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La tutela penale in materia di mobbing

Attualmente, in Italia il mobbing rappresenta un fenomeno sociale che non ha ancora ricevuto una specifica attenzione legislativa; tuttavia, nel nostro ordinamento tale fattispecie non è priva di tutela, potendosi, infatti, individuare nelle disposizioni in vigore strumenti legislativi idonei a garantire la difesa della salute fisica e psicologica dei lavoratori.

Sotto il profilo della tutela di rango costituzionale, infatti, l’art. 32 della Cost. prescrive il diritto inviolabile alla salute dell’individuo e della collettività; il successivo art. 41 prevedendo, poi, il principio della libertà di iniziativa economica privata, stabilisce che la stessa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Dal punto di vista civilistico, il mobbing risulta già preso in considerazione dalla giurisprudenza civile quale titolo risarcitorio in forza dell’art. 2087 c.c., che impone aldatore di lavoro di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica.

Una più specifica tutela è, poi, prevista dalla legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), la quale, tra le varie disposizioni, salvaguarda il diritto del dipendente alla salute e dell’integrità fisica (art. 9), impedisce che allo stesso possano essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento (art. 13), e prescrive il divieto di atti discriminatori per motivi politici o religiosi (art. 15).

Sotto diverso profilo, infine, il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la tutela della sicurezza, della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori.

In termini civilistici, dunque, l’incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva prevalentemente dalla violazione di quella norma, rappresentata dall’art. 2087 c.c., che si assume contrattualizzata indipendentemente da una specifica previsione delle parti, e che genera, quindi, una responsabilità, in capo al datore di lavoro, di risarcire il danno sia al patrimonio professionale (c.d. danno da dequalificazione), sia alla personalità morale e alla salute (c.d. danno biologico) subiti dal lavoratore, essendo indubbio che l’obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell’art. 2087 c.c. "non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, bensì (come emerge dall’interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica altresì il dovere di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psicofisica del lavoratore" (Cass. civ., sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768).

LA TUTELA PENALE

Per quanto attiene, invece, la tutela e la responsabilità penale, il mobbing non ha una specifica collocazione nel diritto quale autonoma e precipua fattispecie criminosa, dal momento che la legislazione vigente non prevede alcuna ipotesi di reato a carico del datore di lavoro per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui tenute nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore. [1]

Di conseguenza, la condotta costituente mobbing viene fatta rientrare, di volta in volta, in fattispecie diverse, che, tuttavia, non sempre sembrano adeguate a disciplinare appieno il fenomeno.

In tal senso si è altresì espressa la Corte di Cassazione sottolineando «la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione» (Cass., Sez. V, 9 luglio 2007, n. 33624).

Allo stato attuale, infatti, i fatti di mobbing possono assumere specifica rilevanza solo ove la condotta vessatoria integri gli estremi di specifici reati, quali:

  • ingiuria (art. 594 c.p.), ossia l’offesa all’onore o al decoro di una persona presente, anche commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta;
  • diffamazione (art. 595 c.p.), vale a dire la lesione della reputazione di un soggetto;
  • molestia o disturbo alle persone (660 c.p.), corrispondente alla condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, rechi a taluno molestia o disturbo.
  • violenza privata (art. 610 c.p.), ossia il comportamento di chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa;
  • violenza sessuale (art.609-bis c.p e seguenti);
  • abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), nell’ambito di un rapporto d’impiego all’interno della Pubblica Amministrazione
  • lesioni (artt. 582-583 c.p), in ragione, quando meno, dell’indebolimento permanente della funzione psichica;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.). Tale disposizione, tra le varie ipotesi, sanziona chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Come si è detto, dunque, allo stato attuale non esiste una fattispecie penale precisa e onnicomprensiva del mobbing, sebbene da varie parti, anche mediante la presentazione di alcuni progetti di legge [2], se ne postuli l’introduzione. [3]

La sussunzione della condotta qualificante mobbing in una fattispecie penalmente rilevante incontra, infatti, non poche difficoltà, con particolare riferimento al rispetto del principio di legalità e tassatività del reato, enunciato agli artt. 25, comma 2 Cost. e 1 c.p., che impone una puntuale formulazione, da parte del legislatore, delle fattispecie legali cui il precetto si applica. Non sempre, infatti, appare possibile far rientrare il comportamento costituente mobbing nelle norme incriminatici esistenti.

In altri termini, l’interpretazione estensiva e l’ermeneutica giurisprudenziale della singola fattispecie prevista dalla norma incriminatrice ai fini della sua applicazione ai casi di mobbing, non espressamente sussunti in essa, non può travalicare in quell’analogia in malam partem vietata nel diritto penale, ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c.c..

Sotto un diverso aspetto, poi, la legge penale garantisce la libertà individuale subordinando la punibilità di colui che viola la norma incriminatrice alla presenza di coefficienti soggettivi e oggettivi previsti agli artt. 40 e seguenti c.p.

In relazione al profilo soggettivo di imputazione del fatto, infatti, trasponendo i principi di diritto penale al mobbing, occorre conseguenzialmente valutare se la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore sia riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, derivante da negligenza, imprudenza, imperizia o da violazione di specifiche norme, ovvero ad una condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro.

Al riguardo, anche in base alle indicazioni della giurisprudenza (Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 1991), il criterio di imputazione della responsabilità non può prescindere dall’analisi delle modalità estrinseche di concreta manifestazione della condotta criminosa, e da un’attenta valutazione di ogni profilo circostanziale del fatto.

La prova della natura dolosa o colposa del reato deve, quindi, dedursi complessivamente sia dalla condotta dell’imputato, sia dalle circostanze di fatto che concorrono a costituire l’azione criminosa, e nelle quali si riverbera la coscienza e l’atteggiamento della volontà dell’agente. [4]

Applicando questi criteri alle fattispecie qualificabili come mobbing, si rileva come, in effetti, il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità per le lesioni dell’integrità psicofisica del lavoratore risulta necessariamente essere quello del dolo, presumibilmente nella sua forma tipica diretta o intenzionale.

Tale condotta, infatti, come analizzata dalla medicina del lavoro e definita dai progetti di legge sul tema [5], è caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche dall’intento persecutorio di molestare, terrorizzare, discriminare ed emarginare il lavoratore o di instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto relativo al nesso di causalità, secondo le regole generali previste ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dagli artt. 40  e 41 c.p., risulta necessario dimostrare la derivazione causale della malattia del lavoratore quale conseguenza immediata e diretta della condotta mobbizzante che, a sua volta, deve rappresentare l’unica, o quantomeno la preminente causa  idonea a determinare tale evento dannoso.

Quest’ultimo profilo di valutazione, attinente alla prova del nesso causale tra lavoro e malattia, in particolare tra il mobbing e i disturbi lamentati dal soggetto, risulta l’aspetto maggiormente difficile da dimostrare per il lavoratore, considerato che i disturbi tipici dello stress sono, per loro natura, multifattoriali e quindi possono essere dovuti anche a fattori diversi dal mobbing.

IN PARTICOLARE:

- RAPPORTI CON IL DELITTO DI MALTRATTAMENTI

Come si è detto, pur mancando una precisa figura incriminatrice penale di tale fattispecie, la figura di reato più prossima al mobbing risulta quella dei maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione (art. 572 c.p.), per la cui punibilità deve essere verificata la serie complessiva degli episodi lesivi contestati, in ordine alla loro sistematicità e durata dell’azione e nel tempo, le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione della condotta.

Sul punto, l’orientamento prevalente della giurisprudenza si è assestato, infatti, proprio sulla configurabilità del mobbing nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 572 c.p., caratterizzata da una serie di comportamenti abitudinari, non necessariamente violenti, ma caratterizzati da un intento vessatorio dal punto di vista morale, realizzato mediante  una varia gamma di condotte che siano legate in una sorta di sistema di vita, o comunque da dolo unitario (Cass., sez. VI, 22 gennaio 2001, Erba, rv 218201) .

Nonostante l’incipit «chiunque», il reato in esame appartiene, invero, alla categoria dei reati cd. propri, ossia quelli in cui l’autore è un soggetto rivestito di specifiche connotazioni con riferimento, in questo caso, al rapporto che intercorre con la vittima. L’art. 572 del vigente codice ha, infatti, ampliato la categoria delle persone che possono essere vittima di maltrattamenti, aggiungendo nella previsione normativa ogni persona sottoposta all’autorità dell’agente, ovvero al medesimo affidata per ragioni d’istruzione, educazione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

La ratio della disposizione si ravvisa, dunque, nello stato di soggezione in cui possa trovarsi il soggetto passivo in relazione al rapporto d’autorità che si instaura in dette situazioni (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato, ecc). 

Nel caso del mobbing, il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, può, appunto, permettere di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente (v. Cassazione penale, sez. III, 05 giugno 2008,  n. 27469, sez. V n. 33624 del 09/07/2007 , sez. VI n. 10090 del 12 marzo 2001,).

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, la nozione di maltrattamenti sottesa all’art. 572 c.p. si pone, infatti, in rapporto di genere a specie rispetto al lineamento concettuale del mobbing, condividendo, l’una e l’altra fattispecie, il dato della serialità delle condotte offensive e della loro sistematicità ed unitarietà, quello della corrispondente strumentalità, rispetto alla produzione dell’effetto dannoso voluto (in capo al soggetto “bersaglio”) e quello dell’intenzionalità del contegno attuato. 

Dalla disamina operata in parallelo tra le caratteristiche del mobbing giuslavorativamente inteso ed il reato di cui all’art. 572 c.p. emergono, quindi, svariati punti di contatto, che giustificano la punizione dell’autore anche in sede penale, tuttavia va segnalato che i due fenomeni non coincidono specularmente (v. Cassazione Penale, Sez. 4, 26 giugno 2009, n. 26594). 

In primo luogo, infatti, con la citata sentenza la Suprema Corte ha delimitato l’ambito applicativo del reato previsto dall’art. 572 c.p. alle fattispecie costituenti mobbing precisando, appunto, come in tale circostanza il rapporto lavorativo dedotto, avuto riguardo alla dell’art. 572 c.p., debba comunque essere caratterizzato da "familiarità", nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della famiglia, deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole.

A parere della Corte, dunque, il reato di maltrattamenti potrebbe ipotizzarsi soltanto nel limitato contesto di un rapporto lavorativo di natura para-familiare e non, invece, nel caso in cui tale fenomeno si abbia a manifestare nell’ambito di un’articolata organizzazione aziendale, come tale priva quell’aspetto personalistico e relazionale richiesto dall’art. 572 c.p.. 

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, inoltre, va osservato che, mentre nel mobbing l’agente aspira ad un risultato ben preciso, consistente nell’intento specifico di emarginare il lavoratore dal contesto lavorativo ledendone la dignità, fino a determinarne, in alcuni casi, il licenziamento, nel delitto di maltrattamenti, invece, l’agente si prefigge il più generico scopo di far soffrire, prevaricare, e dimostrare la propria autorità nei confronti della vittima. [6]

Qualora, dunque, si accerti che lo scopo dell’autore del fatto, perseguito con il suo comportamento o col consentire ad altri di vessare un collega, non ha ad oggetto la sottoposizione del soggetto passivo a sofferenza (dolo ex art. 572 c.p.), bensì esclusivamente altre finalità (licenziamento del dipendente) il reato di maltrattamenti potrebbe ragionevolmente non sussistere.

- RAPPORTI CON IL DELITTO DI VIOLENZA PRIVATA 

Sotto diverso aspetto, la condotta vessatoria di un datore di lavoro che sia tale da  determinare  nel soggetto passivo, attraverso la costante pressione di una minaccia più o meno velata, una condizione patologica tale da sfociare poi in una sindrome postraumatica da stress,  può altresì qualificare la fattispecie della violenza privata di cui all’art. 610 c.p. (v. Cass., Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413) .

A norma di tale articolo, infatti, è punito chi, con violenza o minaccia, costringa altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. 

A parere dei giudici di legittimità, gli estremi di tale delitto possono risultare, infatti, integrati, quantomeno sotto l’aspetto del tentativo, nella condotta del datore di lavoro che, al fine di favorire le dimissioni di alcuni lavoratori, ovvero la novazione del rapporto di lavoro in senso ad essi sfavorevole, li destini ad un ambiente di lavoro segregato e avvilente, senza affidare loro alcuna mansione di rilievo, e separandoli, di fatto, dal corpo produttivo dell’azienda.

Come rilevato dalla Suprema Corte nel 2006, infatti, nel sistema vigente, nelle ipotesi di ristrutturazione delle aziende di dimensioni ragguardevoli, il datore di lavoro che intenda risolvere il problema degli esuberi di personale e garantirsi la legittimità del proprio operato deve necessariamente ricorrere agli ammortizzatori sociali ed alle procedure formali predisposte dalla normativa lavoristica (v ad es. L. 223/ 1991). Di conseguenza, qualsiasi diversa risoluzione lo espone non soltanto al sindacato del giudice del lavoro, ma anche, quando vi è il ricorso a strumenti coartatori con sconfinamento in attività previste come reato, a quello del giudice penale.

La marginalizzazione di un lavoratore subordinato dal contesto produttivo, se finalizzata ad ottenere il consenso ad un accordo di dequalificazione, può, dunque, configurare un tentativo di violenza privata. 

Anche in questo caso, tuttavia, la sovrapponibilità del mobbing alla fattispecie di cui all’art. 610 c.p., presenta alcuni aspetti problematici. La figura criminosa in analisi postula, infatti, l’assunzione di comportamenti che siano illeciti in re ipsa, mentre, come si è detto, il mobbing può diversamente consistere anche in più atteggiamenti singolarmente conformi all’ordinamento.[7]

L’art. 610 c.p. può, pertanto, dar luogo ad una repressione penale di fatti di mobbing, esclusivamente nei casi in cui l’agente impieghi, nei confronti del lavoratore, mezzi di costrizione della volontà, informati a violenza e/o minaccia. 

Inoltre, come già evidenziato con riferimento al delitto di maltrattamenti, anche in tale ipotesi va segnalata una differenza tra le due fattispecie sotto il profilo dell’elemento psicologico, ravvisabile,  nel mobbing, nella persecuzione sistematica finalizzata  all’isolamento lavorativo del dipendente e, nell’altra, del tutto differentemente, nella coercizione della volontà altrui, quanto al fare, al non fare, al tollerare qualcosa.

- IL MOBBING NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E RAPPORTI CON IL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO. 

Con differenti decisioni, la Cassazione si è altresì pronunciata sulla rilevanza penale del mobbing all’interno della Pubblica Amministrazione, con particolare riferimento alla sussunzione del fenomeno nella fattispecie di abuso d’ufficio previsto all’art. 323 c.p. (v. Cass., Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891). 

Ai sensi di tale norma, è punito «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto».

Al riguardo, va evidenziato che, con legge 16 luglio 1997 n. 234, il legislatore ha modificato la struttura oggettiva della fattispecie sul modello dei reati di evento, facendo coincidere il nucleo centrale del fatto punibile con la produzione di un vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto.

Come si nota, a differenza del vantaggio richiesto dalla norma in esame,  che deve essere patrimoniale, l’evento di danno è, invece, menzionato nella fattispecie senza alcuna specificazione, con la conseguenza che il pregiudizio arrecato a terzi può avere tanto carattere patrimoniale quanto carattere non patrimoniale e può, dunque, sussistere anche allorquando il pubblico dipendente subisca lesioni di ordine biologico, morale o esistenziale a seguito della condotta mobbizzante.[8] 

La legge subordina, tuttavia, la punibilità dell’abuso al fatto che codesto avvenga con modalità tipiche, vale a dire «in violazione di norme di legge o di regolamento». 

Al riguardo, la richiamata giurisprudenza, trattando un caso di mobbing (v. Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891), ha individuato la ricorrenza di tale elemento richiesto dall’art. 323 c.p. nel demansionamento del dipendente pubblico, se adottato dal dirigente in evidente violazione di disposti normativi o di previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali (v. D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 sui dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e dell’art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel D.P.R. n. 593 del 1993). 

In seconda analisi, per quanto attiene l’elemento soggettivo del reato, l’abuso, per essere punibile, deve altresì essere commesso intenzionalmente: ossia mediante la rappresentazione e volizione dell’evento di danno altrui, ragionevolmente qualificabile "ingiusto", come conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito (cfr. Cass. Sez VI, sent. 28 gennaio 2008, n. 7973).

Sarà, dunque, configurabile il reato previsto all’art. 323 c.p. nel caso in cui l’intento del soggetto pubblicistico sia quello di recare un danno al dipendente mediante la reiterazione di comportamenti tesi a dequalificare professionalmente la parte lesa attraverso un’attività amministrativa illegittima. 

Anche la sussunzione del mobbing nel delitto di abuso d’ufficio incontra, tuttavia, le limitazioni proprie delle caratteristiche del reato in esame: in quanto reato “proprio”, infatti, può essere commesso esclusivamente da un soggetto che rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

In seconda analisi, è, poi, necessario che l’abuso sia realizzato “ nello svolgimento delle funzioni o del servizio” : sono, infatti, escluse dall’ ambito della norma quelle forme di abuso realizzabili dall’agente senza servirsi in alcun modo dell’ attività funzionale svolta, e cioè mediante il semplice sfruttamento della qualifica soggettiva o della sua posizione.

Di conseguenza, non solo il delitto sarà escluso ogniqualvolta il mobbing non venga commesso nell’ambito di un rapporto di lavoro presso la Pubblica Amministrazione, ma anche quando, pur all’interno di un ambito lavorativo pubblico, la condotta sia stata posta in essere in assenza dei presupposti normativi sopra evidenziati.

- RAPPORTI CON LO STALKING 

Proprio le difficoltà incontrate nell’individuare un’efficace tutela penale a favore della vittima di mobbing, hanno, quindi, determinato il proliferare di nuove proposte anche in sede legislativa.

Il legislatore italiano, infatti, intendendo colmare una lacuna del nostro ordinamento, che in tema di molestie/stalking non prevedeva alcuna sanzione, con D.L. 23 febbraio 2009, n.11 (convertito con modifiche dalla L. n. 38 del 23 aprile 2009) ha introdotto nel codice penale  la norma di cui all’art. 612-bis rubricata “atti persecutori”.

Si tratta, invero, di un intervento  legislativo che corrisponde a una strategia di cd. “disciplina integrata”, vale a dire che non si limita ad inserire una nuova incriminazione nel codice penale, ma che prevede altresì un insieme di altre disposizioni riguardanti i provvedimenti cautelari, la normativa civilistica in materia di  allontanamento dalla casa familiare ed i poteri di polizia, mediante l’introduzione della nuova misura dell’ammonimento da parte del questore. [9]

Tale norma, al comma 1, dispone che: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque con  condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia e di paura ovvero di ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria  o di un prossimo congiunto o da persona legata al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Ai sensi dell’art. 612 bis c.p. diviene, quindi, autonomamente punibile la condotta di chi ponga in essere una serie di comportamenti assillanti - rappresentati da pedinamenti, telefonate  indesiderate o messaggi di posta elettronica, minacce, ingiurie, violenze, danneggiamenti di cose di proprietà della vittima - tali da comportare delle conseguenze psichiche dannose sulla vittima. 

La difficoltà descrittiva del fenomeno – evidenziata anche in questo caso dal necessario ricorso ad un termine tratto dal linguaggio inglese della caccia (“stalking”) che, al pari del mobbing, evoca l’idea di un agguato predatorio – comporta, anche in questo caso, l’ulteriore problematica connessa al sopra evocato rispetto delle garanzie penalistiche  della determinatezza del fatto incriminato.

Per ovviare a tale difficoltà, il legislatore ha, dunque, provveduto a tipizzare la condotta tipica del reato di cui all’art. 612-bis c.p. attraverso il riferimento alternativo ad elementi descrittivi di altre fattispecie di reato tradizionalmente previste nel nostro ordinamento, quali quelle delle sopra descritte “minaccia” e “molestie”, che potessero presentare delle affinità con le condotte persecutorie più frequentemente ricorrenti nella vita sociale attuale. 

Peraltro, con riguardo al fenomeno del mobbing, va rilevato che già la Corte di Cassazione, con la richiamata sentenza n. 26594/2009, emessa poco prima dell’entrata in vigore della legge n. 38/2009, nel ritenere che tale fattispecie potesse, in talune ipotesi, integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia ex 572 c.p., aveva già provveduto ha ricostruire gli elementi tipici di tale fattispecie in maniera analoga a quella prevista all’art. 612 bis c.p., ossia connotandola dai seguenti tratti essenziali:

-determinate condotte, definite come “pratiche persecutorie”;

-una particolare vittima, il “lavoratore dipendente”;

-uno scopo specifico di “emarginazione” del soggetto passivo. 

Come si vede, dunque, nel mobbing i comportamenti persecutori, significativamente definiti “pratiche” dalla citata giurisprudenza, risultano connotati da quello stesso requisito della reiterazione seriale che connota anche le condotte incriminate come stalking, realizzate, anche in questo caso, attraverso comportamenti minacciosi o molesti.

Pur non trattandosi propriamente di una norma penale riferibile agli ambiti lavorativi, va rilevato, infatti, che, anche con riferimento al reato previsto all’art. 612-bis c.p., possono riscontrarsi dei collegamenti incidentali fra situazioni interne ed esterne al lavoro (ad es. lo stalking “occupazionale”, come eventuale dinamica a supporto del mobbing, le persecuzioni e molestie a carico del lavoratore o di persone vicine, etc.).

Le condotte persecutorie incriminate dalla ricordata disposizione penale sono, dunque, compatibili nell’ambito un rapporto di lavoro tra vittima e persecutore, di conseguenza può ragionevolmente ravvisarsi il reato in esame nel caso in cui la vittima sia un lavoratore dipendente subordinato all’autorità dell’aggressore (datore di lavoro o superiore gerarchico). 

La condotta tipica punita nel reato di stalking si pone, dunque, in un rapporto di genere a specie con l’affine fenomeno di mobbing, dal quale si differenzia, appunto, poiché presuppone che la condotta persecutoria si manifesti, più in generale, nell’ambito della vita privata della vittima e non specificamente sul posto di lavoro. 

Il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. è poi un delitto a dolo generico, di tal che, una volta che vi sia volontà e consapevolezza delle condotte realizzate e degli eventi cagionati, la circostanza che l’agente persegua anche una sua particolare finalità - quella cioè di emarginazione sociale della vittima in ambito lavorativo - non esclude certo la ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato.

D’altro canto, proprio il particolare scopo di emarginazione che caratterizza il cd. mobbing può determinare, piuttosto che un improbabile e certamente più raro stato di grave e perdurante paura o il timore per l’incolumità personale propria o altrui, uno stato grave e perdurante di ansia ed ancor più un mutamento delle abitudini di vita della vittima.

Posto, infatti, che l’analogia tra i due fenomeni si manifesta, soprattutto, nella determinazione della conseguenza lesiva di tale condotta, usualmente descritta in letteratura come disturbo post- traumatico da stress, va rilevato che, nel reato previsto ex art. 612-bis, gli effetti della condotta vessatoria sono stati tipizzati attraverso il riferimento alternativo a termini descrittivi, quali, ad esempio, lo stato di ansia o di paura, ulteriormente qualificato come “grave e perdurante”, il fondato timore della vittima per l’incolumità propria o di persone a lei vicine, nonché l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Elemento differenziale delle fattispecie descritte, è, tuttavia, anche in questo caso, che nel mobbing le singole condotte vessatorie sono sfumate e possono anche non assumere in sé rilevanza penale o di illecito civile, mentre nel caso del reato di atti persecutori ciò che caratterizza l’elemento costitutivo è che i comportamenti stalkizzanti costituiscono di per sé reati autonomi. Il reato si attua, infatti, attraverso minacce e molestie - insieme o in alternativa - e quindi con azioni che di per sé sono punibili come reato, poste in essere per un ulteriore scopo vietato dalla legge.   

CONCLUSIONE 

Pur nella consapevolezza della difficoltà di stabilire con precisione le fattispecie concrete degli atti e dei comportamenti attraverso i quali si possono verificare la violenza e la persecuzione psicologica ai danni dei lavoratori, è evidente che il mobbing in quanto tale dovrebbe trovare, nel nostro ordinamento, un’autonoma rilevanza penale e, dunque, una risposta sanzionatoria non limitata al risarcimento del danno davanti al giudice del lavoro.

Alla luce di quanto sopra evidenziato, si è visto, infatti, come la responsabilità penale dell’autore di mobbing risulta, infatti, ancora difficilmente dimostrabile.

Preso atto di tali differenze strutturali tra il mobbing e i delitti sopra esaminati, non resta che auspicare, quindi, l’introduzione di una normativa ad hoc, che, al pari di quanto è avvenuto con riferimento agli atti persecutori tipizzati nel reato di stalking ex art. 612-bis c.p., protegga finalmente la vittima con strumenti adeguati. 

Tuttavia, anche nella formulazione di una norma specifica sul tema, onnicomprensiva di tutti i possibili comportamenti di mobbing, sarà necessario rispettare il principio di legalità, sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie penale, ottemperando sempre al principio di meritevolezza della pena sotto il profilo della razionalità della fattispecie e dell’uguaglianza/ dissonanza punitiva fra i vari comportamenti criminosi. [10]

Per completezza di trattazione, va segnalato, al riguardo, che con legge 20 giugno 2008 n. 97, in tema di prevenzione e repressione della violenza contro le donne, la Repubblica di San Marino ha introdotto norme particolarmente innovative in materia di mobbing e stalking, disciplinando, prima che in Italia, la fattispecie penale di atti persecutori, non soltanto riferita allo stalking, bensì anche al fenomeno di mobbing.

L’art. 13, l. 97/2008, introduce, infatti, nel codice penale sanmarinese del 1975 il nuovo reato di atti persecutori (art. 181 bis c.p. S. Marino), che si compone di due fattispecie distinte, la prima della quale attiene al fenomeno dello stalking, mentre la seconda, specificamente riferita al mobbing, prevede che: "Qualora le molestie o le minacce di cui al primo comma siano poste in essere nel luogo di lavoro sotto forma di sistematiche e ripetute angherie e pratiche vessatorie compiute dal datore di lavoro o da colleghi allo scopo di svalutare professionalmente, umiliare, isolare un lavoratore, nel tentativo di indurlo, dopo avergli procurato gravi sofferenze psicofisiche, alle dimissioni, la pena è aumentata di un grado".

Benché con una formulazione migliorabile, la Repubblica di San Marino offre, dunque, al nostro Paese un valido strumento di comparazione per l’introduzione nel nostro ordinamento di una analoga fattispecie penale. Allo stato attuale, infatti, l’evidenziato  lavoro operato dai giudici, sia di merito che di legittimità, si sta configurando sostanzialmente come suppletivo di quello del legislatore, ancora inadempiente anche rispetto a una direttiva del Parlamento Europeo del 2002 [11] che espressamente richiedeva la predisposizione di misure legislative idonee a prevenire e reprimere efficacemente il fenomeno del mobbing e nel contempo a definirne la fattispecie.

Per quanto, infatti, l’orientamento giurisprudenziale attuale appaia favorevole nel definire come reato criminale il mobbing, si è visto come non sia certo sufficiente, nel nostro ordinamento, una tutela affidata a questo genere di decisioni, basate, appunto, sulla prossimità alle altre fattispecie previste dal codice penale.

E’, quindi, auspicabile che presto venga dato corso ad un disegno di legge omogeneo che recepisca gli orientamenti internazionali e nazionali su questo tema molto delicato, soprattutto in un periodo di pesante crisi economica come quello attuale, che rischia di incentivare il fenomeno, alimentando ulteriori tensioni e incertezze sul luogo di lavoro. 

[1]C. Perini, La tutela penale del mobbing, in A.a.V.v., Mobbing, organizzazione, malattia professionale, (Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali), Utet, Torino.

[2] v. ad es. DDL C. 3048 del 15.12.2009

[3] P. Pittaro, Intervento programmato al Convegno su “Stalking e maltrattamento in famiglia: misure di contrasto e prevenzione” – Trieste – 3 ottobre 2007.

[4] P. Soprani, La sindrome da mobbing, su http://promo.24oreprofessioni.ilsole24ore.com

[5] V. Proposta di legge n. C-6410 del 30/9/1999 e proposta di legge n.C-1813 del 9/6/1996.

[6]Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982

[7] F. Ferrari “Se il dipendente è confinato nel lager mobbing il persecutore è perseguibile”, D&G, n. 38/06.

[8] G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, 4ª ed., Bologna, 2007.

[9]  G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto Penale. Parte speciale, vol. II, tomo II, ed. II (addenda), Bologna, 2009

[10] P. Pittaro, Intervento programmato al Convegno su “Stalking e maltrattamento in famiglia: misure di contrasto e prevenzione”, cit.

[11]Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13/6/2002 (modifica alla Direttiva 76/207/CEE)

Attualmente, in Italia il mobbing rappresenta un fenomeno sociale che non ha ancora ricevuto una specifica attenzione legislativa; tuttavia, nel nostro ordinamento tale fattispecie non è priva di tutela, potendosi, infatti, individuare nelle disposizioni in vigore strumenti legislativi idonei a garantire la difesa della salute fisica e psicologica dei lavoratori.

Sotto il profilo della tutela di rango costituzionale, infatti, l’art. 32 della Cost. prescrive il diritto inviolabile alla salute dell’individuo e della collettività; il successivo art. 41 prevedendo, poi, il principio della libertà di iniziativa economica privata, stabilisce che la stessa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Dal punto di vista civilistico, il mobbing risulta già preso in considerazione dalla giurisprudenza civile quale titolo risarcitorio in forza dell’art. 2087 c.c., che impone aldatore di lavoro di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica.

Una più specifica tutela è, poi, prevista dalla legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), la quale, tra le varie disposizioni, salvaguarda il diritto del dipendente alla salute e dell’integrità fisica (art. 9), impedisce che allo stesso possano essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento (art. 13), e prescrive il divieto di atti discriminatori per motivi politici o religiosi (art. 15).

Sotto diverso profilo, infine, il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la tutela della sicurezza, della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori.

In termini civilistici, dunque, l’incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva prevalentemente dalla violazione di quella norma, rappresentata dall’art. 2087 c.c., che si assume contrattualizzata indipendentemente da una specifica previsione delle parti, e che genera, quindi, una responsabilità, in capo al datore di lavoro, di risarcire il danno sia al patrimonio professionale (c.d. danno da dequalificazione), sia alla personalità morale e alla salute (c.d. danno biologico) subiti dal lavoratore, essendo indubbio che l’obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell’art. 2087 c.c. "non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, bensì (come emerge dall’interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica altresì il dovere di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psicofisica del lavoratore" (Cass. civ., sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768).

LA TUTELA PENALE

Per quanto attiene, invece, la tutela e la responsabilità penale, il mobbing non ha una specifica collocazione nel diritto quale autonoma e precipua fattispecie criminosa, dal momento che la legislazione vigente non prevede alcuna ipotesi di reato a carico del datore di lavoro per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui tenute nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore. [1]

Di conseguenza, la condotta costituente mobbing viene fatta rientrare, di volta in volta, in fattispecie diverse, che, tuttavia, non sempre sembrano adeguate a disciplinare appieno il fenomeno.

In tal senso si è altresì espressa la Corte di Cassazione sottolineando «la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione» (Cass., Sez. V, 9 luglio 2007, n. 33624).

Allo stato attuale, infatti, i fatti di mobbing possono assumere specifica rilevanza solo ove la condotta vessatoria integri gli estremi di specifici reati, quali:

  • ingiuria (art. 594 c.p.), ossia l’offesa all’onore o al decoro di una persona presente, anche commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta;
  • diffamazione (art. 595 c.p.), vale a dire la lesione della reputazione di un soggetto;
  • molestia o disturbo alle persone (660 c.p.), corrispondente alla condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, rechi a taluno molestia o disturbo.
  • violenza privata (art. 610 c.p.), ossia il comportamento di chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa;
  • violenza sessuale (art.609-bis c.p e seguenti);
  • abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), nell’ambito di un rapporto d’impiego all’interno della Pubblica Amministrazione
  • lesioni (artt. 582-583 c.p), in ragione, quando meno, dell’indebolimento permanente della funzione psichica;
  • maltrattamenti (art. 572 c.p.). Tale disposizione, tra le varie ipotesi, sanziona chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Come si è detto, dunque, allo stato attuale non esiste una fattispecie penale precisa e onnicomprensiva del mobbing, sebbene da varie parti, anche mediante la presentazione di alcuni progetti di legge [2], se ne postuli l’introduzione. [3]

La sussunzione della condotta qualificante mobbing in una fattispecie penalmente rilevante incontra, infatti, non poche difficoltà, con particolare riferimento al rispetto del principio di legalità e tassatività del reato, enunciato agli artt. 25, comma 2 Cost. e 1 c.p., che impone una puntuale formulazione, da parte del legislatore, delle fattispecie legali cui il precetto si applica. Non sempre, infatti, appare possibile far rientrare il comportamento costituente mobbing nelle norme incriminatici esistenti.

In altri termini, l’interpretazione estensiva e l’ermeneutica giurisprudenziale della singola fattispecie prevista dalla norma incriminatrice ai fini della sua applicazione ai casi di mobbing, non espressamente sussunti in essa, non può travalicare in quell’analogia in malam partem vietata nel diritto penale, ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c.c..

Sotto un diverso aspetto, poi, la legge penale garantisce la libertà individuale subordinando la punibilità di colui che viola la norma incriminatrice alla presenza di coefficienti soggettivi e oggettivi previsti agli artt. 40 e seguenti c.p.

In relazione al profilo soggettivo di imputazione del fatto, infatti, trasponendo i principi di diritto penale al mobbing, occorre conseguenzialmente valutare se la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore sia riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, derivante da negligenza, imprudenza, imperizia o da violazione di specifiche norme, ovvero ad una condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro.

Al riguardo, anche in base alle indicazioni della giurisprudenza (Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 1991), il criterio di imputazione della responsabilità non può prescindere dall’analisi delle modalità estrinseche di concreta manifestazione della condotta criminosa, e da un’attenta valutazione di ogni profilo circostanziale del fatto.

La prova della natura dolosa o colposa del reato deve, quindi, dedursi complessivamente sia dalla condotta dell’imputato, sia dalle circostanze di fatto che concorrono a costituire l’azione criminosa, e nelle quali si riverbera la coscienza e l’atteggiamento della volontà dell’agente. [4]

Applicando questi criteri alle fattispecie qualificabili come mobbing, si rileva come, in effetti, il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità per le lesioni dell’integrità psicofisica del lavoratore risulta necessariamente essere quello del dolo, presumibilmente nella sua forma tipica diretta o intenzionale.

Tale condotta, infatti, come analizzata dalla medicina del lavoro e definita dai progetti di legge sul tema [5], è caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche dall’intento persecutorio di molestare, terrorizzare, discriminare ed emarginare il lavoratore o di instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto relativo al nesso di causalità, secondo le regole generali previste ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dagli artt. 40  e 41 c.p., risulta necessario dimostrare la derivazione causale della malattia del lavoratore quale conseguenza immediata e diretta della condotta mobbizzante che, a sua volta, deve rappresentare l’unica, o quantomeno la preminente causa  idonea a determinare tale evento dannoso.

Quest’ultimo profilo di valutazione, attinente alla prova del nesso causale tra lavoro e malattia, in particolare tra il mobbing e i disturbi lamentati dal soggetto, risulta l’aspetto maggiormente difficile da dimostrare per il lavoratore, considerato che i disturbi tipici dello stress sono, per loro natura, multifattoriali e quindi possono essere dovuti anche a fattori diversi dal mobbing.

IN PARTICOLARE:

- RAPPORTI CON IL DELITTO DI MALTRATTAMENTI

Come si è detto, pur mancando una precisa figura incriminatrice penale di tale fattispecie, la figura di reato più prossima al mobbing risulta quella dei maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione (art. 572 c.p.), per la cui punibilità deve essere verificata la serie complessiva degli episodi lesivi contestati, in ordine alla loro sistematicità e durata dell’azione e nel tempo, le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione della condotta.

Sul punto, l’orientamento prevalente della giurisprudenza si è assestato, infatti, proprio sulla configurabilità del mobbing nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 572 c.p., caratterizzata da una serie di comportamenti abitudinari, non necessariamente violenti, ma caratterizzati da un intento vessatorio dal punto di vista morale, realizzato mediante  una varia gamma di condotte che siano legate in una sorta di sistema di vita, o comunque da dolo unitario (Cass., sez. VI, 22 gennaio 2001, Erba, rv 218201) .

Nonostante l’incipit «chiunque», il reato in esame appartiene, invero, alla categoria dei reati cd. propri, ossia quelli in cui l’autore è un soggetto rivestito di specifiche connotazioni con riferimento, in questo caso, al rapporto che intercorre con la vittima. L’art. 572 del vigente codice ha, infatti, ampliato la categoria delle persone che possono essere vittima di maltrattamenti, aggiungendo nella previsione normativa ogni persona sottoposta all’autorità dell’agente, ovvero al medesimo affidata per ragioni d’istruzione, educazione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

La ratio della disposizione si ravvisa, dunque, nello stato di soggezione in cui possa trovarsi il soggetto passivo in relazione al rapporto d’autorità che si instaura in dette situazioni (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato, ecc). 

Nel caso del mobbing, il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, può, appunto, permettere di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente (v. Cassazione penale, sez. III, 05 giugno 2008,  n. 27469, sez. V n. 33624 del 09/07/2007 , sez. VI n. 10090 del 12 marzo 2001,).

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, la nozione di maltrattamenti sottesa all’art. 572 c.p. si pone, infatti, in rapporto di genere a specie rispetto al lineamento concettuale del mobbing, condividendo, l’una e l’altra fattispecie, il dato della serialità delle condotte offensive e della loro sistematicità ed unitarietà, quello della corrispondente strumentalità, rispetto alla produzione dell’effetto dannoso voluto (in capo al soggetto “bersaglio”) e quello dell’intenzionalità del contegno attuato. 

Dalla disamina operata in parallelo tra le caratteristiche del mobbing giuslavorativamente inteso ed il reato di cui all’art. 572 c.p. emergono, quindi, svariati punti di contatto, che giustificano la punizione dell’autore anche in sede penale, tuttavia va segnalato che i due fenomeni non coincidono specularmente (v. Cassazione Penale, Sez. 4, 26 giugno 2009, n. 26594). 

In primo luogo, infatti, con la citata sentenza la Suprema Corte ha delimitato l’ambito applicativo del reato previsto dall’art. 572 c.p. alle fattispecie costituenti mobbing precisando, appunto, come in tale circostanza il rapporto lavorativo dedotto, avuto riguardo alla dell’art. 572 c.p., debba comunque essere caratterizzato da "familiarità", nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della famiglia, deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole.

A parere della Corte, dunque, il reato di maltrattamenti potrebbe ipotizzarsi soltanto nel limitato contesto di un rapporto lavorativo di natura para-familiare e non, invece, nel caso in cui tale fenomeno si abbia a manifestare nell’ambito di un’articolata organizzazione aziendale, come tale priva quell’aspetto personalistico e relazionale richiesto dall’art. 572 c.p.. 

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, inoltre, va osservato che, mentre nel mobbing l’agente aspira ad un risultato ben preciso, consistente nell’intento specifico di emarginare il lavoratore dal contesto lavorativo ledendone la dignità, fino a determinarne, in alcuni casi, il licenziamento, nel delitto di maltrattamenti, invece, l’agente si prefigge il più generico scopo di far soffrire, prevaricare, e dimostrare la propria autorità nei confronti della vittima. [6]

Qualora, dunque, si accerti che lo scopo dell’autore del fatto, perseguito con il suo comportamento o col consentire ad altri di vessare un collega, non ha ad oggetto la sottoposizione del soggetto passivo a sofferenza (dolo ex art. 572 c.p.), bensì esclusivamente altre finalità (licenziamento del dipendente) il reato di maltrattamenti potrebbe ragionevolmente non sussistere.

- RAPPORTI CON IL DELITTO DI VIOLENZA PRIVATA 

Sotto diverso aspetto, la condotta vessatoria di un datore di lavoro che sia tale da  determinare  nel soggetto passivo, attraverso la costante pressione di una minaccia più o meno velata, una condizione patologica tale da sfociare poi in una sindrome postraumatica da stress,  può altresì qualificare la fattispecie della violenza privata di cui all’art. 610 c.p. (v. Cass., Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413) .

A norma di tale articolo, infatti, è punito chi, con violenza o minaccia, costringa altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. 

A parere dei giudici di legittimità, gli estremi di tale delitto possono risultare, infatti, integrati, quantomeno sotto l’aspetto del tentativo, nella condotta del datore di lavoro che, al fine di favorire le dimissioni di alcuni lavoratori, ovvero la novazione del rapporto di lavoro in senso ad essi sfavorevole, li destini ad un ambiente di lavoro segregato e avvilente, senza affidare loro alcuna mansione di rilievo, e separandoli, di fatto, dal corpo produttivo dell’azienda.

Come rilevato dalla Suprema Corte nel 2006, infatti, nel sistema vigente, nelle ipotesi di ristrutturazione delle aziende di dimensioni ragguardevoli, il datore di lavoro che intenda risolvere il problema degli esuberi di personale e garantirsi la legittimità del proprio operato deve necessariamente ricorrere agli ammortizzatori sociali ed alle procedure formali predisposte dalla normativa lavoristica (v ad es. L. 223/ 1991). Di conseguenza, qualsiasi diversa risoluzione lo espone non soltanto al sindacato del giudice del lavoro, ma anche, quando vi è il ricorso a strumenti coartatori con sconfinamento in attività previste come reato, a quello del giudice penale.

La marginalizzazione di un lavoratore subordinato dal contesto produttivo, se finalizzata ad ottenere il consenso ad un accordo di dequalificazione, può, dunque, configurare un tentativo di violenza privata. 

Anche in questo caso, tuttavia, la sovrapponibilità del mobbing alla fattispecie di cui all’art. 610 c.p., presenta alcuni aspetti problematici. La figura criminosa in analisi postula, infatti, l’assunzione di comportamenti che siano illeciti in re ipsa, mentre, come si è detto, il mobbing può diversamente consistere anche in più atteggiamenti singolarmente conformi all’ordinamento.[7]

L’art. 610 c.p. può, pertanto, dar luogo ad una repressione penale di fatti di mobbing, esclusivamente nei casi in cui l’agente impieghi, nei confronti del lavoratore, mezzi di costrizione della volontà, informati a violenza e/o minaccia. 

Inoltre, come già evidenziato con riferimento al delitto di maltrattamenti, anche in tale ipotesi va segnalata una differenza tra le due fattispecie sotto il profilo dell’elemento psicologico, ravvisabile,  nel mobbing, nella persecuzione sistematica finalizzata  all’isolamento lavorativo del dipendente e, nell’altra, del tutto differentemente, nella coercizione della volontà altrui, quanto al fare, al non fare, al tollerare qualcosa.

- IL MOBBING NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E RAPPORTI CON IL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO. 

Con differenti decisioni, la Cassazione si è altresì pronunciata sulla rilevanza penale del mobbing all’interno della Pubblica Amministrazione, con particolare riferimento alla sussunzione del fenomeno nella fattispecie di abuso d’ufficio previsto all’art. 323 c.p. (v. Cass., Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891). 

Ai sensi di tale norma, è punito «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto».

Al riguardo, va evidenziato che, con legge 16 luglio 1997 n. 234, il legislatore ha modificato la struttura oggettiva della fattispecie sul modello dei reati di evento, facendo coincidere il nucleo centrale del fatto punibile con la produzione di un vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto.

Come si nota, a differenza del vantaggio richiesto dalla norma in esame,  che deve essere patrimoniale, l’evento di danno è, invece, menzionato nella fattispecie senza alcuna specificazione, con la conseguenza che il pregiudizio arrecato a terzi può avere tanto carattere patrimoniale quanto carattere non patrimoniale e può, dunque, sussistere anche allorquando il pubblico dipendente subisca lesioni di ordine biologico, morale o esistenziale a seguito della condotta mobbizzante.[8] 

La legge subordina, tuttavia, la punibilità dell’abuso al fatto che codesto avvenga con modalità tipiche, vale a dire «in violazione di norme di legge o di regolamento». 

Al riguardo, la richiamata giurisprudenza, trattando un caso di mobbing (v. Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891), ha individuato la ricorrenza di tale elemento richiesto dall’art. 323 c.p. nel demansionamento del dipendente pubblico, se adottato dal dirigente in evidente violazione di disposti normativi o di previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali (v. D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 sui dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e dell’art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel D.P.R. n. 593 del 1993). 

In seconda analisi, per quanto attiene l’elemento soggettivo del reato, l’abuso, per essere punibile, deve altresì essere commesso intenzionalmente: ossia mediante la rappresentazione e volizione dell’evento di danno altrui, ragionevolmente qualificabile "ingiusto", come conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito (cfr. Cass. Sez VI, sent. 28 gennaio 2008, n. 7973).

Sarà, dunque, configurabile il reato previsto all’art. 323 c.p. nel caso in cui l’intento del soggetto pubblicistico sia quello di recare un danno al dipendente mediante la reiterazione di comportamenti tesi a dequalificare professionalmente la parte lesa attraverso un’attività amministrativa illegittima. 

Anche la sussunzione del mobbing nel delitto di abuso d’ufficio incontra, tuttavia, le limitazioni proprie delle caratteristiche del reato in esame: in quanto reato “proprio”, infatti, può essere commesso esclusivamente da un soggetto che rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

In seconda analisi, è, poi, necessario che l’abuso sia realizzato “ nello svolgimento delle funzioni o del servizio” : sono, infatti, escluse dall’ ambito della norma quelle forme di abuso realizzabili dall’agente senza servirsi in alcun modo dell’ attività funzionale svolta, e cioè mediante il semplice sfruttamento della qualifica soggettiva o della sua posizione.

Di conseguenza, non solo il delitto sarà escluso ogniqualvolta il mobbing non venga commesso nell’ambito di un rapporto di lavoro presso la Pubblica Amministrazione, ma anche quando, pur all’interno di un ambito lavorativo pubblico, la condotta sia stata posta in essere in assenza dei presupposti normativi sopra evidenziati.

- RAPPORTI CON LO STALKING 

Proprio le difficoltà incontrate nell’individuare un’efficace tutela penale a favore della vittima di mobbing, hanno, quindi, determinato il proliferare di nuove proposte anche in sede legislativa.

Il legislatore italiano, infatti, intendendo colmare una lacuna del nostro ordinamento, che in tema di molestie/stalking non prevedeva alcuna sanzione, con D.L. 23 febbraio 2009, n.11 (convertito con modifiche dalla L. n. 38 del 23 aprile 2009) ha introdotto nel codice penale  la norma di cui all’art. 612-bis rubricata “atti persecutori”.

Si tratta, invero, di un intervento  legislativo che corrisponde a una strategia di cd. “disciplina integrata”, vale a dire che non si limita ad inserire una nuova incriminazione nel codice penale, ma che prevede altresì un insieme di altre disposizioni riguardanti i provvedimenti cautelari, la normativa civilistica in materia di  allontanamento dalla casa familiare ed i poteri di polizia, mediante l’introduzione della nuova misura dell’ammonimento da parte del questore. [9]

Tale norma, al comma 1, dispone che: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque con  condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia e di paura ovvero di ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria  o di un prossimo congiunto o da persona legata al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Ai sensi dell’art. 612 bis c.p. diviene, quindi, autonomamente punibile la condotta di chi ponga in essere una serie di comportamenti assillanti - rappresentati da pedinamenti, telefonate  indesiderate o messaggi di posta elettronica, minacce, ingiurie, violenze, danneggiamenti di cose di proprietà della vittima - tali da comportare delle conseguenze psichiche dannose sulla vittima. 

La difficoltà descrittiva del fenomeno – evidenziata anche in questo caso dal necessario ricorso ad un termine tratto dal linguaggio inglese della caccia (“stalking”) che, al pari del mobbing, evoca l’idea di un agguato predatorio – comporta, anche in questo caso, l’ulteriore problematica connessa al sopra evocato rispetto delle garanzie penalistiche  della determinatezza del fatto incriminato.

Per ovviare a tale difficoltà, il legislatore ha, dunque, provveduto a tipizzare la condotta tipica del reato di cui all’art. 612-bis c.p. attraverso il riferimento alternativo ad elementi descrittivi di altre fattispecie di reato tradizionalmente previste nel nostro ordinamento, quali quelle delle sopra descritte “minaccia” e “molestie”, che potessero presentare delle affinità con le condotte persecutorie più frequentemente ricorrenti nella vita sociale attuale. 

Peraltro, con riguardo al fenomeno del mobbing, va rilevato che già la Corte di Cassazione, con la richiamata sentenza n. 26594/2009, emessa poco prima dell’entrata in vigore della legge n. 38/2009, nel ritenere che tale fattispecie potesse, in talune ipotesi, integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia ex 572 c.p., aveva già provveduto ha ricostruire gli elementi tipici di tale fattispecie in maniera analoga a quella prevista all’art. 612 bis c.p., ossia connotandola dai seguenti tratti essenziali:

-determinate condotte, definite come “pratiche persecutorie”;

-una particolare vittima, il “lavoratore dipendente”;

-uno scopo specifico di “emarginazione” del soggetto passivo. 

Come si vede, dunque, nel mobbing i comportamenti persecutori, significativamente definiti “pratiche” dalla citata giurisprudenza, risultano connotati da quello stesso requisito della reiterazione seriale che connota anche le condotte incriminate come stalking, realizzate, anche in questo caso, attraverso comportamenti minacciosi o molesti.

Pur non trattandosi propriamente di una norma penale riferibile agli ambiti lavorativi, va rilevato, infatti, che, anche con riferimento al reato previsto all’art. 612-bis c.p., possono riscontrarsi dei collegamenti incidentali fra situazioni interne ed esterne al lavoro (ad es. lo stalking “occupazionale”, come eventuale dinamica a supporto del mobbing, le persecuzioni e molestie a carico del lavoratore o di persone vicine, etc.).

Le condotte persecutorie incriminate dalla ricordata disposizione penale sono, dunque, compatibili nell’ambito un rapporto di lavoro tra vittima e persecutore, di conseguenza può ragionevolmente ravvisarsi il reato in esame nel caso in cui la vittima sia un lavoratore dipendente subordinato all’autorità dell’aggressore (datore di lavoro o superiore gerarchico). 

La condotta tipica punita nel reato di stalking si pone, dunque, in un rapporto di genere a specie con l’affine fenomeno di mobbing, dal quale si differenzia, appunto, poiché presuppone che la condotta persecutoria si manifesti, più in generale, nell’ambito della vita privata della vittima e non specificamente sul posto di lavoro. 

Il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. è poi un delitto a dolo generico, di tal che, una volta che vi sia volontà e consapevolezza delle condotte realizzate e degli eventi cagionati, la circostanza che l’agente persegua anche una sua particolare finalità - quella cioè di emarginazione sociale della vittima in ambito lavorativo - non esclude certo la ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato.

D’altro canto, proprio il particolare scopo di emarginazione che caratterizza il cd. mobbing può determinare, piuttosto che un improbabile e certamente più raro stato di grave e perdurante paura o il timore per l’incolumità personale propria o altrui, uno stato grave e perdurante di ansia ed ancor più un mutamento delle abitudini di vita della vittima.

Posto, infatti, che l’analogia tra i due fenomeni si manifesta, soprattutto, nella determinazione della conseguenza lesiva di tale condotta, usualmente descritta in letteratura come disturbo post- traumatico da stress, va rilevato che, nel reato previsto ex art. 612-bis, gli effetti della condotta vessatoria sono stati tipizzati attraverso il riferimento alternativo a termini descrittivi, quali, ad esempio, lo stato di ansia o di paura, ulteriormente qualificato come “grave e perdurante”, il fondato timore della vittima per l’incolumità propria o di persone a lei vicine, nonché l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Elemento differenziale delle fattispecie descritte, è, tuttavia, anche in questo caso, che nel mobbing le singole condotte vessatorie sono sfumate e possono anche non assumere in sé rilevanza penale o di illecito civile, mentre nel caso del reato di atti persecutori ciò che caratterizza l’elemento costitutivo è che i comportamenti stalkizzanti costituiscono di per sé reati autonomi. Il reato si attua, infatti, attraverso minacce e molestie - insieme o in alternativa - e quindi con azioni che di per sé sono punibili come reato, poste in essere per un ulteriore scopo vietato dalla legge.   

CONCLUSIONE 

Pur nella consapevolezza della difficoltà di stabilire con precisione le fattispecie concrete degli atti e dei comportamenti attraverso i quali si possono verificare la violenza e la persecuzione psicologica ai danni dei lavoratori, è evidente che il mobbing in quanto tale dovrebbe trovare, nel nostro ordinamento, un’autonoma rilevanza penale e, dunque, una risposta sanzionatoria non limitata al risarcimento del danno davanti al giudice del lavoro.

Alla luce di quanto sopra evidenziato, si è visto, infatti, come la responsabilità penale dell’autore di mobbing risulta, infatti, ancora difficilmente dimostrabile.

Preso atto di tali differenze strutturali tra il mobbing e i delitti sopra esaminati, non resta che auspicare, quindi, l’introduzione di una normativa ad hoc, che, al pari di quanto è avvenuto con riferimento agli atti persecutori tipizzati nel reato di stalking ex art. 612-bis c.p., protegga finalmente la vittima con strumenti adeguati. 

Tuttavia, anche nella formulazione di una norma specifica sul tema, onnicomprensiva di tutti i possibili comportamenti di mobbing, sarà necessario rispettare il principio di legalità, sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie penale, ottemperando sempre al principio di meritevolezza della pena sotto il profilo della razionalità della fattispecie e dell’uguaglianza/ dissonanza punitiva fra i vari comportamenti criminosi. [10]

Per completezza di trattazione, va segnalato, al riguardo, che con legge 20 giugno 2008 n. 97, in tema di prevenzione e repressione della violenza contro le donne, la Repubblica di San Marino ha introdotto norme particolarmente innovative in materia di mobbing e stalking, disciplinando, prima che in Italia, la fattispecie penale di atti persecutori, non soltanto riferita allo stalking, bensì anche al fenomeno di mobbing.

L’art. 13, l. 97/2008, introduce, infatti, nel codice penale sanmarinese del 1975 il nuovo reato di atti persecutori (art. 181 bis c.p. S. Marino), che si compone di due fattispecie distinte, la prima della quale attiene al fenomeno dello stalking, mentre la seconda, specificamente riferita al mobbing, prevede che: "Qualora le molestie o le minacce di cui al primo comma siano poste in essere nel luogo di lavoro sotto forma di sistematiche e ripetute angherie e pratiche vessatorie compiute dal datore di lavoro o da colleghi allo scopo di svalutare professionalmente, umiliare, isolare un lavoratore, nel tentativo di indurlo, dopo avergli procurato gravi sofferenze psicofisiche, alle dimissioni, la pena è aumentata di un grado".

Benché con una formulazione migliorabile, la Repubblica di San Marino offre, dunque, al nostro Paese un valido strumento di comparazione per l’introduzione nel nostro ordinamento di una analoga fattispecie penale. Allo stato attuale, infatti, l’evidenziato  lavoro operato dai giudici, sia di merito che di legittimità, si sta configurando sostanzialmente come suppletivo di quello del legislatore, ancora inadempiente anche rispetto a una direttiva del Parlamento Europeo del 2002 [11] che espressamente richiedeva la predisposizione di misure legislative idonee a prevenire e reprimere efficacemente il fenomeno del mobbing e nel contempo a definirne la fattispecie.

Per quanto, infatti, l’orientamento giurisprudenziale attuale appaia favorevole nel definire come reato criminale il mobbing, si è visto come non sia certo sufficiente, nel nostro ordinamento, una tutela affidata a questo genere di decisioni, basate, appunto, sulla prossimità alle altre fattispecie previste dal codice penale.

E’, quindi, auspicabile che presto venga dato corso ad un disegno di legge omogeneo che recepisca gli orientamenti internazionali e nazionali su questo tema molto delicato, soprattutto in un periodo di pesante crisi economica come quello attuale, che rischia di incentivare il fenomeno, alimentando ulteriori tensioni e incertezze sul luogo di lavoro. 

[1]C. Perini, La tutela penale del mobbing, in A.a.V.v., Mobbing, organizzazione, malattia professionale, (Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali), Utet, Torino.

[2] v. ad es. DDL C. 3048 del 15.12.2009

[3] P. Pittaro, Intervento programmato al Convegno su “Stalking e maltrattamento in famiglia: misure di contrasto e prevenzione” – Trieste – 3 ottobre 2007.

[4] P. Soprani, La sindrome da mobbing, su http://promo.24oreprofessioni.ilsole24ore.com

[5] V. Proposta di legge n. C-6410 del 30/9/1999 e proposta di legge n.C-1813 del 9/6/1996.

[6]Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982

[7] F. Ferrari “Se il dipendente è confinato nel lager mobbing il persecutore è perseguibile”, D&G, n. 38/06.

[8] G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, 4ª ed., Bologna, 2007.

[9]  G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto Penale. Parte speciale, vol. II, tomo II, ed. II (addenda), Bologna, 2009

[10] P. Pittaro, Intervento programmato al Convegno su “Stalking e maltrattamento in famiglia: misure di contrasto e prevenzione”, cit.

[11]Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13/6/2002 (modifica alla Direttiva 76/207/CEE)