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Mobbing al dipendente: condannato il Comune di Napoli

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Con sentenza n. Sentenza n. 449/2022, depositata il 04/02/2022, il Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro, nella persona del giudice Dott.ssa Giovanna Picciotti, ha condannato la P.A. al risarcimento del danno da straining (forma attenuata di mobbing), nei confronti di un dipendente comunale.

In particolare, la sentenza in oggetto, richiamando il quadro probatorio, così come ricostruito all’esito dell’istruttoria svolta e dell’esame della documentazione agli atti, riporta analiticamente il convincimento giudiziale.

Il giudice premette, in sentenza che, secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (v. Cass. n. 26684 del 10/11/2017; Cass. n.2437 del 21/05/2018) ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (v. ex multis Cass. 6.8.2014 n. 17698; Cass. 24.11.2016 n. 24029).

Nel caso in contestazione, quindi, il tribunale ritiene sussistere, non tanto un vero e proprio fenomeno di mobbing, quanto, piuttosto, del cd. “straining”. Trattasi di una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie; tali azioni, però, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’articolo 2087 Codice Civile, norma di cui, è noto che da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Costituzione (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977).

Il datore di lavoro è, invero, tenuto a evitare situazioni ‘stressogene’ che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, la già citata Cass. n. 3291/2016, nonché Cass. n. 7844 del 29/03/2018 e Cass. n. 18164 del 10/07/2018).

La mancanza dell’elemento soggettivo dell’animus nocendi, non inferisce, però, sulla considerazione per la quale, la predetta condotta risulta essere stata, in ogni caso, contraria ai predetti principi di buona e fede e correttezza; e, in ragione del ripetersi nel tempo, ha creato una situazione stressogena, cui verosimilmente ha contribuito – senza che ciò possa elidere il nesso causale – la condizione di debolezza psico fisica vissuta in quel momento dal dipendente.

Le conseguenze, in termini risarcitori, ritenendo così integrata la fattispecie dello “straining”, ricadono sul datore di lavoro.

A confortare le conclusioni cui il tribunale è giunto, vi è anche il “Codice di condotta sul Mobbing” adottato dal Comune in questione, nel quale gli episodi che hanno caratterizzato la controversia risultano espressamente indicati come aspetti del rapporto di lavoro per il quale si richiede che il datore di lavoro, o i suoi preposti, apprestino le dovute misure per tutelare la salute del personale dipendente.

Acclarata, pertanto, la violazione da parte del datore di lavoro pubblico dell’articolo 2087 c.c., nella forma dello straining, il Giudice ha provveduto alla valutazione del danno conseguenza e della sua risarcibilità.

Nel corso del giudizio è stata disposta consulenza medico legale ai fini dell’accertamento della derivazione della patologia di cui il ricorrente assume essere affetto e i predetti comportamenti stressogeni del datore di lavoro.

Il CTU nominato ha ritenuto che il dipendente comunale è affetto da disturbo dell’adattamento persistente con ansia e umore depresso di grado moderato; di seguito, ha affermato che la descrizione degli eventi, come indicati in ricorso e risultati provati a seguito della istruttoria svolta e della documentazione in atti, deponesse, in ossequio al criterio di ragionevole probabilità del presunto antecedente causale, a favore della sussistenza del nesso causale della malattia. Acclarato, quindi, il rapporto causa-effetto tra la patologia e l’evento, il CTU, negli elaborati in atti, ha affrontato la questione della valutazione dei postumi permanenti invalidanti.

In tema di liquidazione del danno per la lesione del diritto alla salute, nei diversi aspetti o voci di cui tale unitaria categoria si compendia, l’applicazione dei criteri di valutazione equitativa, rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, deve consentirne la maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento, anche attraverso la ed. personalizzazione del danno (Cass., Sez. Un., n. 26972/08).

Per quanto attiene, quindi, alla quantificazione in concreto del pregiudizio complessivamente subito dal ricorrente, il giudicante ha ritenuto l’adozione di criteri di liquidazione predisposti dal Tribunale di Milano.

Si tratta, invero, di parametri già ampiamente diffusi sul territorio nazionale - e ai quali la S.C. (v. sent. Cass. 12408 del 2011 citata) - in applicazione dell’articolo 3 Costituzione, riconosce la valenza, in linea generale, di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli articoli 1226 e 2056 Codice Civile, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono (v. anche Cass. n. 8532 del 6/5/2020 sulla efficacia para-normativa). 

In tema di denominazione risarcitoria, il giudice ha effettuato il raffronto tra risarcimento del danno civilistico ed indennizzo erogato dall’INAIL: vanno, dapprima, distinte le due categorie di danno (patrimoniale e non patrimoniale); il danno patrimoniale calcolato con i criteri civilistici va comparato alla quota INAIL rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato (volta all’indennizzo del danno patrimoniale); in ordine al danno non patrimoniale, effettuato il calcolo secondo i criteri civilistici, vanno, dapprima, espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) che spettano interamente al danneggiato e, poi, dall’ammontare complessivo del danno non patrimoniale così ricavato (corrispondente al danno biologico) va detratto (non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo) il valore capitale della quota della rendita INAIL destinata a ristorare, in forza dell’articolo 13 d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso.