risarcimento dei danni all'Autorità giudiziaria, in quanto questi era esonerato dall'onere di provare l'elemento soggettivo della responsabilità della Pubblica Amministrazione.

Va aggiunto, peraltro, che, di fatto, quest'orientamento comportava l'introduzione di una responsabilità oggettiva, ancorché mascherata, nei confronti della Pubblica amministrazione, difficilmente armonizzabile con il principio del carattere personale della responsabilità, desumibile dall'art. 27, 1° c. della Costituzione, ed estensibile anche di là dalla responsabilità penale.

La sentenza 500 delle Sezioni Unite si discosta dalla precedente impostazione e mette in risalto l'esigenza di fornire la prova della negligenza della Pubblica amministrazione., intesa come apparato, dovendosi invece eliminare ogni riferimento alla persona fisica dell'agente, che ha concretamente emanato il provvedimento. Si tenta di ridare omogeneità al sistema, evitando di introdurre surrettiziamente un'ipotesi di responsabilità oggettiva, discriminando la Pubblica Amministrazione , rispetto agli altrui soggetti dell'ordinamento, in rapporto al principio del neminem laedere, disciplinato dall'art. 2043 c.civ., dalla medesima considerato applicabile anche alla lesione d'interessi legittimi. Più in particolare, le Sezioni Unite pongono l'accento sull'esigenza di rispettare i princìpi d'imparzialità, correttezza e buona amministrazione, intesi quali limiti esterni alla discrezionalità. Va rilevato, peraltro, che in tal modo il rischio è di tornare al punto di partenza, vale a dire alla configurazione di una colpa, presunta in via assoluta, rischio rafforzato dal riferimento (assai difficoltoso, per la verità) dell'elemento psicologico non a un soggetto in carne e ossa, ma a un'entità astratta, qual è l'apparato della P.A..

Peraltro, un orientamento giurisprudenziale (cfr. per es. Consiglio di Stato, sez. V, 6 Agosto 2001, n° 4239), emerso in tempi recenti, ricostruisce la responsabilità della Pubblica amministrazione come responsabilità “ da contatto sociale qualificato” . Ciò comporta la possibilità di presumere in via relativa la responsabilità dell'Amministrazione, come conseguenza di una condotta colposa dell'apparato. Il privato, pertanto, in applicazione dell'art. 1218 c.civ., potrà limitarsi ad allegare il danno patito e dimostrare il nesso di causalità fra pregiudizio subìto e condotta dell'Amministrazione-apparato, salva la possibilità per l'Amministrazione di provare l'errore scusabile 37. Quest'assetto giurisprudenziale semplifica, almeno in parte, l'onere probatorio del privato, anche se, in una prospettiva de jure condendo, sarebbe opportuna un'espressa formulazione della disciplina dell'onere probatorio del privato, che domandi un risarcimento dei danni alla Pubblica Amministrazione.

Può, in ogni modo, rilevarsi che lo strumento risarcitorio è, sotto alcuni profili, inadeguato a colmare il presunto vuoto di tutela, derivante dalla non applicazione dell'annullabilità, in conformità al disposto dell'art. 21- octies . Va osservato, inoltre, che accordare il risarcimento del danno al soggetto leso non “cancella” l'illegittimità del provvedimento, la quale, invece, resta cristallizzata. Sostituire l'annullabilità con la sanzione risarcitoria, inoltre, avalla l'idea, per la quale l'Amministrazione, valutando il rapporto costi-benefici propri della vicenda concreta, ha un certo margine di autonomia, nel decidere se violare le “regole” formali o no, eventualmente ristorando per equivalente il privato, pregiudicato dalla violazione stessa, sempre ammesso che si possa individuare un pregiudizio effettivo, ulteriore e distinto, rispetto alla violazione del principio di legalità.

La disciplina in commento è in chiara connessione logica con il principio processualistico, disciplinato dall'art. 156 u.c., del c.p.c., secondo il quale “ la nullità (di un atto del processo) non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato” . Il collegamento fra le due normative sussiste, nonostante l'art. 156 c.p.c. disciplini ipotesi di non nullità e l'art. 21- octies ipotesi di non annullabilità, in quanto in entrambi i casi l'esclusione dell'invalidità è conseguenza diretta dell'applicazione del principio conservativo.

La legge compie a priori la valutazione d'indispensabilità del requisito per il raggiungimento dello scopo, presumendo, in via relativa, che il vizio di validità pregiudichi il medesimo; può, peraltro, costatarsi, a posteriori , che lo scopo è stato raggiunto. In quest'ipotesi, si tiene conto di una serie di circostanze, originariamente non previste, e/o non prevedibili, che dimostrano che, nonostante l'originaria presunzione di non idoneità dell'atto processuale e/o amministrativo a realizzare l'interesse perseguito, quest'ultimo è stato effettivamente conseguito.

La nullità di un atto processuale, anche se questo manchi dei requisiti essenziali, non può mai essere pronunziata se l'atto stesso ha raggiunto lo scopo, cui era destinato (Cass. 3 Agosto 1962 n° 27229). Il concetto di “raggiungimento dello scopo” si risolve nella certezza che siano state raggiunte le finalità che, nell'ambito del processo e sotto il profilo obiettivo dell'attuazione della legge, all'atto siano assegnate dall'ordinamento giuridico, e non già nella certezza che siano state raggiunte e conseguite quelle utilità, che la parte dell'atto stesso intendeva trarre (Cass. 26 Ottobre 1960, n° 2909). La decisione, adesso citata, è assai importante, in quanto consente di percepire in modo chiaro quale sia l'effettiva portata del principio di conservazione, il quale determina il permanere dell'efficacia di un atto processuale (il ragionamento, peraltro, può estendersi anche ai provvedimenti amministrativi), quando l'atto in questione realizzi la sua funzione “istituzionale”, in conformità ai dettami di legge. Va precisato che, secondo la giurisprudenza, l'atto processuale è inesistente, solamente se privo degli elementi necessari alla sua qualificazione, come atto inquadrabile e riconoscibile in un'astratta fattispecie giuridica; nel qual caso, si considera tamquam non esset e, pertanto, insuscettibile di sanatoria, mentre è nullo, e, come tale, sanabile ex art. 156 u.c., c.p.c., qualora sia solo privo di un elemento (o inficiato di un vizio, essenziale ai fini della produzione di effetti processuali; Cass. 29 Marzo 2004, n° 6194). Questa recentissima presa di posizione della Corte di Cassazione è utile anche nell'ambito del diritto amministrativo, al fine di chiarire la portata della nozione d'inesistenza del medesimo. Può mutuarsi quanto asserito dalla Cassazione a proposito della nozione di atto processuale inesistente, e definire privo di esistenza l'atto amministrativo, a tal punto indeterminato, da non consentire all'interprete di percepire con chiarezza quali effetti giuridici sarebbero dovuti scaturire dal medesimo. Quanto adesso affermato è importante ai fini della nostra indagine sul principio conservativo, in quanto un'opinione condivisibile tende, alla luce del disposto della legge 15- 2005, a estendere l'applicazione del medesimo principio anche all'ipotesi del provvedimento nullo, ma non a quello inesistente, attraverso una “sanatoria” assimilabile a quella del negozio nullo, in base all'art. 1424 c.civ.. Va precisato, peraltro, che l'operatività del meccanismo di conversione, disciplinato dall'art. 1424 c.civ., poggia sull'interpretazione della volontà delle parti; tale elemento non si riscontra nell'ipotesi di conversione del provvedimento amministrativo nullo (su questi argomenti cfr. anche infra ).

La mancata applicazione del principio conservativo all'atto inesistente (sempre che si ammetta la configurazione di ipotesi di atto amministrativo inesistente, il che non è pacifico) si giustifica, ove si rifletta sul fatto che, in tali casi concreti, non si è in presenza di un provvedimento amministrativo, ma di un mero comportamento dell'Amministrazione. Pertanto, dinanzi a un provvedimento inesistente, può concepirsi solo una rinnovazione dell'attività amministrativa, e non una conservazione di quella preesistente, in verità del tutto mancante.

La sanatoria dell'invalidità del provvedimento, per l'avvenuto conseguimento dello scopo, si giustifica perché il concreto risultato conseguito non va vanificato, in ossequio a una pedissequa adesione a uno sterile formalismo. A sostegno della validità di tale impostazione si saldano, in primo luogo, l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa, d'altro lato la tutela dei destinatari del provvedimento. Apparirebbe dispersivo reiterare l'attività amministrativa, attraverso l'emanazione di un provvedimento, con veste esteriore impeccabile, che abbia effetti pratici identici a quelli dell'atto, precedentemente caducato per vizio di forma. Procedere in modo siffatto comporterebbe una duplicazione dell'attività amministrativa artificiosa e inutile, e pregiudicherebbe il pronto conseguimento del bene della vita, sotteso all'atto con veste formale imperfetta, per i destinatari del provvedimento, causando un indebito “pregiudizio da ritardo”.

INESISTENZA DEL PROVVEDIMENTO

Il dibattito sulla configurabilità dell'inesistenza del provvedimento amministrativo, e sul suo rapporto con la nullità del medesimo è piuttosto articolato. Secondo un'opinione, la nozione di inesistenza va negata, dovendosi ammettere, in materia di vizi del provvedimento amministrativo, solo la dicotomia nullità-annullabilità. Non è mancata neppure la tesi, negatrice della nullità, la quale sostiene che un provvedimento o esiste o non esiste, con l'eccezione delle ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge. L'opinione appare poco conducente, in quanto nega la configurabilità di un istituto, esplicitamente disciplinato dal Legislatore.

Appare non persuasivo sia ritenere che l'inesistenza confluisca nella nullità, sia ritenere che la nullità confluisca nell'inesistenza, in quanto le due nozioni si collocano in ambiti diversi, e la distinzione fra provvedimento nullo e provvedimento inesistente ha rilievo pratico. Può, al riguardo, riflettersi sulla potestà di autotutela, la quale è sicuramente utilizzabile dalla Pubblica Amministrazione, solo con riferimento al provvedimento nullo, e non riguardo ai meri comportamenti.

Può aggiungersi che una responsabilità dell'Amministrazione come apparato può configurarsi, solo nell'ipotesi in cui vi sia mera illegittimità del provvedimento; ove, invece, venga in considerazione un non provvedimento, occorrerà verificare esclusivamente la responsabilità dell'agente in carne e ossa, che ha tenuto un dato comportamento.

La distinzione fra nullità e inesistenza ha rilievo anche con riguardo all'eventuale “disobbedienza” del privato, riguardo al provvedimento viziato, dato che non è logicamente configurabile una mancata adesione del privato, in relazione a un non-provvedimento, mentre è altrettanto logicamente ipotizzabile la mancata ottemperanza a un provvedimento esistente, ancorché nullo 38.

L'opinione sostenuta nel presente scritto consiste nell'adesione, per le ragioni sopra esposte della distinzione fra l'inesistenza e la nullità del provvedimento amministrativo, anche per le implicazioni di notevole importanza della medesima distinzione in materia di continuità e conservazione dell'azione amministrativa, in rapporto alla sopravvenuta legge 15-2005.

Si è sopra rilevato come l'espansione del principio conservativo non si può estendere, fino al punto da ricomprendere le ipotesi di inesistenza del provvedimento. La ragione è chiara, in quanto, in tali ipotesi, ci si colloca nell'ambito del “giuridicamente irrilevante”.

In ogni modo, riguardo all'ammissibilità della nozione d'inesistenza nel diritto amministrativo, si sono formulate diverse tesi. Può, in astratto, sostenersi che fra nullità e inesistenza non siano presenti differenze talmente rilevanti, da giustificare una distinzione fra i due concetti; oppure può delimitarsi l'area della nullità alle sole ipotesi tassativamente previste dalla legge, e utilizzare per tutte le altre ipotesi le nozioni di inesistenza e annullabilità.

Una distinzione importante è quella fra inesistenza materiale e giuridica. La nozione in esame, secondo tale ricostruzione, è utile, limitatamente alle ipotesi, nelle quali non vi è stata emanazione di un provvedimento, in quanto il medesimo non è stato sottoscritto dal funzionario emanante o non si è completato il procedimento amministrativo, preordinato alla sua emanazione.

L'inesistenza giuridica presuppone, invece, l'esistenza “in natura” del provvedimento, il quale, peraltro, è affetto da una patologia, talmente radicale, da richiedere una qualificazione in termini di inesistenza, anche se l'utilizzo di tale nozione è obiettivamente superfluo, in quanto l'effetto giuridico, scaturente da tale patologia, è l'assenza di effetti dell'atto e, pertanto, in concreto nulla cambia, anche ove ci si riferisca in termini di nullità.

Va condivisa l'opinione, la quale attribuisce autonomia alle due nozioni e nega sia che l'inesistenza confluisca nella nullità, sia che la nullità confluisca nell'inesistenza. L'adesione a questa convinzione di base nasce, essenzialmente, da una constatazione: l'inquadramento di un determinato caso concreto all'interno della nullità o dell'inesistenza comporta conseguenze pratiche di non scarso rilievo.

Va preliminarmente chiarito che, prima dell'emanazione della legge 15-2005, la dottrina (SANDULLI) riteneva che la validità di un atto amministrativo presuppone che sussista un minimum indispensabile, perché un atto amministrativo possa considerarsi esistente. Tale minimum non risulta espressamente indicato dalle leggi, e la determinazione di esso è opera del giurista, il quale deve ricavarla dai princìpi dell'ordinamento 39.

Si tendeva a identificare l'inesistenza nella mancanza di determinati elementi essenziali: soggetto, oggetto, forma, contenuto. Pertanto, l'atto, ai fini della sua esistenza, doveva essere emanato da un'Autorità amministrativa, e all'interno della sfera di attribuzioni, proprie della medesima. Ne discende che4 l'atto, emanato in “difetto di attribuzione”, veniva considerato radicalmente inesistente, mentre, attualmente, l'art. 21 septies, legge 15-2005, include il difetto di attribuzione fra le cause di nullità del provvedimento.

Più specificamente, il Sandulli distingue la mancanza di attribuzione dall'assenza in concreto dei presupposti, che legittimano l'agente all'emanazione, nella vicenda specifica, di un atto di un certo tipo. Si tratta della c.d. “carenza di potere in concreto”, la quale sussiste, allorché l'Amministrazione è effettivamente titolare del potere in astratto di emanare certi atti, in quanto rientranti nella sua sfera di attribuzione, ma nel caso specifico il potere è carente, in quanto vi è una contestuale violazione di disposizioni, concernenti l'esercizio del medesimo.

Secondo l'opinione qui riferita, l'atto emanato con carenza di potere in concreto spiega, sia pure in via precaria, i suoi effetti, fin quando non intervenga un'eventuale pronunzia di annullamento Non mancano, peraltro, opinioni, le quali identificano la presente ipotesi come un caso di nullità del provvedimento 40.

L'oggetto e il contenuto dell'atto amministrativo sono costituiti dai destinatari del medesimo e dal bene, sul quale l'atto incide, determinando un mutamento della situazione giuridica preesistente. La forma è la veste esteriore del provvedimento, la quale dev'essere necessariamente percepibile, ai fini dell'identificazione del medesimo.

La ricognizione sulla nozione d'inesistenza, adesso compiuta, in relazione alla fase, anteriore all'entrata in vigore della legge 15-2005, consente di rilevare come, attraverso l'emanazione dell'art. 21- septies, si è compiuta una vera e propria conversione delle cause di inesistenza del provvedimento in cause di nullità.

Ciò comporta una consistente espansione del principio conservativo, applicabile alle cause di nullità del provvedimento, e non a quelle d'inesistenza.

L'interprete può e deve domandarsi se, allo stato attuale della disciplina, residuino ipotesi d'inesistenza in senso stretto del provvedimento, dal momento che il più volte citato art. 21-septies ha comportato una “conversione” di ipotesi, precedentemente catalogate come veri e propri casi d'inesistenza (basti pensare alla “mancanza di elementi essenziali del provvedimento” o al “difetto assoluto di attribuzione”), in altrettante fattispecie di nullità.

La principale ragione, che giustifica siffatta restrizione dei casi d'inesistenza si collega puntualmente con l'esigenza di assicurare, nei limiti del possibile, che l'attività amministrativa non si disperda.

All'interno della nozione in esame possono farsi rientrare, attualmente, il finto atto amministrativo, emanato nel corso di una rappresentazione teatrale io per mero gioco, le ipotesi di inesistenza materiale dell'atto amministrativo, o la presenza in esso di lacune radicali, tali da essere più correttamente interpretaste come mero comportamento della Pubblica Amministrazione. La nozione di inesistenza è tuttora estensibile ai casi di atti, emanati senza la contestuale volontà di produrre effetti giuridici, o agli psudo-atti, emanati dall'usurpatore di pubbliche funzioni, ove non sia applicabile l'istituto del funzionario apparente (vedi sopra), in quanto questi agisce non per la cura di interessi indifferibili, ma per interessi propri, in contrasto con quelli della Pubblica Amministrazione.

Si tende a considerare atto inesistente anche il provvedimento amministrativo, privo di sottoscrizione. Va aggiunto, peraltro che, ove il difetto di sottoscrizione non precluda l'individuazione dell'autore dell'atto, va esclusa l'inesistenza e/o la nullità del medesimo, il quale ha egualmente raggiunto il suo scopo.

L'opinione, sostenuta in questa sede, è nel senso che, anche dopo la Riforma della normativa sul procedimento, residuano casi di inesistenza. In ogni caso, sarà compito della giurisprudenza chiarire quali siano gli attuali esatti confini della nozione in esame, in rapporto alla disciplina della nullità, contemplata nell'art. 21- septies legge 15- 2005. In termini più generali, può affermarsi sarà compito della giurisprudenza “integrare” la legge 15-2005, la quale necessita di un completamento, ad opera dell'interprete.

Note:

1 Occorre evitare un esito di caducazione, nelle ipotesi in cui, nonostante la sua difettosità, l'atto amministrativo rappresenti uno strumento idoneo a sostanziare l'interesse pubblico. L'interprete ha un'ampia gamma di soluzioni per “salvare” l'atto: può riscontrarsi una conservazione del provvedimento, a seguito di un'iniziativa in tal senso dell'Amministrazione, o di un comportamento del privato pregiudicato, oppure il provvedimento può essere interpretato, in modo da consentirne la piena efficacia.

2 Il principio di buon andamento può ritenersi sostanziato, ove l'azione amministrativa si conformi alle regole, che, anche in base alla passata esperienza, indichino quale sia il modo più adatto, per concretare l'interesse pubblico, sotteso all'atto. Esse devono assicurare, fra l'altro, la prontezza , la semplicità e la speditezza ed economicità, il rendimento e la puntuale adeguatezza dell'azione amministrativa; cfr. A.M.SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1981, pgg. 584 e sgg.. A parità di condizioni, l'efficienza dell'Amministrazione si realizza, quando si sviluppa una maggiore rapidità dell'attività amministrativa. Ciò comporta un'evidente valorizzazione del principio conservativo.

3 La delimitazione restrittiva dell'istituto del “funzionario di fatto”, descritta nel testo, si riscontra in A.M.SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, vol I, XV ed., 1989, pgg. 224 e sgg.. cfr., inoltre, V.RAGONESI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2002, pag. 32 ss. pag. 312. Da considerare è anche l'opinione di F.BASSI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 2000, pag. 227., secondo il quale la figura in esame ricorre quando un soggetto, pur provvisto di un'investitura viziata o del tutto carente, esplica, di fatto, un na pubblica funzione. Lo Studioso precisa che le ipotesi più frequenti si sono riscontrate, quando, a seguito di eventi bellici o di calamità naturali, alcune parti del territorio nazionale hanno temporaneamente perduto i contatti con il resto del Paese. In tali circostanze, è accaduto che gruppi di privati hanno, di fatto, svolto pubbliche funzioni, pur in mancanza d'investitura.

L'adesione a una nozione siffatta comporta l'impossibilità di qualificare in termini di “funzione di fatto” l'attività esercitata dal titolare di un ufficio, a seguito di scadenza dei termini (c.d. “prorogatio”). la tesi è suscettibile di obiezioni; si condivide quanto rilevato da F.CARINGELLA, in Corso di diritto amministrativo, tomo II, Milano, 2001., pgg. 1541 e sgg., e successive edizioni. La critica alla nozione restrittiva di funzionario di fatto muove dalla considerazione, fondantesi sull'incompatibilità dell'assunto con il principio di legalità, in quanto solo la legge può rimediare alle ipotesi, in cui un privato eserciti funzioni, proprie dell'Amministrazione. E' sempre il legislatore, che deve ratificare gli atti, provenienti da soggetto privo di legittimazione (cfr. anche S TERRANOVA, voce Funzionario (dir. pubbl.), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, pgg. 280 e sgg., spec. 288).

Può osservarsi, inoltre, come appaia piuttosto difficile per l'interprete enucleare un criterio univoco, al fine di verificare quando sussista uno staio di necessità, tale da “salvare” gli atti illegittimi, emanati dal funzionario apparente. Tale criterio, inevitabilmente, varierà da interprete a interprete. Date queste innegabili difficoltà, apparirebbe più razionale attribuire alla legge il compito di delimitare in modo preciso i casi di urgenza, in cui è opportuno ricorrere alla figura del funzionario di fatto, ove un privato compia attività sostanzialmente amministrativa.

4La sentenza può leggersi in Appalti, urbanistica, edilizia, 2000, pag. 39. La decisione è riportata anche in Urbanistica e Appalti, 2000, pag. 428, con nota di DE PALMA.

5 L'opinione è stata originariamente sostenuta da C. VITTA, Il funzionario di fatto, in Riv. Dir. Pubbl., 1923, I, 514 e sgg.; cfr. anche G. VACIRCA, Funzionario, in Enc. Giur, XIV, Roma, 1989 (vedi anche nota 3).

6 Il delitto di usurpazione di pubbliche funzioni tutela l'interesse al buon andamento ed efficienza della pubblica amministrazione (cfr. FIANDACA-MUSCO Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 1997, pag. 314; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, 2000, Milano. L'intento è di reprimere l'operato di chi sine titulo eserciti potestà amministrative. Può ritenersi che il reato in esame non sia configurabile, quando l'agente, pur non ritualmente investito dell'ufficio, abbia esercitato le relative funzioni con il consenso, anche tacito, dell'ente, assumendo così la veste di funzionario di fatto (cfr. GIUSEPPE BERSANI, in Commento ad art. 347 cod. pen., in Commentario al codice penale, a cura di G. MARINI, M. LA MONICA , L. MAZZA, Torino, 2002, tomo II, pgg. 1646 e sgg.

7 Secondo A.M.SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo cit., pgg. 691 e sgg., quando l'investitura di un soggetto, quale titolare di un organo, avente competenza per atti specifici, sia illegittima, tale illegittimità si trasmette agli atti dell'ufficio. L'Autore citato alle pgg. 724 e sgg. del Suo Manuale critica la distinzione giurisprudenziale tra effetto caducatorio ed effetto invalidante. Il primo tipo di meccanismo comporta,. oltre alla caducazione dell'atto presupposto direttamente annullato l'automatica caducazione degli atti ”conseguenziali” (per es. l'annullamento di un provvedimento di immissione in ruolo di personale docente, comporterebbe la caducazione della nomina in ruolo dei soggetti immessi). L'effetto invalidante, invece, comporta l'invalidità derivata degli atti a valle, che i privati interessati possono far valere, se lo ritengono, attraverso lo strumento dell'impugnazione. Secondo il SANDULLI, appare difficilmente sostenibile che la caducazione di un atto presupposto comporti automaticamente la caducazione degli atti consequenziali, ferma restando la possibilità per l'Amministrazione di annullare questi ultimi in sede di autotutela, o in sede giurisdizionale.

8 E' chiaro che l'irregolarità è condizione diversa dall'invalidità, in quanto la difformità dell'atto è talmente irrilevante, da non pregiudicare l'interesse, sotteso al provvedimento difettoso. Può ricomprendersi nella nozione anche l'ipotesi, in cui lo scopo della norma, disciplinante quel determinato tipo di provvedimento, è stato in concreto raggiunto, pur sussistendo in astratto la possibilità che il provvedimento non sostanziasse l'interesse perseguito. Secondo A. ROMANO TASSONE (cfr. la monografia Contributo sul tema dell'irregolarità degli atti amministrativi, Torino, Giappichelli, 1993, pagg. 74 e sgg.), l'irregolarità è provvedimento che, pur violando una norma, è idoneo a sintetizzare e armonizzare gli interessi coinvolti nel caso concreto.

9 Cfr. TAR Campania, Sezione IV, Napoli, 25 Febbraio 1998, n° 707, secondo il quale, in base ai princìpi generali di conservazione degli atti giuridici e di strumentalità delle forme, l'omessa indicazione nel corpo del provvedimento dell'Autorità, presso la quale è possibile ricorrere avverso il medesimo, costituisce ipotesi di mera irregolarità.

10 Può osservarsi che la figura dell'irregolarità ha l'utile funzione di evitare che violazioni poco rilevanti possano inficiare il provvedimento finale. Ciò, peraltro, comporta una deroga al principio di legalità, in quanto si riscontrano delle violazioni di legge, cui non si applica alcuna sanzione. La figura dell'irregolarità può riferirsi ai casi in cui l'atto, non conforme a una norma e quindi illegittimo, non possa essere annullato in via di autotutela, in quanto difetta il requisito dell'interesse pubblico e concreto.

11La tesi è sostenuta dal CASETTA in Manuale di diritto amministrativo, 2004, Milano, pag. 499. L'Autore propone una sintesi fra irregolarità e regola del raggiungimento dello scopo, in quanto sostiene che l'irregolarità è quella situazione del provvedimento amministrativo, illegittimo, ma idoneo a raggiungere lo scopo voluto dalla norma violata, sicché avviene una sanatoria implicita. Lo stesso Autore rileva che la giurisprudenza tende a qualificare validi, ab origine, gli atti irregolari.

12 La rettifica è normalmente ammessa dalla giurisprudenza, la quale attribuisce a essa natura provvedimentale (cfr. per es. Cons. Stato 13 Giugno 1980, n° 581, in Foro amm., 1980, 3, pag. 1221).

13In astratto, può ritenersi che l'ambito di applicazione dell'istituto della rettifica riguardi gli atti irregolari, e non quelli viziati, e consista nell'eliminazione dell'errore, contenuto nell'atto. Ciò presuppone che si concepisca l'irregolarità come ben distinta dall'illegittimità. Ove, invece, si concepisca l'irregolarità come rientrante nell'illegittimità, la rettifica opera, allorché non sia possibile annullare l'atto in via di autotutela, per mancanza di un interesse pubblico, che giustifichi la rimozione del medesimo cfr. E. CASETTA, Manuale cit., pg, 510; cfr. A.M.SANDULLI, Manuale cit. pg. 733.

14 Secondo B.G.MATTARELLA, L'interpretazione del provvedimento, in CASSESE (a cura di), Trattato di diritto ammininistrativo, tomo I, pag. 789, Milano, 2000 (e successive edizioni), la possibilità di applicare all'interpretazione del provvedimento amministrativo la disciplina, prevista dal codice civile per quella del contratto, si giustifica per il fatto che il provvedimento amministrativo è, nella sua essenza originaria, una manifestazione di volontà, e, in questo senso, è affine al contratto, che è un incontro di volontà. In tal senso, può ipotizzarsi che l'assenza di una disciplina specifica sull'interpretazione del provvedimento costituisca una lacuna dell'ordinamento, che può colmarsi, attraverso il ricorso all'analogia legis, applicando la disciplina dell'interpretazione del contratto, in quanto avente una ratio affine.

15 Cfr. Cass. 2-6-1983-1769, 20-1-1983-573, Cass. 16 –12-1982-6935.

16 Una parte della dottrina e della giurisprudenza, peraltro, ammette anche la conversione degli atti annullabili, il quale è più persuasivamente spiegabile come” annullamento dell'atto originario e conseguente caducazione dei suoi effetti, e sostituzione del medesimo, di cui sussistono nel primo tutti i requisiti” (cfr.E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, pag. 509, Milano, 1999 (ultima edizione 2004).

17 Il brocardo jura novit curia (“ l'Autorità giudiziaria conosce la legge”), indica che si presume in via assoluta che il Giudice è a conoscenza dei contenuti dell'ordinamento, in quanto “tecnico” del diritto, e, pertanto, il medesimo è in grado di “correggere” l'eventuale errore di qualificazione di una determinata vicenda giuridica, indicando il nomen juris corretto, ai fini dell'inquadramento di una certa fattispecie.

18 Occorre verificare se l'atto sia stato emanato in seguito a un nuovo procedimento, a un riesame della situazione complessiva, una nuova ponderazione di interessi. La differenza fra atto confermativo e conferma è quantitativa, piuttosto che qualitativa, in quanto dipende dall'intensità dell'esame compiuto dall'Amministrazione (cfr. G. B. MATTARELLA, in S. CASSESE (a cura di), Trattato cit., tomo I, pagg. 832-834.

19L'istituto della convalida è previsto anche in diritto comune, in relazione al contratto annullabile, ed è attuata con atto del contraente, cui spetta l'annullamento (cfr. art. 1444 c.civ.). Può rilevarsi anche in tale ipotesi la tendenza dell'ordinamento, nel senso di costruire parte della disciplina dell'atto amministrativo, tenendo presente come paradigma la normativa generale sul contratto.

20 Per costante giurisprudenza, l'acquiescenza va desunta da circostanze, dalle quali sia incontestabilmente desumibile la volontà dell'interessato di accettare il provvedimento (cfr. da ultimo TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 2 Febbraio 1999 n° 99). Si aggiunga che l'acquiescenza deve riguardare specificamente il provvedimento non impugnabile, e non atti diversi, eventualmente aventi contenuto analogo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 maggio 1950, n° 86). Deve, altresì, ritenersi che l'efficacia di un eventuale atto di acquiescenza vada esclusa, nell'ipotesi in cui essa avvenga prima del provvedimento emanato (in tal senso, cfr. per es., Consiglio di Stato 26 Ottobre 1998; in senso difforme, Consiglio di Stato, Sez. V, 4 Maggio 1955, n° 515), per ulteriori ragguagli cfr. C.V.CAIANELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, pagg. 602-604, Torino, 2003.

21 Già anteriormente alla legge 15.2005, di riforma del procedimento amministrativo, emerge il bisogno di assicurare un margine di continuità dell'attività amministrativa, com'è dimostrato dalla scelta di un'applicazione non formalistica e meccanica della regola della comunicazione dell'inizio del procedimento. Il TAR Sicilia, sezione II, 12-2-1997, n° 190, consultabile in Foro amm ., 1997, pag 2877 insegna che l'omissione della comunicazione produce una mera irregolarità del provvedimento, ove il destinatario non sia in grado di dimostrare di poter incidere in modo significativo sull'esito del procedimento, attraverso la presentazione “di osservazioni e opposizioni, con la ragionevole possibile incidenza causale sull'atto terminale”.

22 Cfr. l'articolo di A DEL DOTTO, L'eterno conflitto tra forma e sostanza nel diritto amministrativo” in www.altalex.it , 24-5-2005

23 Possono, al riguardo ricordarsi alcuni esempi: l'art. 11 legge 212-2002 commina la sanzione della nullità per l'accertamento tributario, difforme dalla risposta dell'interpello; l'art. 11 della legge 241-1990 prevede, già prima della Riforma, attuata con la legge 15-2005, la nullità degli accordi procedimentali, privi del requisito di forma.

24 L'assenza di soggetto si verifica, ove l'atto emesso non provenga da un soggetto, facente parte della pubblica amministrazione, o nel caso in cui l'Amministrazione invada una sfera di pertinenza del potere legislativo o giudiziario. Come s'intuisce, si tratta d'ipotesi piuttosto remote. Altrettanto può rilevarsi per il difetto di oggetto e/o di contenuto.

25Cfr. F. CARINGELLA, Corso cit., pag. 1706 . Una “gerarchia” fra norme imperative sembra, invece, ammissibile in diritto civile, a partire dalla disciplina dell'art. 1419 c.civ., Tale disposizione prevede che talune norme imperative hanno la forza di inserirsi coattivamente regolamento negoziale (art. 1419 2° c.) e talune altre non hanno tale forza (art. 1419 1°c.). Non sembra sussistano i presupposti estendere analogicamente tale disposizione alla materia del provvedimento amministrativo, in quanto non si rinviene un'affinità di ratio, tale da giustificare siffatta conclusione.

Su tale argomento la recente Cassazione 2 marzo 2005, n° 6170 insegna che il Giudice civile può rilevare d'ufficio la nullità di un contratto, non solo in sede di azione di esatto adempimento, ma anche nel contesto di un'azione di rescissione, annullamento, risoluzione di un contratto. La tesi è condivisibile, in quanto “la validità o nullità del contratto costituisce una pregiudiziale in senso logico-giuridico, idoneo a divenire giudicato”, sia nell'ipotesi in cui l'attore agisca per l'esatto adempimento, sia per l'annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto. del contratto. Pertanto, l'accertamento incidentale del giudice, in applicazione dell'art. 1421 c.civ., in queste ipotesi non comporta una violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, dato che lo scioglimento di un vincolo contrattuale presuppone l'assenza di nullità del medesimo.

La posizione fatta propria dalla Cassazione 2005 citata contraddice quella, fatta propria dalla Corte d'Appello di Milano, relativamente alla medesima fattispecie, e aderente all'indirizzo maggioritario in giurisprudenza, in base al quale il potere del Giudice di dichiarare d'ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.civ. va coordinato col principio della domanda, fissato dagli artt. 99 e112 c.p.c., sicché solo se vi sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto, la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il Giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudizio, la nullità dell'atto, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti; al contrario, quando , qualora la domanda sia diretta a far dichiarare l'invalidità del contratto a farne pronunziare la risoluzione per inadempimento, il rilievo d'ufficio della nullità costituisce violazione della regola di corrispondenza fra chiesto e pronunziato (in tal senso cfr. Cass. 6-8-2003, n. 11847, Cass. 14.1.2003, n.435, 17.5.2002, n.7215 etc.). Sulle implicazioni di tale contrasto giurisprudenziale, in relazione alla affine tematica della nullità del provvedimento amministrativo, cfr. appresso nel testo.

27 Su questa importante pronunzia del Consiglio di Stato cfr. i commenti di A. TRAVI in “ Foro italiano ”, 2003, III, 433 e di F. VOLPE in “ Corriere giuridico ”, 2004, 345. L'Adunanza Plenaria n° 4-2003 sostiene non è possibile l'accertamento in via incidentale dell'illegittimità dell'atto non impugnato nel termine decadenziale, al solo fine del giudizio risarcitorio.

29 Cfr. in tali termini, E. CANNADA BARTOLI, “ L'inapplicabilità degli atti amministrativi ”, Milano, 1950, pag. 53 . Talune manifestazioni residue di tale rigorosa interpretazione si sono riscontrate anche dopo l'entrata in vigore della legge 15-2005, attraverso il rilievo dell'assenza di sanzioni alternative all'annullabilità, esclusa dall'art. 21- octies per i vizi di forma dei provvedimenti vincolati.

29 Cfr. F. FRACCHIA, Vizi formali, semplificazione procedimentale silenzio-assenso e irregolarità , in Diritto dell'economia , 2002, pagg. 450 e sgg..

30 Per ulteriori approfondimenti, anche con puntuali riferimenti ad altri ordinamenti europei, che attestano la coerenza della presa di posizione del Legislatore del 2005, in relazione alla tematica in oggetto, con la maggior parte delle discipline in tema a livello europeo, cfr. F.CARINGELLA, Corso cit., pagg.1753-1757, nonché P . LAZZARA , Il vizio di forma nel procedimento amministrativo,: recenti riforme e profili comparatistici. in La tutela aquiliana degli interessi legittimi cit., pagg. 41 e sgg..

31 Cfr. 16 maggio 2003 n° 7630, 13 aprile 2004, n° 7043, ordinanza delle Sezioni Unite n° 10180 del 26 Maggio 2004.

32 Cfr. il commento alla sentenza della Corte costituzionale, n° 204-2004 di A. TRAVI, S. BENINI in Foro it ., I, 2004, pagg. 2593 e sgg., La giurisdizione esclusiva prevista dagli artt. 33 e 34 del d. leg 3 marzo 1998, n° 80, dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 Luglio 2004, n° 204, F . FRACCHIA, La parabola del potere di disporre il risarcimento: dalla giurisdizione esclusiva alla giurisdizione del giudice amministrativo.

33 In tali termini, V. SALAMONE, Interesse legittimo, tutela risarcitoria e giudizio impugnatorio, in La tutela aquiliana degli interessi legittimi, Atti del Convegno di Catania dei giorni 5 e 6 Novembre 2004, raccolti da A. CARIOLA, G. D'ALLURA, F. FLORIO, Catania, 2005, pag. 105. Per un'interpretazione in senso opposto del pensiero, espresso dalla Consulta nella sentenza 204, cfr. G. D'ALLURA, La tutela aquiliana degli interessi legittimi, in op. ul. cit., pagg. 15-16, il quale si sofferma sull'affermazione della Consulta, presente nel testo della sentenza, secondo la quale, la materia risarcitoria non costituisce una nuova materia, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio e/o conformativo, da utilizzare per rendere tutela al cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione”. Secondo questo Autore, quest'affermazione va interpretata, come implicante un sostanziale rifiuto della teoria della pregiudizialità. In senso opposto, invece, F. CINTIOLI, La giurisdizione piena del Giudice amministrativo, dopo la sentenza n° 204-2004 della Corte Costituzionale, in www.giustamm.it, il quale ritiene che la sentenza 204-2004 insegni che quella risarcitoria non soltanto è materia non nuova, rispetto all'annullamento, ma anche materia dipendente o “tendenzialmente sussidiaria” del medesimo. Data questa pluralità di posizioni assai divergenti tra esse, appare veritiera l'affermazione di A. CARIOLA, in La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione d'interessi legittimi , in op. ul cit., pag. 30, il quale ritiene che la sentenza 204 ”non ha aiutato a definire” il problema della pregiudizialità.

34 Cfr F.. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, 2004, tomo II, pag. 1764.

35 Cfr. F. CARINGELLA, Corso cit., pag.1761. Le difficoltà probatorie, collegate alla fruizione dello strumento risarcitorio da parte del privato, costituiscono uno dei principali argomenti a sostegno della tesi della incompatibilità della disciplina dell'art. 21-octies con la Costituzione (artt. 103-113), in quanto tale onere probatorio particolarmente pesante renderebbe difficilmente utilizzabile la sanzione risarcitoria, come strumento di tutela alternativo, rispetto a quello dell'annullabilità

36 Sull'argomento è utile consultare l'elaborato di C. DEODATO, La colpa della pubblica amministrazione, per i danni causati nell'esercizio di attività amministrativa illegittima., in Temi di diritto amministrativo, a cura di R. CHIEPPA, Milano, 2005, pagg. 497 e sgg., e la relazione svolta da G. LO PRESTI, L'elemento soggettivo della responsabilità della pubblica amministrazione, in La tutela aquiliana degli interessi legittimi, Atti del Convegno cit., pagg. 59 e sgg..

37 Per ulteriori approfondimenti sul punto, sia consentito rinviare a S. MAGRA, Considerazioni a margine della disciplina in materia d'invalidità dell'atto amministrativo, introdotta dalla riforma della legge 241, consultabile in www.filodiritto.it

38 Sugli argomenti qui affrontati cfr., più ampiamente, F. CARINGELLA, Corso cit., pagg. 1689 e sgg., in cui, fra l'altro, si rileva l'importanza della distinzione fra inesistenza giuridica e materiale. Quest'ultima sussiste quando un provvedimento materialmente non è mai stato adottato, perché il relativo procedimento non è mai stato concluso, oppure perché non è mai stata apposta sottoscrizione da parte del funzionario. L'inesistenza giuridica sussiste, secondo tale impostazione, qualora il provvedimento sia monco e lacunoso, in modo talmente radicale da rendere insufficiente anche il ricorso alla sanzione della nullità.

39 Cfr. A..M.SANDULLI, Manuale cit., pagg. 664-670. Va rilevato, peraltro, che l'Autore tende, talora, a identificare nullità e inesistenza.

40 Contesta la tesi sostenuta da A.M.SANDULLI, tra gli altri, E. CANNADA BARTOLI, La tutela giurisdizionale dl cittadino verso la Pubblica amministrazione, II ed. Milano, 1964).