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Crimini, traumi e resilienza

Il legame fra trauma e resilienza, intesa come capacità dell’individuo di superare i traumi, è un oggetto di studio molto recente, sistematicamente affrontato dagli studiosi delle scienze sociali a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto in ambito anglosassone e nordamericano, nonostante affondi le radici in concetti anticipati da Janet e da Freud.

Sigmund Freud (1895) e Pierre Janet (1925) per primi parlarono di traumatismo in termini di impatto esteriore (guerra, catastrofi naturali, aggressioni), che ha la capacità di alterare il profondo Io e il mondo intimo ed interiore dell’individuo traumatizzato.

Come afferma Cyrulnik (2010) il concetto di trauma venne sviluppato ulteriormente nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, anni a cui risalgono gli studi di René Spitz e Anna Freud focalizzati sulla descrizione dell’arresto e del ritardo dello sviluppo di piccoli orfani, causati dalla carenza di sostegno affettivo, successivamente ai bombardamenti su Londra. In tale studio vennero descritti tre stadi della deprivazione affettiva (protesta, disperazione, indifferenza), tralasciando l’approfondimento di un quarto stadio, quello della guarigione, per il quale si dovrà attendere Emy Werner (1993), il cui obiettivo era quello di scoprire quali fossero quelle condizioni in grado di poter ricucire l’Io lacerato dei soggetti traumatizzati (Cyrulnik, 2010).

Lo studio più celebre, infatti (all’interno del quale fece per la prima volta la comparsa il termine resilienza) fu quello di Emy Werner (Werner, 1993).

A partire dal 1955 - per circa un trentennio - Werner e la sua équipe condussero una ricerca longitudinale su 698 neonati dell’isola Kauai (Hawaii). Gli uomini e le donne, seguiti dalla nascita fino alla metà degli anni ‘30, furono una miscela di gruppi etnici, la maggior parte provenienti dal Giappone, Filippine e Hawai. Circa la metà del campione (54%) era cresciuto in povertà, allevati da padri che erano operai, non qualificati o semi-qualificati, in piantagioni di ananas e da madri che non avevano conseguito nemmeno il diploma di scuola superiore.

Circa un terzo di questi neonati, infatti, per la psicologia classica avevano tutti i pre-requisiti per una prognosi di disagio psichico o sociale, in quanto esposti a diversi fattori di rischio (nascita difficile, povertà e miseria, famiglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, aggressività e violenza etc.).

Gli autori della ricerca utilizzarono una duplice prospettive per valutare la qualità di adattamento dei soggetti dello studio. Una prima prospettiva venne acquisita attraverso un’intervista semistrutturata che si concentrava sulla sviluppo mentale relativo ai compiti inerenti all’età adulta. Le risposte alle domande dell’intervista, infatti, permisero di effettuare giudizi circa la capacità dei soggetti di raggiungere esiti positivi nelle sfere dell’identità, intimità e generatività.

Una seconda prospettiva complementare sulla qualità di adattamento dei soggetti appartenenti al campione fu stata raccolto a partire dagli archivi detenuti dalle comunità. Dal quartiere e i comuni di Kauai, Honolulu e sulle altre isole (Maui e Hawaii), furono ottenute le informazioni su ogni membro della coorte di nascita 1955, recuperando i dati relativi al compimento di delitti, cause civili, matrimoni finiti con divorzi, in tempi successivi all’ultimo follow-up. Profili delinquenziali, di abuso infantile, utilizzo di sostanze stupefacenti, profili relazionali non riusciti, etc, furono considerati segnali di un esito negativo in riferimento all’adattamento nell’età adulta.

Contraddicendo le previsioni, un terzo di questi bambini (settantadue per la precisione) erano riusciti a migliorare la loro condizione ed erano diventati adulti in grado di creare delle relazioni stabili, capaci di impegnarsi sul lavoro e di prodigarsi per gli altri. Inoltre, fu possibile osservare come i fattori che più permisero a tali soggetti di far fronte alle difficoltà in modo positivo furono per lo più la presenza di un caregiver su cui poter contare, l’aver potuto ricevere un’accettazione incondizionata, il supporto di una grande fede religiosa, l’abitare in famiglie poco numerose con figli nati a distanza di tempo l’un dall’altro, nonché la capacità di riuscire ad attribuire un significato e un senso alla propria esistenza (Werner, 1993).

Il riscontrare in queste persone una possibilità di miglioramento, nonostante i tanti fattori di rischio, ha aperto un ambito di studi sulla conoscenza di quei fattori di protezione che possono favorire uno sviluppo adeguato.

Comprendere cosa avesse reso resilienti quei settantadue bambini, consentì di spostare l’ottica dall’analisi delle condizioni che rappresentavano fonti di disagio, ovvero sulla carenza e sulla vulnerabilità, verso l’indagine e successivamente la presa in carico e cura di quelle risorse individuali e familiari che consentono alla persona di trovare un compromesso e un equilibrio tra le proprie risorse e i propri limiti, comprendendo come l’esperienza traumatica (che pur rimane scolpita nel profondo dell’animo), possa divenire – paradossalmente - un’ occasione formativa di crescita personale.

Infine, come sottolineano Atkinson, Martin e Rankin (2010), è necessario far riferimento a due aspetti dell’indagine circa le prospettive storiche sulla resilienza. In primo luogo, infatti, l’analisi si sofferma sulla considerazione di singoli casi e di gruppi (“le cosiddette storie eroiche”, Atkinson et al., 2010, pag. 23), che hanno la potenzialità di poter fornire qualche idea sui fattori che possono condurre alla resilienza. I conflitti mondiali del XX secolo, ad esempio, costituiscono una ricchissima fonte di “storie eroiche”, che aiutano a far luce sul concetto di resilienza. Basti pensare a specifici gruppi, come ad esempio i sopravvissuti dei campi di concentramento piuttosto che i prigionieri di guerra, i quali sembrano incarnare i principi della resilienza.

Riporto, a tale proposito, due esempi: il primo, si rifà alla storia traumatica di Boris Cyrulnik, il quale rimase orfano dei genitori a causa dello sterminio nazista. Cyrulnik riferendosi anche ai tentativi dei superstiti dell’Olocausto di cercare nuovamente di fornire di un senso la propria vita, affermò che riuscire a sopravvivere ad una storia tanto traumatica aiutava le persone a sviluppare ed utilizzare nuove risorse (Atkinson et al., 2010).

Per quanto riguarda il secondo esempio, che illustra la condizione di prigionia, invece, credo che basti riportare uno stralcio della storia biografica di Trudi Birger, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, strappata alla morte poco prima di essere avviata al forno crematorio del campo di concentramento di Stutthof: “… mia madre e io fummo mandate a preparare le postazioni per i carri armati destinati alla difesa della città contro l’avanzata russa. Era il lavoro più duro che avessimo mai fatto. Ciononostante, come nel ghetto, cercavo di andare a lavorare con un sorriso stampato in faccia. Malgrado i disagi e la sofferenza, mi bastava poco per apprezzare la vita: un raggio di sole, uno stelo d’erba da succhiare, un sogno. Mi aggrappavo ostinatamente alla speranza e incoraggiavo le altre prigioniere perché non sprofondassero nella tristezza” (Birger, 1999, p115).

Vanderpol (in Coutu, 2002), presidente fondatore della Boston Psychoanalytic Society and Institute, riguardo alle vittime dell’Olocausto, affermò che molti dei sopravvissuti sani dei campi di concentramento avevano quello che lui chiamava “scudo plastico”. Tale scudo era formato da una molteplicità di fattori, incluso un marcato senso di humour e l’abilità di stringere stretti rapporti con gli altri individui, possedendo uno spazio psicologico interiore che li proteggeva dalle intrusioni abusive degli altri.

In secondo luogo, Atkinson et al. (2010) sostennero che l’analisi si concentra sulle ricerche condotte su gruppi di persone, le quali hanno dovuto affrontare eventi stressanti e traumatici di grave intensità. Tali ricerche forniscono informazioni preziose sulla resilienza, nonostante gli autori sottolineino l’importanza di usare particolare cautela, dal momento che tali studi sono limitati alle persone sopravvissute e non è possibile verificare a posteriori le caratteristiche degli individui non sopravvissuti. A proposito di tale branca di studi, facciamo riferimento allo studio condotto da Favaro, Rodella, Colombo & Santonastaso, (1999), cinquant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per valutare il disturbo post-traumatico da stress e la depressione nei soggetti sopravvissuti ai campi di concentramento. Il campione fu diviso in due gruppi; la ricerca, infatti, valutò il PTSD su 51 soggetti italiani (45 uomini e 6 donne) deportati a causa di motivi non etnici, ma politici, utilizzando come gruppo di controllo 47 partigiani (41 uomini e 6 donne) che avevano combattuto nella Resistenza italiana, in modo tale da poter confrontare due gruppi caratterizzati da esperienze differenti ma ugualmente altamente traumatiche, appartenenti allo stesso momento storico e popolazione. Il primo gruppo fu selezionato consultando le liste dell’Associazione Nazionale degli Ex Deportati e i criteri di selezione furono tre: i soggetti dovevano essere stati necessariamente deportati in campi di concentramento, dovevano avere un’età tra i 16 e i 26 anni e dovevano abitare, al momento della ricerca, in determinate aree geografiche; il secondo gruppo, invece, fu selezionato consultando le liste dell’Associazione Nazionale degli Ex Partigiani e i criteri di selezione furono tre: i soggetti dovevano necessariamente aver partecipato ad azioni di combattimento o dovevano aver sofferto a causa di altri eventi che minacciassero la loro vita o eventi traumatici durante la guerra, avere un’età tra i 16 e i 26 anni e abitare nelle stesse zone indicate anche per gli ex deportati.

Molte delle esperienze traumatiche riportate sono comuni a tutti i sopravvissuti. Questi sono: la cattura; il lungo viaggio nel treno affollato destinato al campo, l’essere stati spogliati e rasati le docce con acqua gelata e poi bollente; disinfestazione, l’essere privati del nome e l’aver tatuato un numero sul braccio, il dover lavorare 11-12 ore al giorno, l’essere spesso insultati, il non avere una protezione sufficiente dal freddo; il ricevere cibo insufficiente, il dover vivere in condizioni igieniche precarie e il dover essere testimoni della morte di molti detenuti a causa di tutte le privazioni del campo. Altri eventi traumatici sono stati riportati da parte del campione. Prima dell’internamento, ad esempio, l’ essere picchiati (27%) e torturati (16%). Durante l’internamento: l’essere stati ripetutamente maltrattati e picchiati (92%), l’essere vittima di trattamenti particolarmente crudeli e umilianti (35%), la presenza nel campo dei familiari (16%), l’essere stati testimone di atrocità (come l’uccisione di un bambino) o dell’esecuzione di altri detenuti (41%), la partecipazione alle selezioni per la camera a gas (20%); l’essere stati sottoposti ad esperimenti medici (8%), l’essere stati costretti a perpetrare atrocità su altri prigionieri (8%).

Tra gli ex-partigiani le esperienze traumatiche riportate furono: la partecipazione in combattimento attivo (54%); l’essere stati testimoni dell’uccisione o esecuzione dei compagni (24%); essere stati catturati e interrogati (30%); l’essere stati torturati (4%). Lo studio conclude riportando un elevato tasso di PTSD e depressione superiore alla norma in entrambi i gruppi, evidenziando livelli più elevati nei deportati politici. La spiegazione di tale fenomeno è stata individuata dagli Autori in due principali fattori; in primis indicano il fatto che, differentemente dai deportati politici, i sopravvissuti all’olocausto furono vittime delle persecuzione razziale per molti anni prima della deportazione, sottoponendoli ai fattori traumatici per un tempo superiore rispetto agli ex partigiani. Inoltre, l’olocausto ha avuto un impatto sulla totalità della vita dei sopravvissuti, avendo perso famiglia, casa, la propria origine e tradizione sociale e dovendo, in molteplici casi, emigrare, differentemente dai deportati politici, che in seguito alla liberazione, tornarono nelle loro dimore. La differenza, inoltre, è probabilmente dovuta al fatto che partigiani volontariamente avevano scelto di partecipare al movimento di Resistenza; l’essere un partigiano, dunque, sembra diventare un fattore di protezione, contro il trauma e il disagio subiti dai sopravvissuti dell’Olocausto.

Anche 50 anni dopo la liberazione, gli effetti del l’internamento nei campi di concentramento nazisti risultano ancora presenti. Il campione di deportati politici segnala, infatti, un’alta prevalenza di PTSD e disturbo depressivo maggiore. Il confronto con un gruppo controllo di soggetti di età simile porta gli autori ad ipotizzare che la differenze tra i due gruppi nascono dall’aver vissuto il trauma estremo di deportazione e di internamento (Favaro et al, 1999).

Comprendiamo dunque come la resilienza sia un costrutto complesso dotato di caratteristiche trasversali a molti aspetti della vita individuale e collettiva. È inoltre un attributo che nell’essere umano non è mai stabile, dipendendo dalla presenza di alcuni fattori ambientali, soggettivi e relazionali che sono in grado di favorirne o inibirne lo sviluppo ed il mantenimento nel tempo.

Il legame fra trauma e resilienza, intesa come capacità dell’individuo di superare i traumi, è un oggetto di studio molto recente, sistematicamente affrontato dagli studiosi delle scienze sociali a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto in ambito anglosassone e nordamericano, nonostante affondi le radici in concetti anticipati da Janet e da Freud.

Sigmund Freud (1895) e Pierre Janet (1925) per primi parlarono di traumatismo in termini di impatto esteriore (guerra, catastrofi naturali, aggressioni), che ha la capacità di alterare il profondo Io e il mondo intimo ed interiore dell’individuo traumatizzato.

Come afferma Cyrulnik (2010) il concetto di trauma venne sviluppato ulteriormente nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, anni a cui risalgono gli studi di René Spitz e Anna Freud focalizzati sulla descrizione dell’arresto e del ritardo dello sviluppo di piccoli orfani, causati dalla carenza di sostegno affettivo, successivamente ai bombardamenti su Londra. In tale studio vennero descritti tre stadi della deprivazione affettiva (protesta, disperazione, indifferenza), tralasciando l’approfondimento di un quarto stadio, quello della guarigione, per il quale si dovrà attendere Emy Werner (1993), il cui obiettivo era quello di scoprire quali fossero quelle condizioni in grado di poter ricucire l’Io lacerato dei soggetti traumatizzati (Cyrulnik, 2010).

Lo studio più celebre, infatti (all’interno del quale fece per la prima volta la comparsa il termine resilienza) fu quello di Emy Werner (Werner, 1993).

A partire dal 1955 - per circa un trentennio - Werner e la sua équipe condussero una ricerca longitudinale su 698 neonati dell’isola Kauai (Hawaii). Gli uomini e le donne, seguiti dalla nascita fino alla metà degli anni ‘30, furono una miscela di gruppi etnici, la maggior parte provenienti dal Giappone, Filippine e Hawai. Circa la metà del campione (54%) era cresciuto in povertà, allevati da padri che erano operai, non qualificati o semi-qualificati, in piantagioni di ananas e da madri che non avevano conseguito nemmeno il diploma di scuola superiore.

Circa un terzo di questi neonati, infatti, per la psicologia classica avevano tutti i pre-requisiti per una prognosi di disagio psichico o sociale, in quanto esposti a diversi fattori di rischio (nascita difficile, povertà e miseria, famiglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, aggressività e violenza etc.).

Gli autori della ricerca utilizzarono una duplice prospettive per valutare la qualità di adattamento dei soggetti dello studio. Una prima prospettiva venne acquisita attraverso un’intervista semistrutturata che si concentrava sulla sviluppo mentale relativo ai compiti inerenti all’età adulta. Le risposte alle domande dell’intervista, infatti, permisero di effettuare giudizi circa la capacità dei soggetti di raggiungere esiti positivi nelle sfere dell’identità, intimità e generatività.

Una seconda prospettiva complementare sulla qualità di adattamento dei soggetti appartenenti al campione fu stata raccolto a partire dagli archivi detenuti dalle comunità. Dal quartiere e i comuni di Kauai, Honolulu e sulle altre isole (Maui e Hawaii), furono ottenute le informazioni su ogni membro della coorte di nascita 1955, recuperando i dati relativi al compimento di delitti, cause civili, matrimoni finiti con divorzi, in tempi successivi all’ultimo follow-up. Profili delinquenziali, di abuso infantile, utilizzo di sostanze stupefacenti, profili relazionali non riusciti, etc, furono considerati segnali di un esito negativo in riferimento all’adattamento nell’età adulta.

Contraddicendo le previsioni, un terzo di questi bambini (settantadue per la precisione) erano riusciti a migliorare la loro condizione ed erano diventati adulti in grado di creare delle relazioni stabili, capaci di impegnarsi sul lavoro e di prodigarsi per gli altri. Inoltre, fu possibile osservare come i fattori che più permisero a tali soggetti di far fronte alle difficoltà in modo positivo furono per lo più la presenza di un caregiver su cui poter contare, l’aver potuto ricevere un’accettazione incondizionata, il supporto di una grande fede religiosa, l’abitare in famiglie poco numerose con figli nati a distanza di tempo l’un dall’altro, nonché la capacità di riuscire ad attribuire un significato e un senso alla propria esistenza (Werner, 1993).

Il riscontrare in queste persone una possibilità di miglioramento, nonostante i tanti fattori di rischio, ha aperto un ambito di studi sulla conoscenza di quei fattori di protezione che possono favorire uno sviluppo adeguato.

Comprendere cosa avesse reso resilienti quei settantadue bambini, consentì di spostare l’ottica dall’analisi delle condizioni che rappresentavano fonti di disagio, ovvero sulla carenza e sulla vulnerabilità, verso l’indagine e successivamente la presa in carico e cura di quelle risorse individuali e familiari che consentono alla persona di trovare un compromesso e un equilibrio tra le proprie risorse e i propri limiti, comprendendo come l’esperienza traumatica (che pur rimane scolpita nel profondo dell’animo), possa divenire – paradossalmente - un’ occasione formativa di crescita personale.

Infine, come sottolineano Atkinson, Martin e Rankin (2010), è necessario far riferimento a due aspetti dell’indagine circa le prospettive storiche sulla resilienza. In primo luogo, infatti, l’analisi si sofferma sulla considerazione di singoli casi e di gruppi (“le cosiddette storie eroiche”, Atkinson et al., 2010, pag. 23), che hanno la potenzialità di poter fornire qualche idea sui fattori che possono condurre alla resilienza. I conflitti mondiali del XX secolo, ad esempio, costituiscono una ricchissima fonte di “storie eroiche”, che aiutano a far luce sul concetto di resilienza. Basti pensare a specifici gruppi, come ad esempio i sopravvissuti dei campi di concentramento piuttosto che i prigionieri di guerra, i quali sembrano incarnare i principi della resilienza.

Riporto, a tale proposito, due esempi: il primo, si rifà alla storia traumatica di Boris Cyrulnik, il quale rimase orfano dei genitori a causa dello sterminio nazista. Cyrulnik riferendosi anche ai tentativi dei superstiti dell’Olocausto di cercare nuovamente di fornire di un senso la propria vita, affermò che riuscire a sopravvivere ad una storia tanto traumatica aiutava le persone a sviluppare ed utilizzare nuove risorse (Atkinson et al., 2010).

Per quanto riguarda il secondo esempio, che illustra la condizione di prigionia, invece, credo che basti riportare uno stralcio della storia biografica di Trudi Birger, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, strappata alla morte poco prima di essere avviata al forno crematorio del campo di concentramento di Stutthof: “… mia madre e io fummo mandate a preparare le postazioni per i carri armati destinati alla difesa della città contro l’avanzata russa. Era il lavoro più duro che avessimo mai fatto. Ciononostante, come nel ghetto, cercavo di andare a lavorare con un sorriso stampato in faccia. Malgrado i disagi e la sofferenza, mi bastava poco per apprezzare la vita: un raggio di sole, uno stelo d’erba da succhiare, un sogno. Mi aggrappavo ostinatamente alla speranza e incoraggiavo le altre prigioniere perché non sprofondassero nella tristezza” (Birger, 1999, p115).

Vanderpol (in Coutu, 2002), presidente fondatore della Boston Psychoanalytic Society and Institute, riguardo alle vittime dell’Olocausto, affermò che molti dei sopravvissuti sani dei campi di concentramento avevano quello che lui chiamava “scudo plastico”. Tale scudo era formato da una molteplicità di fattori, incluso un marcato senso di humour e l’abilità di stringere stretti rapporti con gli altri individui, possedendo uno spazio psicologico interiore che li proteggeva dalle intrusioni abusive degli altri.

In secondo luogo, Atkinson et al. (2010) sostennero che l’analisi si concentra sulle ricerche condotte su gruppi di persone, le quali hanno dovuto affrontare eventi stressanti e traumatici di grave intensità. Tali ricerche forniscono informazioni preziose sulla resilienza, nonostante gli autori sottolineino l’importanza di usare particolare cautela, dal momento che tali studi sono limitati alle persone sopravvissute e non è possibile verificare a posteriori le caratteristiche degli individui non sopravvissuti. A proposito di tale branca di studi, facciamo riferimento allo studio condotto da Favaro, Rodella, Colombo & Santonastaso, (1999), cinquant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per valutare il disturbo post-traumatico da stress e la depressione nei soggetti sopravvissuti ai campi di concentramento. Il campione fu diviso in due gruppi; la ricerca, infatti, valutò il PTSD su 51 soggetti italiani (45 uomini e 6 donne) deportati a causa di motivi non etnici, ma politici, utilizzando come gruppo di controllo 47 partigiani (41 uomini e 6 donne) che avevano combattuto nella Resistenza italiana, in modo tale da poter confrontare due gruppi caratterizzati da esperienze differenti ma ugualmente altamente traumatiche, appartenenti allo stesso momento storico e popolazione. Il primo gruppo fu selezionato consultando le liste dell’Associazione Nazionale degli Ex Deportati e i criteri di selezione furono tre: i soggetti dovevano essere stati necessariamente deportati in campi di concentramento, dovevano avere un’età tra i 16 e i 26 anni e dovevano abitare, al momento della ricerca, in determinate aree geografiche; il secondo gruppo, invece, fu selezionato consultando le liste dell’Associazione Nazionale degli Ex Partigiani e i criteri di selezione furono tre: i soggetti dovevano necessariamente aver partecipato ad azioni di combattimento o dovevano aver sofferto a causa di altri eventi che minacciassero la loro vita o eventi traumatici durante la guerra, avere un’età tra i 16 e i 26 anni e abitare nelle stesse zone indicate anche per gli ex deportati.

Molte delle esperienze traumatiche riportate sono comuni a tutti i sopravvissuti. Questi sono: la cattura; il lungo viaggio nel treno affollato destinato al campo, l’essere stati spogliati e rasati le docce con acqua gelata e poi bollente; disinfestazione, l’essere privati del nome e l’aver tatuato un numero sul braccio, il dover lavorare 11-12 ore al giorno, l’essere spesso insultati, il non avere una protezione sufficiente dal freddo; il ricevere cibo insufficiente, il dover vivere in condizioni igieniche precarie e il dover essere testimoni della morte di molti detenuti a causa di tutte le privazioni del campo. Altri eventi traumatici sono stati riportati da parte del campione. Prima dell’internamento, ad esempio, l’ essere picchiati (27%) e torturati (16%). Durante l’internamento: l’essere stati ripetutamente maltrattati e picchiati (92%), l’essere vittima di trattamenti particolarmente crudeli e umilianti (35%), la presenza nel campo dei familiari (16%), l’essere stati testimone di atrocità (come l’uccisione di un bambino) o dell’esecuzione di altri detenuti (41%), la partecipazione alle selezioni per la camera a gas (20%); l’essere stati sottoposti ad esperimenti medici (8%), l’essere stati costretti a perpetrare atrocità su altri prigionieri (8%).

Tra gli ex-partigiani le esperienze traumatiche riportate furono: la partecipazione in combattimento attivo (54%); l’essere stati testimoni dell’uccisione o esecuzione dei compagni (24%); essere stati catturati e interrogati (30%); l’essere stati torturati (4%). Lo studio conclude riportando un elevato tasso di PTSD e depressione superiore alla norma in entrambi i gruppi, evidenziando livelli più elevati nei deportati politici. La spiegazione di tale fenomeno è stata individuata dagli Autori in due principali fattori; in primis indicano il fatto che, differentemente dai deportati politici, i sopravvissuti all’olocausto furono vittime delle persecuzione razziale per molti anni prima della deportazione, sottoponendoli ai fattori traumatici per un tempo superiore rispetto agli ex partigiani. Inoltre, l’olocausto ha avuto un impatto sulla totalità della vita dei sopravvissuti, avendo perso famiglia, casa, la propria origine e tradizione sociale e dovendo, in molteplici casi, emigrare, differentemente dai deportati politici, che in seguito alla liberazione, tornarono nelle loro dimore. La differenza, inoltre, è probabilmente dovuta al fatto che partigiani volontariamente avevano scelto di partecipare al movimento di Resistenza; l’essere un partigiano, dunque, sembra diventare un fattore di protezione, contro il trauma e il disagio subiti dai sopravvissuti dell’Olocausto.

Anche 50 anni dopo la liberazione, gli effetti del l’internamento nei campi di concentramento nazisti risultano ancora presenti. Il campione di deportati politici segnala, infatti, un’alta prevalenza di PTSD e disturbo depressivo maggiore. Il confronto con un gruppo controllo di soggetti di età simile porta gli autori ad ipotizzare che la differenze tra i due gruppi nascono dall’aver vissuto il trauma estremo di deportazione e di internamento (Favaro et al, 1999).

Comprendiamo dunque come la resilienza sia un costrutto complesso dotato di caratteristiche trasversali a molti aspetti della vita individuale e collettiva. È inoltre un attributo che nell’essere umano non è mai stabile, dipendendo dalla presenza di alcuni fattori ambientali, soggettivi e relazionali che sono in grado di favorirne o inibirne lo sviluppo ed il mantenimento nel tempo.